"Gazzetta di Parma" del 27 dicembre 1881

È inutile con giri di frase nascondere la verità: il successo dell'Africana, iersera al Regio, non è stato molto brillante. Di chi la colpa? È difficile il dirlo; pure mi ci proverò, procurando d'essere il più possibile imparziale. Per me, la prima colpa è di chi ha scelto lo spartito. Non voglio già dire che l'Africana sia un'opera di scarto, o da mettere nei ferravecchi. L'Africana contiene insigni bellezze, le quali però sono troppo diluite in cinque eterni atti, dove abbondano le noiosità, le stiracchiature. Dell'illustre maestro elemanno, questa è l'opera del repertorio moderno, la meno riescita. La sua impronta monotona non potrà mai, a mio avviso, trascinare un pubblico all'entusiasmo. Ebbe - è vero - un esito felice, qui in Parma, allorché la si rappresentò per la prima volta nel carnevale 1864-65; ma allora aveva il pregio della novità, che tanto per le opere come per le donne conta assai; eppoi il pubblico, allora, si piccava di capire ed apprezzare questo genere di musica che, tra noi, da pochi anni veniva eseguito, quindi applaudiva anche senza molta convinzione. Ma io non intendo fare una critica dell'Africana. Me ne guardi il cielo, tanto più che si tratta di cosa passata in giudicato. Per me, il difetto massimo di quest'opera è che esige, oltre ad ottimi artisti, numerose seconde parti e buone ed imponenti masse corali, senza contare la messa in scena, che guai se non è splendida. Si potevano avere coi mezzi di cui dispone attualmente il Regio, artisti tutti buonissimi, cori numerosi? Era quasi impossibile lo sperarlo ed il fatto, come dirò più avanti, lo ha mostrato. Un altra ragione del semi insuccesso è la mancanza di una direzione nel palco scenico. Non mi era mai accaduto di vedere, per esempio, scendere il sipario, tutti gli atti, prima del tempo ed in modo da tagliare delle scene intere. Ecco: ammetto che il panico faccia commettere delle grandi corbellerie; che ai cantanti faccia fare delle stecche ed alle ballerine dei passi falsi, anche sul palco scenico; ma che debba pure esser preso dal panico il tiranno del sipario, in modo da troncare qualche scena o da mandare a male un finale, questo, poi, non arrivo a mandarla giù. Ed una brava parte di colpa l'ha pure il signor pubblico, che iersera, sia per certi suoi applausi fuori di posto ed ancora più per talune altre disapprovazioni ingiuste od eccessive, mi ha riconfermato nella mia opinione che l'attuale non sia più, in fatto d'intelligenza, il pubblico d'una volta. Qui sarebbe il caso di dare un giudizio della compagnia di canto. Ma è possibile darlo coscienziosamente, imparzialmente, dopo la semi baraonda di iersera? Come è possibile che dopo il contegno arcigno del pubblico e tutti gli inconvenienti che si verificarono sul palco scenico, gli artisti, non fossero paralizzati? Bisognerebbe essere senza cognizione e senza cuore per non ammetterlo. E in quanto a me sono disposto a sospendere qualsiasi severo giudizio e ad attendere per valutare il merito degli artisti, quando si siano un poco rimessi dal panico. Tuttavia, siccome ho sentito le prove, mi sembra che questa compagnia di canto sia niente affatto inferiore a quello che il pubblico può ragionevolmente pretendere. La signora Pantaleoni (Selika) è un'artista di merito troppo conosciuto, perché voglia dilungarmi di soverchio nel tesserne le lodi. Ha voce bella, calda, estesa, intonatissima; canta con squisito sentire; fraseggia deliziosamente; sta in scena da perfetta artista. Di lei non si perde né una nota, né una parola. Fu applaudita calorosamente - e come star zitti? - alla sua aria "Figlio del sol" ed in talune frasi del duetto; con tuttociò - lo dico con dispiacere - il pubblico non le fece tutta quella festosa accoglienza che meritava. La signorina Bazzani - ottima artista nel genere leggero - non mi sembrò fosse molto a posto nella parte d'Ines, o meglio non mi è parso che i suoi mezzi vocali s'attagliassero all'ambiente, vasto molto ed abbastanza sordo; ma a questa sua deficenza supplisce con una voce gradevole e con molta buona volontà, di cui non si può ameno di tenerle conto. Il tenore Bellotti ha voce robusta specialmente negli acuti e sono persuaso che, ove si rimetta dalla paura, finirà per piacere - forse più degli altri. Conosco i miei polli. - Anche il baritono ha pregi non comuni e agli Aristarchi di iersera vorrei far risovvenire che razza di baritoni si sono sorbettati l'anno scorso. Il sig. Sivori disse quella stupenda frase "Immenso è il sacrificio" in modo da strappar l'applauso. Buono il basso sig. Villelmi. Buone anche le seconde parti, che non guastano. In quanto ai cori è impossibile negare che non siano deficenti. Nei pieni essi sono soffocati. Giustizia vuole però che si dica, che se si sentono poco, non si sentono nemmeno quelle siffatte babilonie per cui negli anni scorsi andavano famosi. Anzi dirò che la difficilissima scena del consiglio e la preghiera "O grande San Domenico" sono andati d'incanto e in modo che qualunque pubblico intelligente sarebbe prorotto in applausi. Benissimo l'orchestra sotto la valente direzione di Pio Ferrari, il quale, a furia di pazienza e quasi d'ostinatezza è riuscito a togliere degli sconci gravissimi che avevano finito per passare inosservati, tanto erano diventati comuni. Il famoso preludio dei violini nell'atto 5° fu bissato. Più che decente, lussuriosa è la messa in scena; belle ed applauditissime le scene del prof. Magnani, specialmente la prima e la quarta. L'ultima mi sembra fredduccia e mancante di tinta locale. Riassumendo, dirò che l'esito di iersera non può dirsi definitivo e credo che le cose andranno migliorando man mano che tra pubblico ed artisti si stabilirà quella corrente di simpatia ch'è indispensabile affinché lo spettacolo cammini. In ogni caso credo che molto difficilmente si potrà ottenere uno spettacolo migliore.


"Gazzetta di Parma" del 28 dicembre 1881

La seconda rappresentazione dell'Africana è andata, si può dire, a gonfie vele. Gli artisti si sono mostrati assai più sicuri ed il pubblico ha smesso il broncio della prima sera ed è venuto a più miti consigli. E dire che tanti sono andati a teatro con la ferma persuasione di assistere ad un massacro ed invece hanno assistito ad una specie di trionfo! Fate, dunque, dei pronostici in materia teatrale! Anche Mathieu de la Drome ci perderebbe il suo latino. Ecco intanto la cronaca della serata di ieri. Applausi: alla signorina Bazzani finita la sua romanza del primo atto. Applausi all'apparire di Selika e Nelusko. Nel second'atto, applausi strepitosi alla signora Pantaleoni finita l'aria "Figlio del sol". Il settimino procurò applausi alla signorina Bazzani, ma non forse come la prima sera: né io so comprenderne il perché, visto che quel finale è andato, iersera, molto meglio. Il terz'atto, il più stucchevole dell'opera, il coro disse assai bene la preghiera ed il pubblico si ostinò a non applaudire. Vi furono in qua ed in là qualche applauso al baritono. Nel quart'atto il signor Sivori ebbe applausi ed una chiamata dopo la sua aria "Immenso è il sacrificio"; nel duetto, soprano e tenore vennero, in più d'un punto applauditi, e terminato l'atto furono chiamati due volte al proscenio. - II quint'atto venne falcidiato in modo che ora si riduce al preludio delle sedici battute, bissato; alla scena dal manzanillo e a due o tre battute di coro interno. Se non fosse pel piacere di festeggiare la signora Pantaleoni, per me se quest'atto lo sopprimesse del tutto, non me ne lagnerei, ma appunto pel gusto di applaudire quell'egregia artista, si può affrontare gli affluvi del manzanillo, che, ove non sia in scena un'artista di merito non comune, fanno l'effetto di una forte dose di papavero. E la dimostrazione che iersera venne fatta alla signora Pantaleoni, deve averla soddisfatta nel suo amor proprio d'artista. Dopo ciò credo di non azzardar molto nel prevedere assicurato l'esito di quest'opera e perciò della stagione.
Z.


"Il Presente" del 6 gennaio 1882

Questa sera si riprendono le rappresentazioni dell'Africana col nuovo tenore De Bassini. Questo artista non è molto conosciuto fra noi, dovendo Egli riconoscere dai teatri stranieri il nome di buon attore-cantante che si è acquistato in arte. In Italia, ha cantato, con ottimo successo, in alcuni teatri, e non ha guari, riuscì lodato ed applaudito al Paganini di Genova, dove interpretò la Contessa di Mons. e la Carmen di Bizet. L'Impresa scritturando questo tenore crede aver fatto il possibile per assicurare l'esito dello spettacolo, presentando un artista, atto a soddisfare le esigenze dei nostri concittadini, i quali vorranno considerare quanta sia oggi la scarsezza di valentissimi tenori, e come ad averli sia insufficente la tenue dote che il Municipio concede per gli spettacoli iemali. I Campanini, i Naudin, i Barbacini non sono sempre lì coi loro Ruy-Blas colle loro Lucie, colle loro Aide per un teatro che, pieno di gloriose tradizioni, domanda molto e vuol pagare pochino. Con questo non intendiamo dire che i nostri concittadini si abbiano ad avvezzare a plaudire i cantanti che non intonano e gli attori che stanno Duri e piantati là come un piuolo; ma diciamo che le esigenze nostre debbono rimanere in correlazione agli esiqui mezzi dei quali ci è dato valerci. Se il pubblico si recherà stasera in teatro convinto della bontà di questa considerazione, pronuncierà sul nuovo Tenore e sullo spettacolo un giudizio che, senza offendere i diritti dell'arte, s'informerà a quelle norme di benevolenza e di equità a cui, nel presente stato del nostro Regio, dobbiamo attenerci di fronte ad un'Impresa qualsiasi, e specialmente di concittadini.


"Il Presente" del 7 gennaio 1882

Le sorti dell'Africana si sono ieri sera rialzati. Il nuovo tenore De Bassini, giunto fra noi quasi sconosciuto e senza romoroso accompagnamento di gran Cassa, incontrò il gusto della generalità. Non ha voce bella, né possente: ma la modula con garbo e la rende piacevole. Canta molto aperto, un pochino lento, appoggiandosi con singolare compiacenza sulle parole: sa risparmiarsi nei ripieni di orchestra, per emettere le note di risorsa quando più sonoramente si spanderanno: non ardisce i perigliosi pinacoli del registro sovracuto come l'infelice suo predecessore, e procede securo di giungere in porto. Insomma se il nostro Vasco di Gama non è audace come Cristoforo Colombo, è cautelato al pari de' moderni Navigatori non ignari delle tempeste e ammaestrati dalla molta esperienza. A concludere, è egli il tenore dell'Africana? La Canta come è scritta? Noi diciamo: il tenore De-Bassini è un artista che devesi non solo tollerare ma lodare, e fece bene l'uditorio ad applaudirlo nel corso dell'opera e nel soavissimo duetto con Selika. L'Impresa scritturando questo tenore, che produrrebbe anche maggiori effetti in meno vasto ambiente, ha provveduto ottimamente a togliere da ogni incertezza lo spettacolo, ed il pubblico deve incoraggiarla accorrendo alle rappresentazioni dell'Africana. La tirannia dello spazio c'impedisce di distenderci di più: torneremo ancora, con altro gazzettino, sull'argomento.


"Il Presente" del 12 gennaio 1882

Chi vorrà fare il profeta a questi lumi di luna? Ieri spirava un'aura molto avversa al tenore De Bassini e s'udiva da moltissimi dire: il nuovo Tenore non è artista per le nostre massime scene: non ha voce sufficiente: stasera sarà fischiato. Invece il De Bassini non ebbe mai accoglienze così festose come ieri sera, sebbene alcuni pochi non abbiano voluto in verun conto astenersi dai segni di disapprovazione. Vedendo Egli come l'importanza della terza rappresentazione fosse grande e per lui perentoria, adoperò tutte le forze e remosse il tetro nembo che gli bombiva sul capo. E davvero che Ei cantò assai bene, modulando con grazia ed accentando convenevolmente. Il nostro pubblico che, a buon diritto, guarda più ai pregi d'arte che a quelli di voce, salutò spesse volte il De Bassini con calorosi battimani. Il nostro Tenore deve andar lieto del conseguito successo, che smenti le voci di mal'augurio che per le città correvano. Chi, poi, ottenne come sempre i primi onori della serata, fu la simpatica Romilda Pantaleoni, che ci fece tanto profonda impressione al Dal Verme di Milano quando l'udimmo, nella Stella di Auteri, accanto a valente attore cantante Eugenio Mozzi. Anche fra noi la Signora Pantaleoni non vien meno alla bella fama acquistatasi, e da prova continua dell'arte invidiabile, di cui le sono schiusi gli arcani. I fragorosi, unanimi applausi, che scoppiarono ieri sera ad ogni frase da lei detta con somma passione e maestria, e le chiamate al proscenio le sono testimonianza che l'uditoio va sempre più riconoscendo ed acclamando i molti e cospicui suoi meriti. Facciamo colla valente attrice le nostre congratulazioni. Questa sera 7a rappresentanzione dell'Africana.


"Gazzetta di Parma" del 22 gennaio 1882

Ad onta dei molti anni che ha su la groppa, l'Ernani è pure una gran bell'opera! Torcano pure il muso fin che vogliono gl'intelligenti per posa, gli avveniristi quand méme; ma il pubblico è della mia opinione. Peccato che quella musica voglia essere cantata e iersera, via, siamo giusti, la si è cantata, invece pochino assai. È vero che non bisogna mai giudicare dall'esito della prima sera; ma io, che debbo appunto narrare la cronaca della serata, non posso a meno di convenire che ci si è dato un Ernani calante di parecchie oncie. Non erano nemmeno le solite dieci che i bottegai dànno ai loro avventori in cambio di una libbra. Il baritono non era in voce ed in più di un punto è rimasto insufficiente; tuttavia la parte di Carlo V gli si attaglia molto meglio che quella di Nelusco e son persuaso che un'altra sera farà meglio e piacerà di più. Il tenore se l'è cavata assai più coll'arte che con la voce, che ne ha pochina. Qualche pezzo l'ha cantato benino e con molta grazia: ma in certe frasi di forza è restato di troppo inferiore e, naturalmente, l'effetto del pezzo se n'è ito. La donna ha buonine due o tre note acute e punto note centrali e basse. Il vecchio Silva ha cantato correttamente la sua parte; la quale però è stata scritta per un basso profondo e non per un basso centrale baritoneggiante. Chi invece, andò bene fu l'orchestra ed i cori, per la qual cosa dò lode ai maestri Ferrari e Gerbella; ma purtroppo, orchestra e cori, in un'opera come l'Ernani, non bastano a tener ritto lo spartito. Tutto sommato il pubblico non è rimasto gran che soddisfatto. Vi furono degli applausi che deploro, perché in massima parte intempestivi ed esagerati fino al punto da provocare una reazione; deploro del pari le disapprovazioni eccessive. La maggioranza che volle rimandare ad un'altra sera il giudizio definitivo, mi sembra sia nel giusto. Intanto questa sera si replica l'Africana col nuovo tenore Filippi Bresciani.
Z.


"Il Presente" del 23 gennaio 1882

Il tenore Filippi Bresciani, che si produsse ieri sera nell'Africana, ha dovuto combattere un'aspra battaglia e guadagnarsi palmo a palmo il terreno. Venuto a sostenere la parte di Vasco di Gama dopo due colleghi uno dei quali ancora fra noi ed applaudito, il signor Filippi Bresciani non ignorava come la inevitabile necessità dei confronti gli imponesse ardui doveri. Era preso, per ciò, da visibile trepidanza, e la accresceva l'atteggiamento se non ostile di certo vigile e sospettoso del nostro pubblico così severo quando è severo, così sottile quando è sottile, così esigente quando è esigente. Ad onta di tutto questo il Bresciani seppe dominare se stesso e riportò un esito che può dirsi felice. Nei tre primi atti se la passò liscia, liscia, come direbbesi, senza infamia e senza lodo; ma nell'atto quarto, al bellissimo duetto con Selika, scosse la freddezza dell'uditorio e ricevette vivi e generali applausi. Non avvezzi a prodigar lodi e ad ardere incensi agli artisti, dobbiamo confessare che tali applausi ne' sembrano meritati. Il Bresciani non può pompeggiare di uno straordinario volume di voce, ma tratta bene il canto, fraseggia corretto, intende e sente, egregiamente, la parte affidatagli. Nel sembiante pieno di dignità, e nel movere spigliato e sicuro della persona riconosci di leggeri l'Artista, cui non riescono nuove le scene d'importanti teatri. Festeggiatissima, come sempre la bravissima signora Pantaleoni, che rivela ogni sera pregi nuovi, e con lei la signora Bazzani, una bella simpatica Inez, della quale ci corre debito constatare i continui progressi.


"Gazzetta di Parma" del 1 febbraio 1882

L'Impresa del R. Teatro ci dirige il seguente comunicato:
"Ill.mo Sig. Direttore della Gazzetta,
Avendo il Sig. De-Bassini, contrariamente agli obblighi di sua scrittura, abbandonata la piazza, l'impresa rende di pubblica ragione che, il signor Filippi Bresciani si presta gentilmente, non avendo esso obbligo di sorta, a sostituirlo nella parte di Ernani"
Parma, 31 gennaio 1882.
"L'impresa del Regio Teatro"


"Il Presente" del 3 febbraio 1882

All'Ernani, riprodotto ieri sera sulle nostre massime scene, non arrisero le sorti. Il tenore Filippi-Bresciani, che sostenne la parte di protagonista, non trovasi in quest'opera a suo agio come nell'Africana, e non ottenne il successo che gli amici e gli estimatori del suo merito gli desideravano. Forse Egli era stanco dalle prove dovute sostenere per il Salvator Rosa, opera grave alle ugole più robuste: forse trepidava per la necessità di suscitare confronti: forse Egli era in realtà indisposto; ma il fatto è, che l'egregio artista assumendo, sotto il peso di una continuata fatica, la parte non facile dell'Ernani, ha porto maggiore esperimento di generosità, che di cautela. Stendiamo un velo pietoso sulle incertezze degli altri, su certe ostinazioni troppo sensibli ai ben costrutti orecchi; e diciamo per debito di cronisti, che lo spettacolo terminò fra le disapprovazioni di una parte del pubblico.


"Gazzetta di Parma" del 9 febbraio 1882

L'Impresa del R. Teatro ha diretto a questa Direzione il seguente comunicato:
"L'impresa del regio teatro prega la gentilezza di V.S. pubblicare in codesto pregiato giornale che l'egregio signor Filippi-Bresciani, onde dar luogo più sollecitamente all'andata di scena del Salvator Rosa, ha volontariamente ceduta la propria parte al sig. Mozzi non potendo cantare Emani e Africana e nello stesso tempo studiare il Salvator Rosa opera per esso totalmente nuova. Questa sera, dopo tanto aspettare, si riprenderà il corso delle rappresentazioni dell'Ernani col nuovo baritono, sig. Putò.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 10 febbraio 1882

Del nuovo baritono signor Putò sarebbe prematuro dare un giudizio subito, dacché bisogna tener conto ch'egli è andato in scena senza prove e con un gran panico adosso. Egli ha una voce un po' cupa e fraseggia troppo enfaticamente; m'è però sembrato che non sia nemmeno privo di buone doti che forse un'altra sera, potrà meglio risaltare.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 17 febbraio 1882

Non ho che poco tempo e breve spazio da disporre per narrare l'esito della prima rappresentazione del Salvator Rosa, quindi mi limiterò strettamente alla cronaca. Il m. Carlo Gomes può andar lieto dell'accoglienza fatta dal pubblico parmense al suo spartito. I parmigiani hanno dimostrato il loro interessamento all'autore, accorrendo in folla al teatro. Ben raramente mi è occorso di vedere il Regio così affollato: undici file di posti riservati - e ce ne fossero stati degli altri - palchi pienissimi - tranne pochi, i cui proprietari sono in lutto - un loggione, poi, che a guardarlo dava le vertigini. Il successo non è stato, certo, inferiore alla aspettativa e, ciò che è da considerarsi, e non fu un successo artificiale, di quelli che gli amici compiacenti si affannano ad architettare a detrimento dei loro guanti, o che gl'impresari organizzano a spese della magra cassetta. II pubblico, invece, applaudì spontaneo e con calore ai pezzi, la cui melodia spontanea egli poté subito apprezzare. II pubblico non fu giudice né arcigno, né parziale; ma sereno, giustemente benevolo e sono persuaso che vorrà correggere la sua prima sentenza, applaudendo in avvenire taluni pezzi, la bellezza ed importanza dei quali - come sarebbe, per citarne uno, il terzetto del primo atto tra d'Arcos, Isabella e Salvatore - non ha forse subito afferrate. Per restringermi - come debbo - alla semplice cronaca, dirò che il maestro Gomes ebbe una chiamata al proscenio dopo eseguita - assai bene - la sinfonia; un'altra la ballata di Gennariello; un'altra ancora e calorosissima all'ispirata romanza di Salvatore che il signor Mozzi ha cantato da vero artista. Nel secondo atto vi furono di nuovi applausi ed una chiamata al finale della prima scena; poi quattro chiamate ed applausi fragorosissimi, generali al bellissimo duetto d'amore che la signora Pantaleoni - salutata da un lungo plauso al suo apparire su la scena ed il Mozzi cantarono ed eseguirono in modo superiore ad ogni elogio. In questo punto i due egregi artisti, con gentile e delicato pensiero, offrirono al maestro due eleganti corone d'alloro legate con nastro bianco, tra i battimani del pubblico entusiasmato. Nel terz'atto vi fu una nuova chiamata, nel punto in cui Salvatore spezza la sua spada davanti al vice re; altre due chiamate alla romanza d'Isabella, che la signora Pantaleoni ha eseguita in modo da rapire; più due altre alla fine dell'atto. Il quart'atto - a mio avviso il più interessante, sia per la situazione, sia per l'espressione drammatica della musica - è trascorso tra continui applausi a stento frenati dal desiderio di non interrompere il corso dell'azione. Calata la tela il pubblico fece una vera ovazione al maestro ed agli artisti tutti, chiamandoli non ricordo più quante volte all'onore del proscenio. In quanto all'esecuzione debbo dire molto bene in generale. Comincio dall'orchestra, che sotto la direzione di Pio Ferrari fu davvero mirabile per slancio, precisione e buon colorito. Bravissimi tutti, direttore e professori. I cori non sono per verità molto potenti per voce, ma sono andati assai bene e di questo va data lode al loro maestro, signor Gerbella. Tanto il Ferrari che il Gerbella furono condotti dal m. Gomes - che dava manifesti segni del suo soddisfacimento - al proscenio ed il pubblico nel vederli raddoppiò i battimani. Della signora Romilda Pantaleoni dirò soltanto che essa, iersera, ha giganteggiato e che ha saputo centuplicare la simpatia che aveva saputo ispirare nel pubblico. Il suo canto caldo, affascinante; la sua azione intelligente, sempre parca, sono tali da trascinare all'entusiasmo anche il pubblico più freddo ed isigente. Ad ogni sua frase erano applausi mal frenati, grida di brava, che involontariamente erompevano dal petto di tutti. Il suo fu a dirittura un successone. A lei fu degno compagno il tenore Mozzi. Egli ha una voce non robustissima ed alquanto disaggradevole; ma quale simpatico attore; che cantante corretto, che squisito sentimento artistico! Ci furono dei punti, ne' quali egli seppe mettersi ad un'altezza, a cui ben pochi è dato giungere. E sono persuaso, che man mano che il pubblico si assueferà al timbro della sua voce, egli piacerà sempre più. La signorina Bazzani ha messa tutta la sua buona volontà - e di ciò le va tenuto conto - per interpretare a dovere il carattere di Gennariello. Come attrice ci è abbastanza riescita; come cantante essa lascia un poco a desiderare. Non però per sua colpa - mi affretto a soggiungere - ma in causa della parte sovraccuta, la quale non è addatta a suoi mezzi. Anche il baritono signor Sivori ci ha messo tutto il suo impegno. Peccato che qualche nota gli sia stata ribelle! Degno di sincero encomio il basso signor Bologna che ha delle belle note acute. Buone le seconde parti. Dirò anche che l'impresa non ha lesinato né in quanto a vestiari, né in quanto a comparseria. La messa in scena è stata accurata. Ci sono alcuni nei; ma buon Dio, perché sofisticare? Finalmente all'illustre prof. cav. Gerolamo Magnani riserbo i miei più vivi rallegramenti per le splendide sue scene. Ve ne sono talune di un'evidenza, di un effetto veramente meravigliosi. Il pubblico n'è rimasto entusiasmato ed ha fatto all'egregio artista una dimostrazione delle più calorose. Per oggi basta. Ritornerò un'altra volta su questo simpatico argomento.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 18 febbraio 1882

La seconda rappresentazione del Salvator Rosa ha avuto lo stesso lietissimo successo della prima sera. Il maestro, gli artisti, l'orchestra, i cori ebbero applausi e chiamate in quantità. Noto in più, un applauso alla signorina Ortensia Bazzani dopo la sua barcarola, altri applausi al baritono dopo la sua aria nel secondo atto e - in unione col tenore - dopo il duetto del terz'atto, che fu gustato assai più della prima sera. Fu pure applaudito un preludio nel terz'atto eseguito maestrevolmente dagl'istrumenti d'arco. Terminata l'opera, l'orchestra del R. Teatro, si è recata sotto le finestre dell'albergo della Croce Bianca, dove è alloggiato il m. Gomes per fargli una serenata. Il programma consisteva in tre pezzi: la sinfonia in do di Foroni; una suonata per archi di Roeder ed un waltz Mondelfen di Farbarck. Moltissima gente assisteva a questa serenata ed essa applaudì alla esecuzione perfetta e piena di slancio, prendendo argomento per fare, nell'istesso tempo una clamorosa dimostrazione al m. Gomes, il quale dovette replicatamente affacciarsi alla finestra per ringraziare commosso il pubblico.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 19 febbraio 1882

Ieri sera ci fu burrasca al Regio. Gli abbonati si credettero lesi nei loro diritti che l'inattesa rappresentazione dell'Ernani venisse computata come una serata d'obbligo e reagirono in modo che si dovette sospendere lo spettacolo a metà il second'atto. Veniva il buttafori a dire che la recita non sarebbe compresa in abbonamento e ad invitare coloro che volessero uscire dal teatro, a riprendere il prezzo del loro biglietto. Parecchi spettatori uscirono. Ma non per questo cessò l'uragano che la rappresentazione continuò in mezzo ad urli e fischi indiavolati. Per dimostrare che gli artisti non erano responsabili di questa dimostrazione ostile, il pubblico chiamò al proscenio il baritono sig. Putò, applaudendolo assai, in ricompensa della sua buona volontà e de' suoi meriti artistici certo non disprezzabili.


"Il Presente" del 24 dicembre 1881

I disastri avvenuti in quest'anno nei Teatri di Nizza e - di Vienna hanno richiamato l'attenzione del pubblico e delle autorità sui provvedimenti atti, sia a prevenire gli incendi, sia a tutelare la sicurezza delle persone nel caso, in cui un incendio si verificasse durante una pubblica rappresentazione. Il Teatro Regio di questa città, pel suo modo di costruzione, è già quasi assicurato dal pericolo che, quand'anche il fuoco si manifestasse come più spesso accade sul palcoscenico, possa facilmente invadere la Sala e gli altri luoghi occupati dagli spettatori. Inoltre il Teatro è dotato di ampi serbatoi d'acqua tanto sotto il palcoscenico, quanto sulle soffitte alimentati da un getto perenne d'acqua - di pompe da incendio (il cui numero è ora stato accresciuto) - di estintori portatili ecc. ecc. ed havvi costantemente durante le rappresentazioni un drappello di pompieri, con speciali istruzioni. I quali provvedimenti, non nuovi, ma adottati sempre anche in passato, hanno valso sempre, e varranno certamente ancora, ad assicurare il pubblico che il fuoco potrebbe essere prontamente domato. Giovando però prevenire le possibili cause d'incendio sono stati introdotti notevoli mutamenti negli apparecchi della illuminazione a gaz, sia separando la distribuzione, nelle diverse parti del Teatro, per modo che all'occorrenza il gaz possa essere spento, ad esempio, sul palcoscenico senza che sia necessario di spegnerlo nella Sala - sia togliendo con reti metalliche il pericolo che le fiamme isolate possano comunicare il fuoco agli scenari, ecc. Non furono poi dimenticate le misure destinate a tutelare la sicurezza delle persone. Così, onde impedire che l'improvviso spegnersi del gaz immergendo ad un tratto la Sala e le altre parti del Teatro in un profonda oscurità, tolga agli spettatori il modo di uscire prontamente, rimarranno costantemente accese in platea, nell'atrio, e nelle corsie delle loggie diverse lampade ad olio. E per facilitare l'uscita del pubblico si sono aperte nuove porte sia per lo sgombero più pronto della platea, sia per avere più breve e diretto accesso alla pubblica via, nei larghi laterali al Teatro; tutti poi i serramenti delle diverse aperture sono stati adattati per modo che possano aprirsi con la massima facilità ed immediatamente. Si aggiunga che saranno costantemente aperte le comunicazioni delle loggie collo scalone e colle Sale del Ridotto; e che nel loggione sarà a disposizione del pubblico una seconda scala. Tutto questo complesso di disposizioni deve rassicurare la cittadinanza, e persuaderla che è assai difficile che il fuoco si manifesti nel teatro Regio - che, manifestatosi, sarebbe stato domato - che ad ogni modo assai difficilmente penetrerebbe ove sono gli spettatori - che infine questi avranno sempre tutto l'agio e la comodità di lasciare il Teatro con calma, senza lasciarsi vincere dal panico. Ma se il Municipio ha provveduto, per quanto poteva dipendere da esso, a prevenire i pericoli ed i danni, è anche necessario che gli spettatori contribuiscano per parte loro, a non creare cause possibili d'incendio. Fra queste havvi la biasimevole abitudine pur troppo contratta da alcuni di fumare nelle corsie delle loggie, e nei camerini del palchi. A questo proposito si crede opportuno di ricordare le disposizioni del Regolamento Prefettizio 19 Aprile 1871 e del Codice Penale così espresse:

REGOLAMENTO

Art. 12 - È proibito di fumare, tanto nella platea che nei palchi e camerini, e nei corridoi e vestiboli, come pure l'accendere pipe, sigari e zolfanelli: nell'uscire da Teatro è parimenti vietato di portare scaldapiedi o scaldamani od altro recipiente con fuoco. Le contravvenzioni alle premesse disposizioni saranno punite con pene di polizia, facendosi anche luogo alla espulsione dalle Sale del Teatro, ove lo richieda l'interesse dell'ordine pubblico.

Codice penale

Art. 662 - L'incendio delle altrui proprietà mobili od immobili ...cagionato da fuoco o da lumi portati o lasciati senza la necessaria cautela ...sarà punito con multa estensibile a Lire cinquecento salva sempre l'indennità verso le parti lese. Potranno inoltre i giudici, secondo la gravezza della colpa, applicare pei reati suddetti la pena del carcere estensibile a sei mesi.
Art. 664 - Quando nei casi contemplati nei due precedenti articoli qual che persona sia rimasta ferita od offesa si osserveranno per l'applicazione della pena le norme stabilite negli articoli 554, 555, 556 e 557.
Art. 554 - Chiunque per innavertenza, disattenzione, imprudenza, negligenza, e inosservanza dei regolamenti, avrà involontariamente commesso un omicidio o vi avrà dato causa, sarà punito colla pena del carcere estensibile a due anni, e con multa sino a Lire duecento.
Art. 555 - Se per le dette cause saranno derivate soltanto ferite, percosse, od altri pregiudizi alla salute, il colpevole sarà punito col carcere estensibile a sei mesi e con multa fino a Lire cinquecento ed anche con pene di polizia a seconda dei casi.
L'autorità municipale farà vigilare rigorosamente perché le succitate disposizioni siano scrupolosamente osservate; ma essa confida nello stesso tempo che tutti gli spettatori vorranno volontariamente osservarle, senza bisogno di esservi costretti e senza incorrere così oltre all'espulsione dal Teatro, e alle pene come sopra comminate, nella tremenda responsabilità che cadrebbe su di loro, quando per una leggerezza imperdonabile avessero potuto essere causa di un disastro.
Parma 25 Dicembre 1881.
L'assessore ff.di Sindaco
F. Zanzucchi


"Gazzetta di Parma" del 2 marzo 1882

Il m. Gomes ha diretto al m. Pio Ferrari la seguente lettera che sono ben lieto di riprodurre.

Milano, 23 febbraio 1882.
Caro Ferrari,
Tutti sanno che un'opera in musica sul teatro si compone della Partitura, parti d'orchestra, cantanti più o meno ben vestiti, cori, scenario, ecct; ma quella benedetta musica distribuita sui leggii non è altro che della fredda carta scarabocchiata. L'autore di un'opera non può fare come il pittore che sceglie la luce addatata a far brillar il proprio lavoro. Quando il compositore ha terminato la sua partitura attende il verdetto del pubblico sull'impressione che riceve dai più o meno fedeli esecutori! Questo si sa e tiro innanzi: Il successo dunque del mio Salvator Rosa a Parma è dovuto, non solo ai primi cantanti, ma voglio qui in modo molto particolare menzionare la brava orchestra da te valorosamente guidata. La tua bacchetta sicura, il tuo sentire d'artista, (interpretazione vera e fedele delle mie idee nel concerto dell'opera, hanno formato la forza centrifuga, come la mola principale di un macchinismo complicato. Io non uso far elogio ne complimenti a chi non merita, ma sono ben lieto di manifestare tutto il mio sincero entusiasmo ad un giovane pieno di ardore per l'arte, degno dell'incoraggiamento di tutti e pieno di vero talento come lo sei tu. Non solo ti applaudo ma ti ringrazio anche di tutto cuore della tua infaticabile dedicazione a mio riguardo. Termino dichiarandomi fiero della tua buona amicizia e ti stringo la mano da
Fratello d'armi
CARLO GOMES


"Gazzetta di Parma" del 15 febbraio 1882

SALVATOR ROSA
OPERA IN 4 ATTI DEL MAESTRO C. GOMES
Il libretto dell'opera che andrà in scena domani a sera è tratto da un episodio della vita fortunosissima di quel grande artista che fu Salvator Rosa e precisamente riguarda la parte da lui presa nella rivoluzione di Napoli del 1647, capitanata da Masaniello. Salvator Rosa, Masaniello! Ecco due strane figure della storia italiana, tanto fertile di uomini straordinari. Figlio il primo di un povero borghese napolitano, riesce quasi senza aiuti e senza maestri ad essere uno dei più grandi pittori del suo tempo e un poeta facile e pieno di spirito; Masaniello, un oscuro pescatore d'Amalfi trascina il popolo di Napoli a sollevarsi contro l'esoso governo di Spagna. Per otto giorni egli è il vero re; l'albagia spagnola s'inchina a lui; il rappresentante di Filippo IV viene a patti; il popolo lo acclama e lo ama; e Masaniello fa leggi, provvedimenti, dà ordini così saggi ed opportuni che tutti stupiscono come in lui possa esservi tanta virtù. Poi, la scena ad un tratto cambia, Masaniello da dolce e giusto che era, si fa ad un tratto feroce e strambo. Forse le facoltà della sua mente assoggettate ad eccessiva tensione, si squilibrano; forse il vicerè spagnuolo nell'onorarlo, gli propinò - come corse voce - il veleno. Ed il popolo, dopo essersene fatto un idolo, bestialmente lo trucida, ne svelle il capo dal busto ed il cadavere trascina per le vie e getta in una fogna, per onorarlo, pochi dì dopo, con onori sovrani. Esempio nonraro della mutabilità delle plebi. Strani uomini; strani tempi, sui quali, credo, la storia non abbia ancor detta la sua ultima parola. L'argomento del melodramma - come ho detto - non è che un quadro di siffatta storia. Salvator Rosa, (tenore) dipingendo un giorno su le rive incantate del golfo, fu colpito dalla vista di una sconosciuta giovinetta tutta intesa ad osservare la tela. L'immagine di quella fanciulla rimase indelebilmente scolpita nel cuore dell'artista, sebbene da quel dì non l'avesse riveduta. Ma l'amore non gli faceva scordare i doveri verso la patria e con Masaniello (baritono) congiurava a fine di dare a Napoli un governo più umano. I due congiurati rivelano i loro propositi nel primo atto, dopo che ebbero mandato via Gennariello (1° soprano). Ma il duca d'Arcos, vicerè spagnuolo (1° basso) è a cognizione della congiura e fa arrestare il pittore dal conte Badajos (tenore comprimario). Tratto davanti al duca, Salvatore espone francamente le lagnanze del popolo. Il d'Arcos gli risponde con mal garbo e gli farebbe scontare il suo ardire se Isabella sua figlia (1 ° soprano) non accorresse a partecipargli la rivolta della città. Il duca e sua figlia fuggono per una porta segreta e tale nuova partecipa Salvatore a Masaniello accorso per liberarlo alla testa del popolo insorto. Al secondo atto si vede il Duca e sua figlia: il primo non potendo più resistere all'irrompente volontà popolare, sta per cedere e domandare una tregua, col segreto intendimento di tradire il patto appena ricevuti rinforzi da Spagna. Isabella esulta per queste disposizioni apparentemente conciliative. Si annunzia l'arrivo di un messaggero di Masaniello; Isabella si ritira ed è introdotto Salvator Rosa. D'Arcos gli consegna il patto della tregua e lo prega d'attendere, bramando mostrarsi ai napoletani al suo braccio. Sopraggiunge Isabella, credendo trovare il padre, ma ci guadagna nel cambio. Salvatore le fa una dichiarazione d'amore ed essa gli giura d'essergli fedele. Il padre ritorna e sente le ultime frasi dei due amanti; ma finge di niente ed il corteo vicereale s'incammina. Cambia la scena. Questa rappresenta la spiaggia di Napoli. Il popolo è festante per la conseguita vittoria; ma non mancano i soliti eterni malcontenti che vorrebbero molto di più e specialmente far man bassa nelle case dei ricchi. Masaniello consiglia ai popolani l'ordine. Viene il vicerè e la corte. D'Arcos annunzia d'aver rimesso in vigore gli statuti di Carlo V e la tela cade tra le grida della generale esultanza. La prima scena del terz'atto rappresenta un terrazzo del Palazzo della Vicaria, splendidamente illuminato. Fernandez, (secondo tenore) capo delle truppe spagnuole ed aspirante alla mano d'Isabella, manifesta al conte di Badajos la speranza in una prossima reazione. Esce dal palazzo Masaniello che ha smarrito i sensi. A lui accorre Salvatore che vorrebbe conoscere la sorta d'Isabella, scomparsa senza lasciar traccia di sé. Masaniello non è più in caso di soccorrerlo. La sua ragione è scombuiata ed in un eccesso di pazzia fugge precipitosamente. Salvatore accusa D'Arcos d'avere fatto avvelenare il capitano del popolo. Il vicerè prende da ciò pretesto per farlo imprigionare. La seconda scena rappresenta il portico di un monastero. Qui fu rinchiusa Isabella. Suo padre la sollecita a scordare Salvatore ed a sposare Fernandez. Ed al diniego d'Isabella, egli le lascia la scelta tra la vita dell'amante o l'odiato imeneo. Isabella si sacrifica e cede. La scena dell'ultimo atto è divisa in due parti da un muro: da un lato i giardini ed un angolo del palazzo ducale illuminato; dall'altro la chiesa del Carmine. Spunta l'alba. Il conte di Badajos conduce una mano di briganti ad appostarsi nella chiesa del Carmine, per ammazzar Masaniello. Dopo, lo stesso conte rimette in libertà Salva tore, il quale incontra Isabella abbigliata da sposa. Questa le rivela quale tremendo sacrificio sia stata costretta a compiere dal padre. Salvatore smania ed impreca e le propone di fuggire. Nel mentre giunge Gennariello che rivela il grave pericolo che minaccia Masaniello. Salvatore accorre in suo soccorso ma troppo tardi. Si odono di dentro le archibugiate che spengono l'eroe popolare. Ritorna Salvatore fuor di sé e con un pugnale in mano fa per scagliarsi sul duca; ma poi getta l'arma e maledice ad Isabella che crede spergiura. Questa raccoglie il pugnale e si ferisce a morte raccomandando all'amante di vivere per l'arte e per la gloria. Tale è la tela del dramma ideato da Antonio Ghislanzoni. Il libretto, come si vede, contiene delle situazioni non tutte nuovissime, ma ben collocate. I versi sono buoni.
Z.

 

 

"Gazzetta di Parma" del 17 settembre 1882

CARMEN
Il nostro teatro presentava ieri sera un vago colpo d'occhio e benché non fosse affollatissimo, pure appariva manifestamente molto animato. L'aspettativa, in cui tutti erano, di sentire questa Carmen, era grande; e malagevole - in verità - riescirebbe il voler precisare la parte che ebbero le discussioni preventive sul giudizio, piuttosto severo, dato su quest'opera dal pubblico accolto ieri sera nel Teatro Regio. Per ora, la duplice mancanza di tempo e di spazio m'impone di limitarmi alla sola cronaca. Del primo atto dell'opera piacquero molto e riscossero applausi: il coro de' monelli (il cui bellissimo effetto fu in gran parte dovuto alla precisione e alla sicurezza colle quali fu eseguito) - la molle, voluttuosa canzone di Carmen (avanera) - il duetto tra Don Josè e Micaela - la caratteristica sequidilla. Del secondo atto piacquero: la canzone di Carmen e la vivacissima scena della danza - la sortita trionfale di Escamillo, che fu bissata - il quintetto fra le tre donne e i due contrabbandieri, pezzo di squisita fattura, riuscitissimo per una esecuzione inappuntabile - l'entrata di Don José nella posada - e il duetto fra Don Josè e Carmen, altro pezzo ispirato e di finissimo lavoro. Dell'atto terzo piacquero: il preludio, di cui fu chiesto ed ottenuto il bis - l'aria di Micaela, melodia chiara, dolce, scorrevole ed il finale, di molto effetto drammatico. Quanto all'ultimo atto, non piacque gran fatto il ballo; ma, per compenso, il seguito dell'atto stesso fu ascoltato con grande attenzione e s'ebbe applausi vivissimi. Queste, come dissi, sono parti dell'opera che andarono maggiormente a garbo del pubblico: e sta di fatto che esse presentano delle indiscutibili bellezze, sia per la quasi sempre originale esposizione del pensiero musicale, sia per la varietà, l'eleganza, la finezza del lavoro orchestrale e, in ispecie, degli accompagnamenti, alcuni dei quali sono vere trovate. Quanto all'esecuzione dirò che essa - salvo qualche rara e lievissima menda - fu efficace, diligente, lodevole sotto ogni rapporto. Il tenore

Italo Campanini

salutato al suo primo apparire da una viva, unanime, prolungata salva d'applausi, si mostrò quell'artista che è realmente. Egli, nella sua interpretazione, ha dato prova di una maravigliosa intuizione artistica ed ha ritratto il carattere e la passione di Don José con tutte le finezze di un colorito giusto ed efficace. Nell'ultima scena egli potrà forse avere degli emuli, non però chi lo superi. A lui fu presentata una corona d'alloro. Gli fu degna compagna la signora

Stella Bonheur

la quale ha riprodotto il tipo romanzesco di Carmen in modo perfetto. Artista di grande talento, ha saputo giustamente lumeggiare la parte sua: e col suo canto espressivo, corretto, con quelle inflessioni delle sua voce chiara con cui rende tanto efficacemente le nervose irritazioni dell'innamorata gitana - ha strappato al pubblico calorosi applausi. - Il baritono signor

Giuseppe Del-Puente

divise col cav. Campanini e colla Bonheur gli applausi della serata. È anch'egli artista di grandi mezzi: ha una voce bella e potente: è porgitore facile e corretto; e nella sua magnifica e popolare sortita, che il pubblico gli ha fatto ripetere, si è mostrato degnissimo della fama che gode. E le buonissime seconde parti, e l'orchestra e i cori? Prometto di parlarne diffusamente, limitandomi per ora a constatare il modo brillante con cui il signor Cleofonte Campanini ha inaugurato la sua carriera. Stasera avrà luogo la seconda rappresentazione. Credo fermamente che - come è avvenuto nelle altre città, in cui fu data quest'opera - il pubblico nostro potrà meglio apprezzarne le bellezze, che assai di rado possono rilevarsi chiaramente nella complessità d'impressioni d'una prima rappresentazione.
A.


"Il Presente" del 21 settembre 1882

La malevolenza e l'invidia sono state schiacciate. La seconda rappresentazione della Carmen fu un trionfo pel nostro illustre artista Cav. Campanini e ce ne compiacciamo, perché dimostra come nella nostra città non sia spento il culto per l'arte e pei grandi artisti, che ne sono gli interpreti. E di questo trionfo ne siamo tanto più lieti, perocché il pubblico di ieri sera fosse composto pressocché esclusivamente di parmigiani, i quali non potevano, senza mentire alla loro fama di intelligenti e di cortesi, fare sfregio ad un loro concittadino, che per ogni dove ha saputo e voluto mantenere alto il prestigio e la fama della città nativa, che ha dato alla soave e divina arte del canto illustri cultori. L'esimio Cav. Italo Campanini, dev'essere soddisfatto delle attestazioni a lui ieri sera tributate e consolarlo delle amarezze, che per avventura possono avergli arrecato i malevoli, gli invidi od i pigmei, destino serbato per lo più a chi sa eccellere sopra la turba di coloro che non furono mai vivi. Egli che osò, con generoso coraggio, apprestare sì splendido spettacolo, incurante se potesse alla resa finale venirgli danno o vantaggio, può con animo tranquillo e sereno insegnare in qual modo si adoperino l'ingegno e le acquistate ricchezze a pubblico beneficio e volesse Iddio che il suo esempio trovasse tra gli ignavi nostri signori, condegni imitatori. Silenti fin ora, sentiamo il debito di rendere a questo egregio concittadino la dovuta lode e tanto più meritata, quando si pensi, che altri al pari di lui acquistarono riconoscenza e ricchezza, senza che mai si ricordassero della loro patria, o se pure la ricordarono, fu solo per averne larghi compensi o quando di essi non rimaneva alcun fastigio. Ed ora passiamo alla cronaca della serata. La musica di questo bellissimo spartito dove il leggiero si alterna col drammatico, fu assai gustata ieri sera dal nostro pubblico, che incominciò ad applaudire il preludio del primo atto, l'altra sera passato inosservato, e continuò gli applausi sino all'ultima frase dell'opera, che lasciò tutti profondamente impressionati. Il pubblico non era troppo numeroso causa la pessima stagione e le stolte dicerie che ad arte si erano fatte correre in questi giorni per la città, ma per questo il successo non fu meno entusiastico, e alla fine di ogni atto si chiamarono replicatamente alla ribalta i valenti artisti e il bravissimo direttore d'orchestra Signor Cleofonte Campanini. L'esimio tenore, Italo Campanini, accolto al suo apparire da un plauso unanime e prolungato, che conteneva tutta la riconoscenza dei parmigiani verso di lui, artista illustre e generoso, si mostrò anche ieri sera degno dell'alta fama che già lo circonda. - Ristabilito in salute cantò da grande artista a quasi ad ogni sua frase il pubblico scoppiava in applausi entusiasti e prolungati. Il duetto con Micaela e quello con Carmen nel primo atto li disse con molto affetto e rese in modo sommo il gentile pensiero che in essi trasfuse l'illustre autore. L'aria del secondo atto "Il fior che avevi a me tu dato" lo cantò con tale sentimento e con tanta squisitezza che il pubblico scoppiò in un plauso immenso ed unanime che durò lunghissimo tempo. Da alcuni se ne chiese anche il bis, ma la maggioranza del pubblico, per un giusto riguardo alla salute appena ristabilita dell'illustre tenore, non lo permise. Nei finali poi del terzo e del quarto atto il Campanini fu artista a nessuno secondo. - È impossibile poter descrivere la potenza del sentimento e dell'affetto, che seppe trasfondere in quello stupendo finale del quarto atto. II Campanini emulò i più grandi artisti drammatici, quali il Rossi ed il Salvini, nè a nostro rassegnato giudizio, alcun altro potrà con maggiore verità renderci la terribile espressione di quel momento. Vi saranno coloro, che preferiranno l'urlo selvaggio, simile a quello del lupo delle steppe della Russia; per noi invece è sublime espressione quell'arte, ché sa ricercare le fibre intime e più delicate del cuore. Era spettacolo stupendo quella lotta di due affetti così disparati! Nell'uno l'entusiasmo di un amore inestinguibile; nell'altra la voluttà di piaceri fugaci! Terribile battaglia, che doveva finire coll'eccidio di lei! La Signora Stella Bouneur fu degna dei trionfi riportati nei teatri più difficili dell'Italia e dell'Estero, e della parte di Carmen ne fece una creazione felicissima sotto ogni rapporto. La voce robusta e limpida di questa egregia artista si spiega in modo meraviglioso alle infinite angolosità che presenta lo spartito e strappa al pubblico applausi fragorosissimi. La egregia Signora Bouneur cantò divinamente la habanera, la sequidilla la bohemienne, il pezzo con le nacchere e secondò stupendamente l'esimio tenore Campanini nei finali del 3° e del 4° atto.


"Gazzetta di Parma" del 29 settembre 1882

La prima rappresentazione del Trovatore ha avuto uno splendido successo. Fu un seguirsi d'applausi dal principio alla fine dell'opera, la quale - lo dico subito ebbe un'esecuzione superiore ad ogni aspettativa. Il pubblico s'è assimilata questa bella, inspirata musica del Verdi: e gli spettatori, che hanno sentito e sentono da tanto tempo questi canti sempre rigogliosi di vita, ne subiscono il fascino e sono trascinati all'applauso, quasi sentissero una voce che ridestasse nella loro anima le più soavi rimembranze. Ed è per questo che gli spettatori davanti a molti lavori moderni ammirano lo studio, l'ingegno, riserbando per le sole ispirazioni del genio il proprio entusiasmo. Ieri sera poi s'è avuto il grande vantaggio di sentire il Trovatore eseguito in modo veramente eletto, poiché gli artisti tutti che l'interpretano ne hanno cavato fuori degli effetti nuovi, mettendo - con sano e squisito senso di modernità - un tesoro di movimento, di varietà, di passione in questo capolavoro già tanto ricco d'ispirazione. Ed alla valentia degli artisti bisogna aggiungere la ricchezza dei mezzi con cui viene dato questo spartito e cioè: delle masse corali bene istruite e numerosissime ed un'orchestra di più che 70 professori diretta da un ottimo braccio. Vengo ai particolari. Il tenore

Italo Campanini

interpreta benissimo la sua parte, la quale gli offre molto maggior mezzo di dar risalto alle sue doti di cantante che non quella di Don Josè. Ed egli ha veramente soddisfatto il pubblico, perché e col canto e coll'azione ha dato un colorito efficace alla parte di Manrico ed ha saputo trarne nuovo effetto. Ebbe innumerevoli applausi e chiamate in tutto il corso dell'opera; ma dove colpì più vivamente gli spettatori si fu nella romanza del terzo atto Amor, sublime amore che fu da lui eseguita con bella voce e con magistero perfetto di cantante e d'artista. Questa romanza gli valse caldissimi applausi, che saranno riusciti di ben grato compenso agli sforzi da lui fatti, perché questo spettacolo sortisse esito felice. Degna compagna del Campanini fu la signorina

Adalgisa Gabbi

che sostenne la parte di Eleonora con un esito felice. Essa può essere davvero ben soddisfatta dell'accoglienza che le ha fatto il pubblico parmigiano e della bella conferma da esso data alla fama di valorosa artista che l'aveva tra noi preceduta. La signorina Gabbi ha voce bella e pastosa, maniera eletta di porgere: e nel modo con cui tratta il canto si mostra fornita di sani e buoni studi. Essa cantò da artista provetta la romanza

Tacea la notte placida

ed in questa, come nel finale primo, s'ebbe unanimi applausi. Piacque soprattutto nel finale secondo, nel punto ove dice

Sei tu dal ciel disceso

- nel Miserere - e nello stupendo finale dell'opera

Pria che d'altri vivere,

Da lei detto con sentimento e con vera passione. Gli applausi tributati alla signorina Gabbi le sono augurio di quell'avvenire a cui le danno diritto gl'incontestabili suoi meriti d'artista. L'altra nostra concittadina signora

Emilia Lablache

ebbe pur essa festosissime accoglienze. Il pubblico ha riconosciuto tosto in lei un'artista coscienziosa, piena d'intelligenza. La interpretazione che essa ha dato alla parte di Azucena è giusta e appare vera ai nostri occhi questa Zingara che non ha altro pensiero che quello della vendetta. In tutta la prima parte dell'atto secondo fu applauditissima ed interrotta spesso da unanimi approvazioni dell'uditorio. Applaudita fu anche dopo la scena dell'atto terzo, da lei interpretata drammaticamente e con un senso d'arte squisita. Dopo ch'essa ebbe cantato nella scena della prigione il suo duetto con Manrico il pubblico le tributò larghi applausi. Il signor

Leone Giraldoni

è applaudito pur esso al suo primo apparire. Artista nel vero senso della parola, è perfettamente padrone de' mezzi artistici, di cui è ricco: Egli canta con voce forte e robusta ed interpreta la sua parte da artista sperimentato e compreso de' veri intendimenti dell'arte. Sarebbe lungo dire quante volte il pubblico gli ha fatto plauso, poiché dal principio alla fine cantò con grande successo. Nella romanza e nel finale del primo atto - nell'aria

Il balen del suo sorriso

ebbe vive approvazioni: - e nel punto ove dice

Non può nemmeno un Dio
Donna, rapirti a me!

strappò al pubblico un fragorosissimo applauso. Benissimo nel finale secondo e in tutto il resto dell'opera. La sua parte d'applausi - e bene guadagnata - se l'ebbe ieri sera anche il basso signor

Lodovico Contini

che cantò egregiamente e con voce bellissima. Le chiamate che egli si ebbe dopo la prima scena dell'atto primo e dopo quella dell'atto terzo furono meritatissime. Con lui divisero gli applausi le masse corali che rare volte cantarono con fusione e sicurezza pari a quelle di ieri sera. Ne va dato il debito encomio al maestro Gerbella. Del maestro direttore Signor

Cleofonte Campanini

non potrei ora ripetere che quanto dissi nell'occasione della messa in iscena della Carmen. Le sue doti eminenti gli assicureranno fra non molto un posto segnalato tra i direttori d'orchestra. Il professor Magnani s'ebbe una chiamata per la bella scena dell'atto quarto. Dunque, l'esecuzione di questo Trovatore - salvo qualche menda inevitabile in una prima rappresentazione - è lodevole sotto ogni rapporto. E deve essere per noi parmigiani di grande compiacenza il vedere che s'è ottenuto un complesso così soddisfacente con elementi tolti - in massima parte - nella nostra città.
A.


"Gazzetta di Parma" del 2 ottobre 1882

Chi era ieri sera al Regio ha assistito ad una vera festa dell'arte, ad un trionfo, da riportarne nell'animo un'impressione indelebile. Il teatro era stipato di spettatori, i quali non ebbero che applausi entusiastici, interminabili per gli artisti che eseguirono il Trovatore. Re della festa fu il Cav. Italo Campanini, che si mostrò degno degli immensi applausi a cui fu fatto segno. Al suo apparire, nel finale primo, nel duetto del secondo atto con Azucena, nel finale secondo, in breve, in tutto il corso dell'opera, s'ebbe - solo ed insieme agli altri artisti - chiamate ed applausi innumerevoli. Nel terzo atto poi, dopo la romanza, si sollevò tale tempesta d'applausi da non finire mai più. Gli fu presentata tra unanimi evviva ed acclamazioni entusiastiche una grande Medaglia d'oro dono del Municipio di Parma - con relativa lettera; una corona d'alloro con bacche d'oro e con ricchissimo nastro portante una dedica ricamata in oro, un'altra corona d'alloro con spiche d'oro e grandi nastri ricamati a fiori, due grandi mazzi di fiori pure con ricchi nastri, un elegantissimo tavolino di fiori; e da ultimo una deputazione di cittadini gli ha presentato dal palco di proscenio della Commissione uno splendido Album contenente ben due mila firme di concittadini e d'ammiratori. La medaglia d'oro porta da un lato lo stemma del Comune, avente all'intorno quest'iscrizione: Omaggio all'artista insigne al cittadino benemerito: nel rovescio della medaglia sta scritto: A Italo Campanini - il Municipio di Parma - Settembre 1882. L'album è tutto ciò che di più elegante e di più artistico si possa immaginare. È ricoperto di magnifico velluto cremisi, con ornamenti e fermaglio dorati, e porta nel mezzo queste parole in lettere d'oro: A Italo Campanini - i concittadini - Ottobre 1882. Le firme sono precedute da un bellissimo disegno del nostro concittadino Aristide Gaibazzi. Spicca su bianco fondo il busto del Campanini: il viso è rassomigliantissimo e le linee di esso hanno un'espressione qual'è quella di persona assorta in pensieri. A sinistra di chi guarda è disegnato un emisfero, in cui rilevansi i contorni del continente americano. Da questa parte del disegno sta scritto a grosse lettere d'oro: A Campanini Italo - i cittadini - Parma 1° ottobre 1882. Un po' più in alto sta la Fama, una snella e leggiadra figura di donna, che tiene colla destra la tromba e colla sinistra l'estremità d'un velo su cui è scritto: Carmen - Trovatore - Parma 1882. Più giù - nel fondo - due graziosi putti si contendono una corona d'alloro e due altri putti tengono l'estremità del velo. Questo disegno, riuscitissimo e di bell'effetto, fa molto onore al Gaibazzi. Dopo il disegno e prima delle firme è la seguente iscrizione:

A
ITALO CAMPANINI
per ingegno per magistero
nella divina arte del canto
insuperabile
che alla gloria d'artista
volle disposato
il vanto di patriota di benemerito cittadino
a testimonianza d'ammirazione e di gratitudine
offrono i concittadini
ottobre MDCCCLXXXII

Alla spontanea, universale dimostrazione il cav. Campanini fu vivamente commosso. Egli ringraziava il pubblico entusiasta, che mai voleva ristarsi dalle acclamazioni. Fu una serata indimenticabile, il cui ricordo, se ritornerà sempre caro all'illustre artista, non tornerà meno caro all'animo de' concittadini, che vollero onorarlo come artista insigne, come patriota e come benemerito cittadino. La signorina Adalgisa Gabbi ha da registrare anch'essa un trionfo. Colle sue squisite eminenti doti d'artista essa si è tosto acquistata il favore e la simpatia del pubblico e ieri sera ha confermato splendidamente la sua fama. Accolta, al suo primo apparire, da unanimi e caldissimi applausi, essa ha cantato quella felice ed ispirata romanza.

Tacea la notte placida

Con grande sentimento, facendo sfoggio di una magnifica voce ed avendo la fortuna di terminare la detta romanza con degli acuti che sono una bellezza. Dopo che l'esimia artista ebbe cantato questo pezzo, fra applausi entusiastici le vennero offerti: una splendida corbeille di fiori, una corona d'alloro con grande e ricchissimo nastro ed un cuscino di fiori; ed intanto dal loggione venivano sparse pel teatro innumerevoli copie d'un sonetto in lode di lei. In tutto il resto dell'opera la Gabbi fu festeggiatissima: dopo il finale primo ed il finale secondo fu col Campanini e col Giraldoni chiamata ripetute volte al proscenio tra unanimi applausi; e nel quarto atto, dopo l'aria

D'amor sull'ali rosee

il pubblico le ha fatto una vera ovazione. Intanto che l'egregia artista ringraziava commossa, le vennero presentati: un anello d'oro con brillanti, due magnifici, grandiosi mazzi di fiori ed un elegante tavolino di fiori, portante le iniziali di lei. Nuovi applausi le tributò il pubblico nel miserere, nel successivo duetto ch'essa ha col Giraldoni e nel finale

Pria che d'altri vivere,

dopo di che essa, degna compagna del Campanini, fu con lui chiamata ripetutamente al proscenio. Anche la Signora Emilia De Méric-Lablache ha raccolto ieri sera larga messe d'applausi. Dotata di grande talento e di non comuni doti d'artista, ha eseguito con molta verità il lungo, drammatico duetto che essa ha col Campanini nel secondo atto. Interrotta ripetutamente dagli applausi, al finir della scena fu chiamata al proscenio e regalata di un ricco vaso di fiori. Il signor Cav. Leone Giraldoni, benché fosse ieri sera indisposto, ha cantato coll'accoglienza che s'ebbe dal pubblico nelle sere precedenti. È artista di merito distintissimo e per la lunga esperienza, che egli ha della scena, è ben addentro nei segreti e negl'intendimenti di quest'arte, in cui egli si è reso meritamente celebre. Ieri sera è stato ripetute volte chiamato al proscenio in unione alla Gabbi ed al Campanini dopo il finale del primo atto e dopo quello del secondo. Anche il basso signor Contini Lodovico - benché abbia una parte breve - trova sempre modo di farsi applaudire. Anche ieri sera fu calorosamente applaudito dopo la prima scena dell'atto primo, nella quale egli ha campo di far mostra d'una bellissima voce. L'orchestra ha eseguito ieri sera sotto la direzione del maestro Campanini, giovane pieno di meriti e tanto modesto, le annunziate sinfonie delle opere: Cola di Rienzi e Vespri Siciliani. Il pubblico ha applaudito il direttore e l'orchestra dopo la prima, la quale è stata eseguita molto bene: ha poi chiesto con maggiori, insistenti applausi il bis della seconda, che fu eseguita ieri sera con tanto slancio e con tanto colore, che di meglio non si sarebbe potuto desiderare. Grandissimi applausi furono fatti al Campanini, a cui l'Orchestra ha fatto presente d'una bacchetta d'ebano con artistici ornamenti d'oro. In una placca d'oro, che s'avvolge alla bacchetta nel mezzo sono incise queste parole: A Cleofonte Campanini - in segno di stima - l'Orchestra di Parma - offre. Ad un capo della placca sta scritto: Carmen, all'altro: Trovatore. Unitamente alla bacchetta fu presentata al bravo Campanini una bella lettera, a pie' della quale erano le firme autografe dei Professori dell'Orchestra.


"Il Presente" del 22 settembre 1882

LA CARMEN
di Giorgio Bizet
Anche i Parmigiani udirono finalmente questa Carmen. Se ne era parlato tanto nei periodici politici e teatrali, i cronisti più o meno intelligenti e coscienziosi, ne avevano narrato con così tumido stile l'argomento e le alterne fortune, che non è a meravigliare se il desiderio di giudicarla si era fatto prepotente, irresistibile. Caduta miseramente a Parigi, risorta a Londra, prostrata in sulle prime a Torino, trionfante a Milano, male accolta a Firenze, questa Carmen, a desumerne giudicio dalle sue vicende ora prospere ora infauste, doveva contenere pregi indiscutibili e difetti non lievi, chi voglia spiegare il perché della discrepanza delle opinioni sul merito dello spartito; e questi pregi e difetti ambiva conoscere ed estimare il pubblico nostro, che in materia teatrale ha voce d'intelligente e di severo. La grande aspettativa nocque allo spettacolo. I più, lette le lodi inserite a profusione ne' diarj compiacenti, credettero avere ad assistere ad uno spartito di vaste proporzioni, nel quale la lotta fra gli affetti trovasse nella grandezza e nella complicazione del lavoro musicale l'acconcio linguaggio. Come rimasero delusi all'udire le prime battute del preludio! In esso nulla di astruso; nulla di eccessivamente sonoro; ma un fare semplice, leggero, carezzevole, senza urti, senza contrasti, come uno scorrere d'onda di ruscello che mormorando blanda volge alla china. I due primi atti passano, con metodo piuttosto vaudevillistico che drammatico. Però, sebbene le melodie sieno corte né sempre nuove e i ritmi saltellanti, non per ciò, i primi due atti vanno privi di bellezza. Vi sono, anzi pezzi meritevoli di nota. Il coro dei monelli, ad esempio, si adorna di grazia quantunque soverchiamente faticoso per le tenere ugule, le quali al nostro regio fecero prodigi. Il coro delle sigaraie

Seguire è bel nell'aere
Lieve fumo,

è condotto con garbo e di ottimo effetto; ma nell'inseguirsi artificioso di quelle voci femminee non vidi ciò che un critico fortunato ha visto: salire per l'acre il lieve fumo. E la ragione sarà forse questa che io non porto gli occhiali, e che cogli occhiali, massime se indorati, ci si vede assai meglio che ad occhi nudi. Piaciono pure nel primo atto il duetto fra Don Josè e Micaela, forse, non replicato per la mancanza della chiusa urlata. Nella sequidilla: Presso il bastione di Siviglia, avverti di leggeri il carattere delle danze spagnole; e trovi, poi, che la simpatica Signora Bonheur ti fa dimenticare la lunghezza e le ripetizioni con un ineffabile eleganza di canto e con insuperabili movenze della persona. Nulla di particolare, sia per il pensiero sia per la forma, nella zingaresca del secondo atto, mentre, invece, è di sicuro effetto la sortita del torreador, benché nel canto spontaneo facile, fluido, di Escamillo torni più facile riconoscere il brio di chi contende altrui le belle afrodisiache gitane, che la forza, incutitrice di spavento, di chi per lunga consuetudine affronta gli ardui cimenti nel circo. Ben riuscito il quintetto dei contrabbandieri, e il duetto di Carmen quando si accompagna colle nacchere. L'arioso di Don Josè. Il fior che avevi a me tu dato si avvolge intorno ad un concetto piccolo come un mescerrino, ma sospirato colla maestria che Campanini non invidia ad alcuno può destare facilmente l'applauso. La melodia Lassù lassù nella montagna offre modo alla elettissima cantatrice Stella Bonheur di spiccare col suo fine gusto artistico, il più acconcio a mettere in risalto le procaci moine del pezzo. Al terzo atto entriamo in una nuova fase, affatto diversa dalle antecedenti. Prima cantammo o recitammo la commedia: ora presentiamo le gravi vicende del dramma. Carmen fino ad ora scherzò, folleggiò coi facili amori: cantarellò le vaporose ariette della sua terra, e col cervello capriccioso si sbizzarì dietro il fantasma degli immanchevoli adoratori: ora gli adoratori vennero, si accesero, s'incatenarono da se dietro il carro della volubile dea, e sono ardenti come i vulcani, fieri come la tempesta, idomiti come lo spirito della ribellione. Se gli umani presentimenti valgono a qualche cosa Carmen deve fiutare nell'aria il rapido declinare della sua stella, deve prevedere l'avvicinarsi del luttuoso suo fato. La passione di Don Josè, alimentata da tante blandizie, da tanti sorrisi, da tante astuzie, da una vena inesauribile di voluttà centuplicate nelle rocce e nei dirupi, infuria, dietro la mano del destino sospingendo vertiginosamente la catastrofe. E anche nella musica sentì trasfuso il passaggio dalla commedia al dramma. L'introduzione all'atto terzo, ammirabilmente interpretata dal Maestro Cleofonte Campanini e suonata con somma finitezza dai nostri professori d'orchestra, si veste della serietà imposta dalle condizioni dello svolgimento drammatico. Ma ohimè queste belle disposizioni del musicista non perseverano. Nell'atto terzo, checché ne dica un'egregio Critico, c'è più azione ché musica. Toglietemi il duettino, nulla più che gentile, e l'aria patetica ma non nuova di Micaela, e poi ditemi che rimanga di canto a riprodurre la lotta che sostiene Don José per divincolarsi dalle spire dell'amore della cinica Carmen? Della lotta che sostiene per obbedire alla voce della soave Micaela, per ritornare agli amplessi della madre lontana! Ditemi se più in là del linguaggio oscenamente canzonatorio, di una donna rotta a libidine, rilevate dai suoni venienti dal palco-scenico (vedete non parlo dell'orchestra) un solo accenno all'incipiente furore, che spinge al delitto Don Josè! Questo terzo atto, ad onta della colta intelligenza del Bizet, lascierebbe freddissimo il pubblico, se alla scarsezza del canto affidato agli attori del dramma non sopperisse la stupenda azione del Campanini. Il modo con cui minaccia Carmen infedele, il modo con cui Egli, allestitore dello spettacolo, ha disposto intorno a sé i personaggi, e quel supremo tentativo d'impedire a Carmen di correre ai baci di Escamillo, sono prove luminose di grandi attitudini drammatiche, che molti cantanti dovrebbero studiare. Nel quarto merita i maggiori elogi il duetto finale, di sommo effetto se cantato e, specialmente, agito da artisti di merito insigne. Dopo udito questo duetto vi rimane nell'anima una forte impressione a cui, dagli inizi dell'opera non desumevate di dover pervenire. La musica cominciò saltellando a guisa di Vaudeville e termina tentando di assumere l'incesso grave e misurato delle opere grandiose. Ma a rendere la Carmen un'opera grandiosa nuoce la futilità dell'argomento, che, per parecchi motivi d'inverosimiglianza, non è altro che una istoriella da raccontarsi nelle sere di Natale quando il ceppo geme, e nuociono ancora le melodiette brevi, che stanno tra il genere francese e lo spagnuolo. La parte orchestrale fu trattata colla massima cura ed è degna della penna di un valentissimo maestro. Abolita ogni astruseria, sbanditi i processi strambi e contorti, messa da un lato la brama degli abusi di sonorità, il compito dei vari istrumenti è diviso colla parsimonia che piglia luce di indirizzo dal vivido impegno sposato alla profonda dottrina. Ma pressoché ogni bellezza veramente peregrina, risiede nell'orchestra: de' personaggi non si tenne cura e non si volle ricordare che sono i personaggi che mandano innanzi il dramma. Manca poi nello spartito la spiccata originalità, che dà al compositore il carattere d'ingegno creativo. I pezzi in genere sono chiusi ad un modo ed è per questo che molti, all'udirli, non seppero liberarsi da lieve senso di tedio: certi motivi sono ripetuti fino alla sazietà, e contribuiscono, con quelle insistenti risposte de' cori, a dare, in molti passi, alla Carmen una veste in tutto vaudevilistica: veste cucita e ricamata e illegiadrita da un sarto di egregia perizia, ma sempre vaudevilistica. Conchiudendo, dunque, io dico che la Carmen per lo strumentale è una miniatura, un gioiello, per la parte vocale non vale nulla più di tanti altri mediocri spartiti, pieni di disuguaglianze di stile e cadute in dimenticanza. Nè cambierò la mia opinione per seguire l'andazzo ed adulare chi grida più forte, né vorrò, come piacque a persona competentissima, adoratrice di ogni novità, recare le difficoltà meccaniche dell'esecuzione ad argomento della bellezza di un'opera d'arte. Molto meno poi, vorrò, per desiderio di sostenere lo spartito, mettere a confronto un'opera di piccole proporzioni com'è la Carmen coll'Aida, col Guglielmo Tel cogli Ugonotti. Temerei, in una città di provincia, di suscitare una rivoluzione! Sarebbe un errore così grave come quello di chiamare con ispregio e non curanza l'illustre scenografo Magnani il Signor Magliani egregio pittore parmigiano. Ed ora all'esecuzione. Mi si è mosso l'appunto, a voce non in iscritto, di avere elogiato, prima della rappresentanzione gli artisti che cantano la Carmen; ma i censori miei, forse più loquaci che maligni, non si occorsero come i nobili intendimenti pei quali venne allestito lo spettacolo dal celebre tenore Campanini m'imponessero stretto, imprenscidibile l'obbligo della cortesia. E quando discorsi del Campanini, della Bonheur, del Del-Puente, discorsi del loro passato, non avventurai un giudizio sulla interpretazione che alle rispettive parti loro commesse nella Carmen avrebbero data. Ma avessi pure sovrabondato nelle lodi, dovrei io pentirmene, dopo che ci venne fatto di assistere ad uno spettacolo di primissimo ordine? Il Campanini è un artista che ha girato, vittorioso, i primi teatri d'Europa e d'America. Sebbene indisposto la prima sera di recita, non ismentì la sua fama. Interpretò il carattere di Don Josè come Ei solo lo può. Avezzo a dominar sulle scene. Egli vi stà come in casa propria in mezzo ai confidenti amici dell'infanzia. Egli è bello. Egli è grande sia quando cede al fascino delle lusinghe di Carmen, sia quando, invaso dalla gelosia, l'investe colle minacce, sia quando, angosciato, disperato, certo di avere un fortunato rivale, l'aggredisce col pugnale e l'uccide. In questi tre supremi momenti del dramma nel volto del Campanini si specchiano tutti i pensieri che hanno ad alternarsi tumultuosamente nell'anima di Don José, dove le furie dell'averno scatenano la tempesta e vivificano i propositi di sangue. E pari al merito dell'attore è quello del cantante, sempre corretto, elegante, peritissimo nelle modulazioni, nei passaggi, nel modo di accentare con efficacia e senza esagerazioni. Una particolarità del Campanini è quella di filare con delicatezza soavissima. Non è lo stucchevole metodo francese del falsetto, è il metodo tutto proprio di un grande artista, che con lunghi e pazienti studi apprese a trarre il massimo partito dalla flessibilità de' suoi mezzi vocali. Col Campanini raccolse gli allori la Signora Stella Bonheur, al cui servigio rimane ancora una splendida, potente, intonatissima voce, che non patisce (per adoperare una frase classica) maggioranza. La simpatica Signora Bonheur è un'attrice di alta intelligenza, ornata di studio, spigliata, sempre attenta alle generalità ed alle menome particolarità di controscena. Se nell'Abanera, nella Seguidilla, nella Bohemienne la valentissima Signore Bonheur mette in evidenza le sue rare doti di cantatrice, nel duetto finale rifulge in tutto lo splendore di grande attrice. Non vi sono per le donne onorificenze, come cavalierati, commende. È un'ingiustizia: tali attestati d'onore converrebbe crearli, non foss'altro per insignirne la Signora Bonheur, cui dobbiamo la inarrivabile creazione del carattere di Carmen. Direi che anche del torreador Escamillo il Signor Del Puente fece una creazione se la esigua parte del bravo baritono mi licenziasse a tanta larghezza di elogio. Il Signor Del Puente non va dotato di voce molto robu sta, né insinuante in sommo grado, ma l'adopera maestrevolmente. Pronuncia chiaro, dice nitido il recitativo, pregio divenuto ormai irreperibile in moltissimi cantanti, e si move con ispigliatezza sulla scena; accomodando egregiamente il gesto alla parola. Una gentile Micaela è la Signora Peri. Ha voce simpatica, limpida, espansiva, forse un tantino tremula. Il metodo di canto della Signora Peri è buono, e non le manca né intelligenza di quel che dice né affetto in ciò che esprime. Le seconde parti tutte bene, l'allestimento scenico splendidissimo. In questo l'illustre Cav. Campanini non lesinò, fece, anzi, gettito straordinario di danaro per ammanire uno spettacolo degnissimo delle gloriose traduzioni del nostro teatro. Correranno molti anni prima che ai frequentatori del nostro massimo teatro, con superbia provinciale ed orgogliuzzo di campanile chiamato Regio, sia concesso ammirare tanta pompa di arredi scenici. Dell'orchestra converrebbe parlare con una miriade di esclamazioni. Di rado l'udimmo suonare così intonata, così precisa, così animata! L'alternarsi de' piani e de' forti, la giustezza de' tempi riuscirono in modo da sorprendere l'uditorio. E questa finezza d'interpretazione musicale dobbiamo attribuirne anzitutto all'avere sbandito dall'orchestra i ragazzi, i quali, come suol dirsi, sporcano la casa, poi al bellissimo ingegno artistico del giovane maestro Cleofonte Campanini. Egli in breve tempo concertò l'opera e diresse l'orchestra colla sicurezza di un maestro provetto. Vi fu chi notò qualche movimento affrettato e ne mosse dolce amorevole rimprovero al studioso e colto direttore: ma, domando io, se non hanno un po' di foco i giovani l'avranno i vecchi, nei quali la lunga consuetudine del dirigere tiene posto dell'affetto? Da questo primo esperimento non riesce difficile presagire al giovane Campanini uno splendido avvenire artistico.
VINCENZO CERVI

NOTA: Ho dimostrato, nell'appendice, che la Carmen, è opera ben lavorata nella parte orchestrale, ma di piccole proporzioni: giudico, quindi, inutile provare che l'essere rappresentata in un teatro vasto come il nostro non le può giovare, come non le giovò l'ampiezza dell'ambiente a Firenze. Certe conseguenze il lettore le deve intendere o sottintendere senza tante spiegazioni. Prego, poi, i lettori ad accogliere bene nella mente quanto scrissi sullo spartito ed a considerare che il lodevole l'ho lodato, ma che non potei celebrare, seguendo un corrispondente di facile contentatura, i grandi concertati, perché ad onta della mia ottima volontà e delle più accurate indagini non giunsi a trovarli. Si dia la debita importanza alla valentia degli artisti, all'eccellente complesso dei cori e dell'orchestra, non si confondano gli effetti prodotti dalla fine interpretazione con quelle della composizione e si concluda che il giudizio dato sulla Carmén la prima sera dai parmigiani non fu severo, poiché l'esito felice dello spartito dipende più che dal merito straordinario in cui viene eseguito.

 

 

"Gazzetta di Parma" del 27 dicembre 1882

É una gran brutta posizione per un povero cronista teatrale, quella di trovarsi di fronte ad uno di que' mezzi successi, che, in seguito poi si possono convertire tanto in un successo completo quanto in un assoluto capitombolo. A chi dare, in giusta misura, la responsabilità della caduta? A chi attribuire il merito del trionfo? Alla insufficienza dell'esecuzione od alla scarsità di pregi nella musica? Alla valentia degli artisti od alla soavità delle note? È questo, precisamente il caso mio. Io mi trovo davanti ad uno di quei successi contrastati, tra il ti vedo e il non ti vedo, che il mondo ipocritamente chiama di stima: per cui non posso a meno di sentirmi assai peritoso nell'attribuire e a questo piuttosto che a quello la cagione dell'esito non brillantissimo di sortito dalla Regina di Cipro. Pure, rientrando in me stesso, riandando la storia della serata di ieri, chiamando a raccolta le varie impressioni provate, finisco per convincermi che se l'esecuzione, in qualche punto fu oscillante, in tal altro deficente, anche il genere della musica ha contribuito a mantenere ad un grado assai poco elevato l'entusiasmo del pubblico. La musica della Regina di Cipro credo che non sia di quelle che elettrizzano il pubblico. Non manca di ispirazioni felici e molti chiari autori si sente subito che vi hanno attinto, anche, se si vuole, fuori dei limiti che impone la discrezione; ma queste bellezze vere, reali e non scarse, sono diluite, affogate in un mare di lungaggini, da una cura minuziosa dei particolari che distolgono l'attenzione dall'idea principale. Mi pare che ci sia un gran disquilibrio tra l'intenzione del poeta e quella del maestro. Spesso al punto culminante del dramma e quando la musica, con un ben ideato crescendo d'intensità negli effetti promette e quasi fa pregustare uno di quegli scoppi del genio che trascinerebbero, non un pubblico d'italiani, ma dei macigni istessi; quasi che il genio abbia fatto stecca, l'autore divaga indeciso, incoerente, brancicando nel vuoto, sforzandosi di afferrare la scintilla divina, che a guisa di fuoco fatuo, gli sfugge. L'effetto cade ed il pubblico, che si disponeva ad alzarsi come un sol uomo e ad urlare, se ne resta seduto, zitto ed imbronciato come un fanciullino, cui sfasi fatta la cilecca. Un'altra pecca di questo spartito è la lunghezza e la frequenza de' recitativi. So che ci si è lavorato attorno di sciabola senza misericordia; pur tuttavia ne restano sempre di troppi ed essi contribuiscono a dare all'opera quella tinta uggiosetta, contro la quale invano lottarono i bravi artisti ed il bravissimo direttore. Si potrebbe dare un'altra tosatina, senza rovinare l'intelligenza del dramma? Se si, sono d'avviso che l'opera ci guadagnerebbe assai. Parrò forse temerario, parlando così di un'opera che Fétis - un critico da farci tanto di cappello - chiamò il miglior lavoro di Halèvy, superiore alla stessa Ebrea. Fétis avrà avuto le sue buone ragioni nel dir questo e Dio mi guardi dal contrastargliele: dubito però che un pubblico ratificherebbe il giudizio del critico francese, ché nella Regina di Cipro non so vedere quali pezzi potrebbero star del pari al famoso finale primo dell'Ebrea, alla benedizione del pane azzimo, alla dolce romanza di Eleazzaro e a quella di Rachele e a tutto l'ultimo atto, un portento d'ispirazione sublime. Con tutto ciò anche nella Regina di Cipro non mancano pezzi di eccellente fattura e di effetto. La prima romanza di Gerardo contiene una frase affettuosa, svolta ottimamente; nel terzo atto il duetto tra Gerardo e Lusignano è di immancabile effetto ed è stato iersera accolto da uno scoppio di applausi. L'a due, su le parole: "salute e gloria a quella nobil terra" e la frase di Lusignano: "Ahi! quante volte dal suol straniero", fecero l'effetto d'un raggio di sole vivido, caldo, inebbriante, nel mezzo d'una giornataccia autunnale, piena di bruma e di uggia. Di questo pezzo si volle e si ottenne la replica. Grazioso tanto è il coro del clero nel quart'atto. Bella pure, nel medesimo atto, la marcia trionfale, il cui principal motivo è piuttosto trivialetto; ma che finisce con uno scoppio riuscitissimo di sonorità, che veramente trascina. Questo pezzo procurò al direttore cav. Mancinelli una meritata ovazione. Peccato che l'atto, non termini lì! Finalmente nell'ultimo atto di pezzi notevoli c'è la romanza di Caterina, soave ispirazione, che fu poco gustata iersera, ma che, credo, piacerà in processo di tempo; il duetto tra Gerardo e Caterina ed un quartetto, pure non molto compreso, però degno d'attenzione e di plauso.


"Gazzetta di Parma" del 27 dicembre 1882

Questi sono i pezzi che iersera ottennero dal pubblico segni non equivoci di gradimento. Ad essi debbo aggiungere il preludio sinfonico dell'opera, che m'è sembrata cosa parecchio insignificante, ma che, tuttavia venne applaudito in grazia della buona esecuzione. Tale è la storia fedele dell'esito di ieri sera. In quanto all'esecuzione, essa fu ottima in certuni, discreta in altri. Tra i primi è giustizia metta il tenore Vincentelli, che possiede sempre una voce fortissima, squillante e che monta agli acuti in un modo meraviglioso. In tutto il corso dell'Opera egli ha ottenuto dal pubblico i segni più manifesti e sinceri di gradimento. Gli fu degno compagno il baritono Barbieri, dalla bella, insinuante e robustissima voce, della quale suole talora, colla prodigalità degli straricchi, fare un vero sciupìo. Il Barbieri ha acquistato le simpatie del pubblico fin dal principio ed è peccato che la parte non gli conceda, dopo il terz'atto, di poter far sfoggio de suoi mezzi. La signora Leavington è artista che ha percorso una brillante carriera e dopo questa premessa sarebbe ingiustizia giudicarla dalla prova di ieri. Ella, senza dubbio, era o indisposta o soprappresa da uno di quei panici irragionevoli, quanto invincibili, che, talvolta, s'impadroniscono anche di artisti provetti. Spero che domani a sera ella si sarà rimessa e che le sarà dato cogliere dal pubblico parmigiano quel meritato plauso, di cui gli furono larghi i pubblici dei più ragguardevoli teatri d'Europa. Gli altri artisti fecero del loro meglio e se taluno di essi incespicò in qualche troppo flagrante stonazione, ciò devesi imputare alla commozione di una prima sera di spettacolo. Domani sera sono persuaso che le cose andranno molto meglio. Ed ora credo sia un debito di giustizia il tributare tutta la possibile lode al cav. Marino Mancinelli pel modo con cui concertò e diresse l'opera. L'orchestra, che pure risente del modo affrettato, con cui venne composta è andata egregiamente. Bene pure i cori, non molto robusti, ma intonati. Anche all'Impresa va data lode pel modo splendido con cui ha curato la messa in scena. I vestiari, gli attrezzi sono degni di un grande spettacolo. Il comm. Magnani, sebbene non avesse molto campo da poter spaziare, ha dipinto buone scene. M'è piaciuta assai quella che rappresenta l'oratorio di casa Corner; invece la piazza di Nicosia mi aveva un po' l'aria d'un pasticcio di croccante: ma l'illustre artista, senza fallo, non ha potuto fare a meno. In complesso la Regina di Cipro è riuscita un buon spettacolo; tale da appagare al di là del ragionevole le esigenze del pubblico. E sono persuaso che questi gli farà, in avvenire, ancora più buon viso che non abbia fatto la prima sera.


"Gazzetta di Parma" del 29 dicembre 1882

La seconda rappresentazione della Regina di Cipro ha avuto un esito molto migliore della prima. Evidentemente l'esecuzione n'è migliorata d'assai. Molti degli inconvenienti lamentati sono ora scomparsi; i pochini che ancora persistono spariranno fra breve. Taluni artisti, rimessi dal panico, hanno disimpegnato lodevolmente la loro parte. Il pubblico stesso, ha smesso il contegno severo della prima sera e ieri è stato ancora più largo d'applausi a chi li meritava e d'incoraggiamento a chi ne aveva d'uopo. Oltre i pezzi applauditi alla rappresentazione di martedì, piacquero il duetto tra tenore e donna del second'atto, dopo il qual pezzo i due artisti vennero chiamati all'onore del proscenio, e l'aria della donna nel quint'atto, cantata con gran sentimento dalla signora Leavington, la quale, rimessasi dalla sua passeggiera indisposizione, ha saputo rivelarsi, qual'è l'artista elettissima, a cui, per avventura, potrà fare difetto una voce strapotente, come, in qualche punto, le esigenze dello spartito richiederebbero, ma non già la conoscenza perfetta di tutti i segreti dell'arte. Il bravissimo ed infaticabile Vincentelli ed il baritono Barbieri della voce potente, e nello stesso tempo insinuante, sono quelli che seguitano a riscuotere la maggior coppia d'applausi. Il primo è festeggiatissimo in tutti i numerosi pezzi della sua faticosissima parte; l'altro nel duetto del terz'atto suscita qualche cosa che s'assomiglia all'entusiasmo. Divide con questi - e molto giustamente - il favore del pubblico il cav. Marino Mancinelli, il quale ha saputo trasfondere nello spartito d'Halèvy gran parte della sua anima il vero artista. Dopo la grandiosa marcia - il pezzo culminante dell'opera - il pubblico non manca mai di fare una vera ovazione al bravissimo direttore. In quanto alla musica, ho nulla da togliere o da aggiungere a ciò che scrissi l'altro giorno. È probabile - vista anche l'estrema scarsità di spartiti nuovi - che la Regina di Cipro arrivi a percorrere i principali teatri d'Italia; credo però che il suo sarà un successo di curiosità più che altro e che non arriverà ad impiantarvisi stabilmente, ad onta de' pregi che innegabilmente possiede. Con tutto ciò noi - è giustizia il dirlo - ci troviamo di fronte ad uno spettacolo veramente eccezionale e se poniamo mente alla ruine, alle scandalose catastrofi con cui tanti altri teatri hanno iniziato la corrente stagione di carnevale, noi abbiamo tutti i motivi per dichiararci più che soddisfatti e per tributarne la debita lode dell'Impresa.


"Gazzetta di Parma" del 18 gennaio 1883

Se non temessi di far torto ad un pubblico serio, come quello che frequenta il Regio, direi che ieri sera c'era il partito preso di mandare a rotoli lo spettacolo, tanto soverchia e spessissimo affatto fuor di luogo è stata la severità mostrata da una parte degli spettatori. Non sono facile agli entusiasmi, nè credo d'essermi mostrato - dal tempo non più breve che scrivo la cronaca teatrale in questo giornale - di troppo facile contentatura; non sono uso a turibulare maestri, artisti od impresari; né accetto ad occhi chiusi i verdetti del pubblico; quindi valendomi del diritto che mi sono preso da un pezzo e contro il quale i cortesi miei lettori non hanno mai protestato, dirò chiaro e tondo che non mi è piaciuto punto il contegno di quella parte di pubblico che iersera si mostrò così ostile verso la Stella del maestro Auteri-Manzocchi e che non sottoscrivo al giudizio di quelli che trovano a ridire su lo spettacolo. Però, m'affretto a dirlo. Il partito di questi severi Aristarchi è stato ben presto, più che vinto, schiacciato dalla grande maggioranza degli spettatori spassionati, i quali non hanno voluto misurare, né lo spartito, né il suo giovane autore, alla stregua dei capolavori, cui è dato soltanto ai geni di produrre. E la Stella non è certamente un capolavoro, ma è uno spartito che racchiude pregevoli cose e mostra molto e gentile talento in chi l'ha scritto. Difetti ce n'è sono e parecchi anche, ma i pregi li superano di gran lunga. Ad onta della cattiva prevenzione; ad onta del cattivo umore del pubblico; la Stella ha avuto un ottimo successo, che credo si raffermerà nelle venture rappresentazioni. La Stella manca di vita in tutto il primo atto, dove la musica, piena di spezzature e che rivela nell'autore un'affannosa ricerca d'originalità, che non raggiunge, nemmeno sacrificando l'effetto, mal corrisponde alla situazione del dramma, che in quel punto rasenta l'idillio più che altro. Ma questo difetto diventa quasi una qualità, dacché, svolgendosi l'azione ed il dramma acquistando linee nette e decise, la musica prende eziandio una tinta sempre più calda ed appassionata, per esplicare la massima sua efficacia quando la catastrofe sopravviene. Così dalla romanza del tenore nel secondo atto, al preludio del terz'atto, assai ben condotto e dove è svolta egregiamente, una frase soavissima, piena di tristezza straziante, alla serenata, alla bellissima scena - che il pubblico, non dubito, apprezzerà meglio in seguito - in cui Stella implora la carità dai passanti, al duetto quanto mai ispirato, per terminare coll'ultima scena, è sempre un crescendo di potenza drammatica, di melodia ispirata, senza essere plateale. Oh, so anch'io che i meticolosi del mestieri potranno muovere l'appunto al giovine maestro di aver messo nell'istrumentale certe astruserie che rivelano un'ostentazione di scienza, un abuso di dissonanze niente affatto indicate dalla situazione del dramma; prevedo che gli orecchianti di seconda categoria potranno facilmente provocarsi la facile gloriola di citare in quà ed in là delle battute che assomigliano a battute di altre opere; ma che perciò? Quando un maestro vi presenta un opera che contiene sette od otto pezzi di merito incontrastabile, che hanno la virtù di scuotare la fibbra dell'ascoltatore e di forzarlo all'applauso, non si deve dire che l'opera è riescita e che il maestro è degno di lode? Tale è stato il successo della Stella; successo, di cui non esito punto a compiacermi grandemente col simpatico maestro Auteri-Manzocchi. Egli, con la Dolores - che, anni sono, abbiamo pure applaudito - e con questa sua Stella ha mostrato d'avere un talento invidiabile, capace, con maggiore esperienza e nuovi studi, di darci qualche lavoro, per cui l'arte italiana debba andare orgogliosa. Riassumendo l'esito della serata, in quanto riguarda il merito dello spartito, dirò che ci furono applausi alla sinfonia, nuovi applausi ed una chiamata all'autore al valtzer cantato dalla donna e alla romanza del tenore nel primo atto. Nell'atto seguente si applaudì e si chiamò l'autore all'aria di Stella, nuovi e più fragorosi applausi ed altra chiamata alla canzone di Lamberto ed al finale dell'atto. Nell'ultimo atto applausi fragorosi al preludio suonato dall'orchestra in modo delizioso. Qui il pubblico volle il bis e chiamò il maestro due volte ed altrettante il direttore Mancinelli, del quale non potrò mai dire tutto il bene che merita. Altri applausi e nuova chiamata alla serenata del baritono; altrettanto dopo la scena dell'elemosina; applausi entusiastici, chiamate numerose al duetto tra tenore e donna e bis dell'aria: "Giace tranquillo"; finalmente nuovi applausi e chiamate al calar della tela. Le chiamate in tutto saranno state da dieci a dodici, ma potrebbero essere state di più, perché - confesso il mio fallo, imperdonabile in un reporter - ho dimenticato a casa il lapis e non ho potuto fare nessun appunto. In quanto poi all'esecuzione, debbo dire che è stata superiore all'aspettativa. L'eroe della serata è stato, senza contrasto il tenore Mozzi. Accolto da applausi al primo suo apparire, egli cantò a dirittura da grande artista. Pare impossibile! Mozzi non ha molta voce e quella che ha, è di timbro tutt'altro che gradevole - dico questo perché Mozzi ha tanto spirito e buon senso da esserne il primo a convenirne - ma c'è tanta anima, tanta passione nel suo canto; tanto talento nella sua azione, che non si resiste alla commozione ed al desiderio di applaudirlo. Erano esclamazioni invano trattenute che ad ogni tanto, mentre ci cantava, rompevano il religioso silenzio; ma quando, con le lagrime della voce, cantò il pezzo già citato: "Giace tranquillo" l'entusiasmo non ebbe più limiti e più di una glandula lagrimale si contrasse fortemente. Dico la verità: il maestro Auteri deve molto del successo ottenuto al talento di Mozzi. Anche la signora Bernau-Gallignani si mostrò egregia artista. Essa non ha molta voce e questa è piuttosto deficente nel registro basso; invece sono buoni gli acuti. Del resto la signora Bernau-Gallignani accenta e colorisce la musica e sta bene in scena. S'è fatta applaudire nei principali suoi pezzi e sono persuaso che il di lei successo sarà ancora più marcato nelle sere seguenti. Avrei voluto che il signor Barbieri ricordasse che Veniero deve essere un giovane galante, un capo scarico; insolente con gli uomini, ma tutta gentilezza con le signore; insomma un viveur che arrossirebbe se qualcuno gli andasse a dire che in lui c'è qualche cosa di tragico. Il signor Barbieri non ha voluto, invece spogliare il personaggio che rappresenta da questa tinta tragica, che, secondo il mio debole parere, è fuori di posto. Anche nel suo modo di canto non mi sono piaciuti certi scoppi di voce - per verità bella e potentissima - che non sono atti ad accarezzare l'orecchio. Credo che se si moderasse nell'emissione della voce, egli ricaverebbe maggior effetto dalla sua parte. Egli iersera cantò assai bene la serenata e fu applaudito e chiamato all'onor del proscenio. Del basso - che ha una parte affatto insignificante - mi limiterò a dire che non ha guastato. Bene quasi sempre i cori; ottimamente l'orchestra che sotto la valente direzione del cav. Mancinelli fa miracoli di precisione e di colorito. Sfarzosa la messa in scena - e di questo dò ampia lode all'impresa. - Belle due scene dell'illustre comm. Magnani, che fu chiamato al proscenio. Insomma un complesso che molte città ci devono invidiare. E dire che ce ne sono di quelli che non ne hanno a bastanza!
Z.


"Gazzetta di Parma" del 28 gennaio 1883

La prima rappresentazione della Lucia è stata un trionfo per la sublime musica di Donizzetti, la quale ha potuto sostenersi ad onta di molte imperfezioni nell'esecuzione; è stato, poi, un successo strepitoso quanto meritato per la signora Elena Varesi. Essa si è appalesata subito come artista di primissimo ordine. Insinuante, dolcissima, agilissima, intonata è la sua voce, la quale pure non essendo di timbro molto forte è di una estensione rimarchevole; bellissima e degna di una artista drammatica è la sua azione. Insomma in essa non si sa se più ammirare l'artista o la cantante. Piena di verità è l'espressione angosciosa della sua fisionomia quando è trascinata a stringere un nodo abborrito e quando le compariste minaccioso, ma sempre innamorato, l'uomo che ha creduto infedele. Ma dove essa seppe destare un vero entusiasmo è nel famoso rondò del terz'atto. Qui ella emise tale quantità di salti di note, di gorgheggi, di vocalizzi e tutti così limpidi ed intonati da fare invidioso un usignolo. Il pubblico non si saziava mai di applaudirla e terminato il pezzo chiamò l'artista un'infinità di volte all'onore del proscenio. Il cav. Vincentelli, a mio avviso, non è stato bene avvisato nell'accettare la parte di Edgardo. Il genere della sua voce, non molto pieghevole alle smorzature, lo allontana forzatamente da quella interpretazione, fattasi ormai tradizionale, dei grandi artisti, che per i primi eseguirono il capolavoro donizzettiano, e dalla quale, tutti quelli che sono venuti dopo, hanno procurato di non scostarsi. Nel duetto del prim'atto, nella scena della maledizione il cav. Vincentelli - mi spiace il dirlo - restò al dissotto dell'aspettazione comune; egli però disse abbastanza bene e si fece applaudire nell'adagio della sua aria finale. Bene il baritono Barbieri, il quale a quest'ora deve essersi accorto che sforzando la voce si riscuote assai meno l'applauso che non cantando naturalmente, massime quando da mamma natura si è ottenuto un organo vocale così potente come il suo. Infatti fu principalmente nel duetto del secondo atto che ottenne le maggiori testimonianze di gradimento. Anche per le altre parti - compresi l'Arturo, ordinariamente vera calamita di fischi - non c'è stato male. Bene i cori, benissimo orchestra diretta dal cav. Mancinelli; e sono anche persuaso che scompariranno certe lievi pecche riscontrate in alcuni punti, compreso il famoso finale secondo - un pezzo che da solo schiaccia parecchi di certi rinomati spartiti moderni - il quale è andato così così. Insomma, non foss'altro che per sentire un artista di tanto merito, quafè la signora Vanesi, sono persuaso che il pubblico parmigiano, che ha fama di buongustaio, non mancherà d'accorrere in folla al Regio ogni volta che vi si rappresenterà la Lucia.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 9 febbraio 1883

L'esito della serata di ieri in onore della signora Elena Varesi non poteva essere più splendido, per concorso di pubblico, per calore di applausi e di dimostrazioni di simpatia, di ammirazione alla seratante, per esecuzione perfetta, affascinante per parte di quest'ultima. Terminati i due primi atti della Lucia, che fruttarono larga messe d'applausi alla signora Varesi ed ai di lei compagni Vincentelli e Barbieri, la prima cantò l'aria famosa di Rosina nel Barbiere di Siviglia. Ma che dico: cantò? La signora Varesi gorgheggia, trilla come il meglio addestrato degli usignoli. E quanta malizia civettuola nel suo canto! che supremo buon gusto nel vestire, nel porgere! Terminata l'aria scoppiò un uragano d'applausi mentre i servi di scena presentavano all'esimia artista un magnifico cuscino di fiori finissimo, sul quale tanti mazzettini di gazia formavano il nome di Elena Varesi; al qual cuscino era appeso un largo nastro bianco; più una ghirlanda di fiori con nastro bianco ed un nécésaire, sia l'uno che l'altro - così mi è stato assicurato - gentile presente di una nostra egregia e bella artista, la quale, dopo aver mietuto, non ha guari, copiosi ed invidiati allori su reputate scene straniere, era felice di porgere un tributo di simpatia e di stima a questa sua brava compagna d'arte. Il pubblico che non ristava dall'applaudire, domandava ad alte grida la replica del pezzo e la seratante, sempre cortese, replicò la caballetta forse in modo ancora più perfetto della prima, facendo andare tutti quanti gli ascoltatori in visibilio. Dopo fu una sequela di battimani e di evocazioni al proscenio da non più finirsi ed al pubblico non venne già meno il desiderio di nuovamente applaudire, ma lo trattenne alfine il pensiero che l'artista aveva pur d'uopo di qualche istante di riposo e, soprattutto, di smettere (elegante e sfoggiato abito di Rosina per indossare quello della sventurata Lucia. E l'aria del delirio - cantata come sempre insuperabilmente - provocò un'altra ovazione alla signora Varesi. Il pubblico quasi non poteva capacitarsi che quella stessa artista, a pochi minuti d'intervallo, potesse interpretare e sempre tanto maestrevolmente - due musiche di stile, di colorito così differenti, siccome son quelle del Barbiere e della Lucia. Anche qui la signora Varesi fu regalata di un altro bel cuscino di fiori tra applausi strepitosi, assordanti; i quali - e credo di bene interpretare il pensiero del pubblico - tra le altre cose significavano questo desiderio che la signora Varesi cantasse un'altra sera ancora. Il pubblico sarà esaudito?
Z.


"Gazzetta di Parma" del 23 dicembre 1882

LA REGINA DI CIPRO
OPERA-BALLO IN 5 ATTI
parole di SAINT-GÉORGES
musica di F. HALÉVY
Per comodo dei lettori, che si seccano leggere i libretti d'opera, ho pensato non sarebbe male esporre succintamente l'argomento dell'opera di Halévy che andrà in scena martedì prossimo. Negli anni passati la Gazzetta lo ha sempre fatto, tutte le volte che si trattava d'un'opera nuova e i lettori se ne sono trovati contenti; ciò mi induce a fare, anche per questa volta, quanto s'è fatto in passato. Detto questo, come preambolo, entro in materia. L'argomento della Regina di Cipro ha una base affatto storica; storici ne sono la maggior parte de' personaggi: Caterina Cornaro, Jacopo di Lusignano, il senatore Mocenigo, Andrea Cornaro. L'unico personaggio creato dalla fantasia del poeta è Gerardo di Coucy, il quale pure porta uno de' grande nomi di Francia che spesso si riscontra nella storia delle crociate. La storia dice che Jacopo di Lusignano, dopo una lunga serie di avventure e con gli aiuti specialmente di Andrea Cornaro - o Corner, come si dice a Venezia - era riescito ad impadronirsi del reame di Cipro, escludendone la sorella di Giovanni di Portagallo, moglie di un principe di Savoia. Per riconoscenza verso il patrizio, col quale aveva tante obbligazioni e per accaparrarsi la protezione della potente repubblica veneta, Jacopo scelse a propria moglie Caterina Cornaro, nata nel 1454 a Venezia e nipote di Andrea. Dichiarata figlia di Venezia e dotata regalmente, Caterina con gran seguito s'imbarcò su la flotta veneta per Famagosta, capitale dell'isola di Cipro. Caterina aveva allora quindici anni. Celebrati, tra feste splendidissime, gli sponsali, Caterina visse col marito solo quattro anni, perché nel 1473 Jacopo moriva - si sospettò per veleno propinatogli dai veneziani - lasciando la moglie incinta. Il governo veneziano, che anche sotto l'estinto re godeva di una grande influenza, fece sentire allora più che mai la sua tutela. Ai ciprioti ciò spiaceva ed i sovrani spodestati di Cipro presero da ciò occasione per ordir trame e cacciare Caterina. Ci fu infatti una sollevazione, mentre la flotta veneta comandata da un Mocenigo era al largo. Andrea Corner, ministro della Regina, venne pugnalato a tradimento e rivoltosi stavano per avere il sopravvento, quando tornò opportunamente la flotta veneta e Mocenigo fece uno scempio dei sollevati. Caterina, mortagli il figlio ancora bambino, governò da sola 14 anni e diè prova di senno e d'animo virile. Ma vessata, da una parte, dall'ombrosa politica di San Marco; sempre in sospetto per le trame degli aspiranti al trono di Cipro, essa non poté, forse, fare tutto quel bene che le suggeriva l'ottimo cuore e la mente elettissima. Presa dal desiderio di riveder la patria, Caterina partì per Venezia nel 1486, ma un anno dopo il Senato di Venezia decise di fare abdicare la Regina e di annettere Cipro al dominio di Venezia. Fu Giorgio Corner, di lei fratello, che le partecipò il volere del Senato. Caterina obbedì. Circondata di tutto il fasto regale, Caterina visse, d'allora in poi, a Venezia o ad Asolo, in un celebre castello - ora diroccato completamente - regalatole dalla Repubblica. Là, tra le frizzanti aure dell'Alpe, la bella Regina passò molti anni, certo i più felici e tranquilli della sua vita, circondata da una splendida corte, alla quale accorrevano i più eletti ingegni e i più illustri personaggi d'Italia e d'Europa. Fu appunto ad Asolo, sotto gli occhi della Regina, che il cardinal Bembo compose i suoi Asolani, che dedicò ad altra illustre donna: Lucrezia Borgia. In mezzo ai trambusti che succedettero per la lega di Cambrai, Caterina, si rifugiò a Venezia, dove il 1510 spirò all'età di 56 anni. Anche da morta le vennero fatti onori assolutamente regali, la descrizione de' quali occupa molte pagine delle cronache di quel tempo. Fu sepolta nella chiesa dei SS. Apostoli, entro un grandioso monumento che tuttodì si ammira a dove c'è un bassorilievo rappresentante Caterina che offre la corona di Cipro al Doge di Venezia. Così, anche in quel tempo, scolpivasi la storia! Fin qui la parte storica. Occupiamoci ora del romanzo. La prima scena rappresenta una vasta sala parata a festa, in un villa presso Venezia, apparentemente a casa Cornaro. Gerardo di Coucy, cavaliere francese, è solo e aspetta trascorrano i pochi istanti che ancora lo dividono dalla sua felicità, unendolo per sempre alla sua diletta Caterina; la quale non tarda a sopraggiungere e i due giovani si ripetono mille giuri, mille promesse d'amore. Andrea Cornaro, zio della fidanzata interrompe il dolce colloquio, per annunziare l'imminenza del rito nuziale; ma nello stesso tempo si turba, e un brutto presentimento l'assale scorgendo venire da funge il senatore Mocenigo. Allontanati i fidanzati, Mocenigo, senza tante cerimonie, gli annunzia che gli sponsali debbono essere rotti, perché il Consiglio dei Dieci - tribunale munito delle più ampie attribuzioni e istituito nel 1310, in seguito alla congiura di Bajamonte Tiepolo - ha deciso che Caterina debba dare la mano di sposa a Jacopo di Lusignano re di Cipro, che l'ha chiesta. Andrea tenta resistere, rammentando la promessa data a Gerardo; ma gli ordini del Consiglio sono perentori e col consiglio non si scherza. Andrea, un po' per timore, un po' solleticato dalla vanità di diventare zio di una regina, promette che obbedirà ai voleri di San Marco. Vengono intanto dame e cavalieri, paggi, scudieri, damigelle, vassalli di casa Cornaro; insomma tutto il corteo che deve accompagnare gli sposi all'altare. Arrivano anche Gerardo - accompagnato da cavalieri francesi e da scudieri che portano lo stendardo dei Coucy - e Caterina, i quali tutti si meravigliano del ritardo d'Andrea. Questo, però, non tarda molto e dichiara che il matrimonio non s'ha più a fare. Sorpresa di tutti, gemiti di Caterina ed indignazione di Gerardo e de' francesi, i quali vogliono sapere la ragione di tanto oltraggio. Andrea non si spiega, ciò che fa montare in furore gli offesi, i quali si ripromettono ritrarne una tremenda vendetta. All'atto secondo siamo nell'oratorio di Caterina. È notte. In lontananza s'ode un coro di gondolieri. Entra Caterina in preda alla massima ambascia e nell'inginocchiarsi per pregare, scorge sul libro di devozione una lettera di Gerardo, il quale l'invita, allorché intenderà la canzone del "noto gondolier" di venire al verrone, che ivi pur egli sarà. Caterina sta per accorrervi, quanto da una porticina segreta entra il Mocenigo in nome della patria le intima rinunziare sempre a Gerardo. resiste, ma la minaccia far scannare l'uomo ama e meglio convincerle addita mano bravi, già pronti perpetrare strage, quindi si ritira perché Gerardo, questo punto, dal balcone. Qui succede scena straziante tra i poveri innamorati. Gerardo vuol persuadere fuggire seco lui; lo supplica lei;'altro non ne sapere ed insiste. Allora Caterina, facendo uno sforzo su sé stessa, gli dice più. impreca contro lei fugge sdegnato. terz'atto siamo Nicosia, capitale libretto dell'isola Cipro. illuminata dalla luna, rappresenta giardino villa. Alcuni signori ciprioti, sotto un pergolato, bevono cantano allegramente. lato dei veneziani fanno altrettanto. vino riscalda menti d'ognuno; cominciano cambi frizzi veneziali ciprioti; animi s'inviperiscono due partiti stanno alle mani, quando opportunamente sopravviene Mocenigo, che, come ambasciatore veneta Repubblica, ha preceduto'arrivo regal fidanzata. acchieta tumulto invita ciprioti ad unirsi lui giocare. Intanto apprestano tavoli giunco, Strozzi, capo de servizio Venezia, avverte è Nicosia. timore rivelar possa suoi amori con Cornaro mandare monte matrimonio col Re Cipro, induce ordinare sua uccisione. esce appunto casino dove v'è festa attraversa scena. Strozzi altri bravi slancia sue traccie giunchi. Capitano ballerine cortigiane, converte baccanale tutti finiscono entrare nel terminar festa. rotanti aspetta conoscere risultato'impresa Questi, assalito dai difende, perirebbe ove incognito cavaliere fosse volato suo soccorso. Lusignano, Re, quale però rivela'esser suo, limitandosi dire francese pari giovani giurano amistà dividono, spunta'alba rombo lontano'artiglieria annunzia'approssimarsi flotta veneziana, recante nuova regina del quarto gran piazza Nello sfondo porto; diritta palazzo pel re; sinistra seguito arcate conducono alla cattedrale; distanza mare forti costa. popolazione tutta feste.'intrecciano danze. araldo'arcivescovo Cipro arriva clero. artiglierie flotta, cui rispondono quelle porto, tuonano; campane suonano distesa; fanfare squillano. corte. galea. seguita senatori dallo zio Andrea, smonta galea ricevuta'inginocchia bacia mano. Sfilata corteo. sposi recano cattedrale compiere sacro rito nuziale. roso demone gelosia, vorrebbe chiesa ammazzare respinto corteo esce. Lusignano compariscono loro seguito. rompe fila delle guardie ferro sguainato sul Re. frappone sposo'assassino; questi disarmato. riconoscendo quello salvò pugnale degli sgherrani, sa cosa pensare. volta sorpreso vedere'abborrito rivale colui deve vita. implora colpevole, cui, turbano mille sospetti, consegna guardie. All quinto sono più anni. mandato bando, udito parlare. crudo affanno mina vita appare invecchiato, quasi cadente. assopito e,su veglia sposa. Alcune parole sfuggite sonno avvertono ch conosce antichi Infatti, sveglia, narra'aver appreso mesta istoria infelice amore; apprezza virtù sacrifizio fatto; tale pensiero'uccide sarà lieto morire fianco. diventato ufficiale bell'arnese, perdio! cavalier Rodi, vuole, importanti affari, parlare stanco, delega moglie ascoltarlo veste assise'ordine Rodi. amanti riconoscono piena effetti valgono trattenere lei, clamide reale, lui,'abito religioso.'amarla sempre; tremendo arcano costrinse venir meno giuri; quell'eterno guastafeste avvertito accorre. morente venuto proporre cieca fedeltà Repubblica. accusa patrizio veneto propinato veleno dà nemmeno briga negare lascia'alternativa o regnare coi Lusignano. accetta lotta. ascoltato parte scena, fa arrestar tempo fare segnale veneziana cominciare battaglia. internamente cannonate, divampa'incendio; aiutati>"noto gondolier" di venire al verrone, che ivi pur egli sarà. Caterina sta per accorrervi, quanto da una porticina segreta entra il Mocenigo che in nome della patria le intima di rinunziare per sempre a Gerardo. Caterina resiste, ma Mocenigo la minaccia di far scannare l'uomo che ama e per meglio convincerle le addita una mano di bravi, già pronti a perpetrare la strage, quindi si ritira perché Gerardo, in questo punto, entra dal balcone. Qui succede una scena straziante tra i poveri innamorati. Gerardo vuol persuadere Caterina a fuggire seco lui; Caterina lo supplica di rinunziare a lei; l'altro non ne vuol sapere ed insiste. Allora Caterina, facendo uno sforzo su sé stessa, gli dice che non l'ama più. Gerardo impreca contro di lei e fugge sdegnato. Al terz'atto siamo a Nicosia, capitale - dice il libretto -dell'isola di Cipro. La scena illuminata dalla luna, rappresenta il giardino di una villa. Alcuni signori ciprioti, sotto un pergolato, bevono e cantano allegramente. Da un altro lato dei signori veneziani fanno altrettanto. Il vino riscalda le menti d'ognuno; cominciano gli cambi di frizzi tra veneziali e ciprioti; gli animi s'inviperiscono e già i due partiti stanno per venire alle mani, quando opportunamente sopravviene Mocenigo, che, come ambasciatore della veneta Repubblica, ha preceduto l'arrivo della regal fidanzata. Mocenigo acchieta il tumulto ed invita veneziani e ciprioti ad unirsi seco lui per giocare. Intanto che si apprestano i tavoli da giuoco, Strozzi, capo de' bravi, al servizio di Venezia, avverte Mocenigo che Gerardo è a Nicosia. Il timore che egli rivelar possa i suoi amori con la Cornaro e mandare a monte il matrimonio col Re di Cipro, induce Mocenigo ad ordinare la sua uccisione. Gerardo, esce appunto da un casino dove v'è festa ed attraversa la scena. Strozzi con altri bravi si slancia su le sue traccie ed intanto cominciano i giuochi. Capitano ballerine e cortigiane, la festa si converte in baccanale e tutti finiscono per entrare nel casino a terminar la festa. Strozzi, intanti aspetta di conoscere il risultato dell'impresa contro Gerardo. Questi, assalito dai bravi, si difende, ma perirebbe ove un incognito cavaliere non fosse volato in suo soccorso. Questo è Lusignano, il Re, il quale però non rivela l'esser suo, limitandosi a dire che è francese al pari di Gerardo. I due giovani si giurano amistà e si dividono, quando spunta l'alba ed il rombo lontano dell'artiglieria annunzia l'approssimarsi della flotta veneziana, recante la nuova regina di Cipro. La scena del quarto atto rappresenta la gran piazza di Nicosia. Nello sfondo il porto; a diritta il palazzo pel re; a sinistra un seguito di arcate che conducono alla cattedrale; in distanza il mare e i forti della costa. La popolazione è tutta in feste. S'intrecciano danze. Un araldo annunzia l'arcivescovo di Cipro che arriva preceduto dal clero. Le artiglierie della flotta, cui rispondono quelle del porto, tuonano; le campane suonano a distesa; le fanfare squillano. Dal palazzo esce il Re con la corte. Arriva la Regina su una galea. Caterina seguita da senatori veneziani e dallo zio Andrea, smonta dalla galea ed è ricevuta dal Re, che s'inginocchia e le bacia la mano. Sfilata del corteo. Gli sposi si recano alla cattedrale per compiere il sacro rito nuziale. Gerardo, roso dal demone della gelosia, vorrebbe entrare in chiesa per ammazzare il Re, ma è respinto dal corteo che esce. Lusignano e Caterina compariscono col loro seguito. Gerardo rompe la fila delle guardie e col ferro sguainato si slancia sul Re. Caterina si frappone tra lo sposo e l'assassino; questi è disarmato. Il Re, riconoscendo in lui quello che salvò dal pugnale degli sgherrani, non sa cosa pensare. Alla sua volta Gerardo è sorpreso nel vedere che l'abborrito rivale è colui al quale deve la vita. Caterina implora per il colpevole, ma il Re cui, turbano mille sospetti, consegna Gerardo alle guardie. All'atto quinto Lusignano e Caterina sono sposi da più anni. Di Gerardo, mandato in bando, non s'è più udito a parlare. Un crudo affanno mina la vita del Re, che appare invecchiato, quasi cadente. Egli è assopito e, su di lui veglia la sposa. Alcune parole sfuggite al Re nel suo sonno avvertono la Caterina ch'egli conosce i suoi antichi amori con Gerardo. Infatti, quando il Re si sveglia, questo le narra d'aver appreso la mesta istoria del suo infelice amore; dice che apprezza tutta la virtù del sacrifizio da lei fatto; che però tale pensiero l'uccide e che sarà lieto di morire al suo fianco. Strozzi, diventato ufficiale di palazzo - bell'arnese, perdio! - annunzia che un cavalier di Rodi, vuole, per importanti affari, parlare al Re. Lusignano, stanco, delega la moglie ad ascoltarlo ed esce. Entra Gerardo che veste le assise dell'ordine di Rodi. I due amanti si riconoscono e la piena degli effetti non valgono a trattenere in lei, la clamide reale, in lui, l'abito religioso. Gerardo le dice d'amarla sempre; Caterina gli narra il tremendo arcano che la costrinse a venir meno a' suoi giuri; ma quell'eterno guastafeste di Mocenigo, avvertito da Strozzi, accorre. Il Re è morente e Mocenigo è venuto per proporre alla Regina cieca fedeltà alla Repubblica. Gerardo accusa il patrizio veneto di aver propinato un veleno al Re. Mocenigo non si dà nemmeno la briga di negare e lascia alla Regina l'alternativa o di regnare coi veneziani o di morire con Lusignano. Caterina accetta la lotta. Il Re che ha ascoltato parte della scena, fa arrestar Mocenigo, il quale però ha tempo di fare un segnale alla flotta veneziana per cominciare la battaglia. Cominciano internamente le cannonate, divampa l'incendio; ma i ciprioti, aiutati da Gerardo e dai cacalieri di Rodi, hanno scacciato dalla città i veneziani. Lusignano muore raccomandando ai sudditi la Regina, davanti alla quale s'abbassano le bandiere in segno d'ossequio. Avverto ora il lettore che questo finale è stato alquanto modificato.
Z.

 

 

"Il Presente" del 26 dicembre 1883

IL LOHENGRIN AL REGIO
Il Lohengrin del sommo maestro Riccardo Wagner ebbe iersera quella accoglienza che erasi in diritto di attendere da un pubblico intelligente quale è il nostro. L'attenzione profonda, gli applausi sincerissimi, varie chiamate al proscenio degli artisti di canto e del Direttore d'orchestra, la domanda di bis d'un pezzo e quei mormorii di soddisfazione, i quali attestano forse più che altro quanto piaciono allo spettatore le varie parti di un lavoro, ci provano a sufficienza che il pubblico di Parma alla prima audizione di questo spartito comprese ed apprezzò l'alto valore del grande riformatore tedesco. Riserbandoci di fare in seguito un più accurato esame dello spartito e della esecuzione, diremo oggi, tanto per fare quel po' di cronaca che ci è imposta dall'ufficio nostro, che il preludio dell'atto primo fu fragorosamente applaudito da tutto l'uditorio, e che parte di questo ne chiese il bis: la romanza di Elsa "Sola ne' miei prim'anni", egregiamente cantata dalla signora Pierson, ebbe pure vivissimi applausi, i quali si ripeterono al bellissimo assieme per l'arrivo del cigno, eseguito dalle masse corali in modo ammirabile; a lode del bravo maestro sig. Eraclio Gerbella. La romanza del tenore "Mercé, mercé Cigno gentil!..." è un canto così dolce, così melodico, così appassionato, da trasportare il pubblico all'entusiasmo: e fu infatti applauditissimo, eseguito in modo inappuntabile dal simpatico artista signor Davide Casartelli. Stupendo il duetto tra soprano e tenore, che strappò al pubblico vive e sincere acclamazioni: applaudito pure il concertato precedente il giudizio di Dio. Calata la tela, dopo il primo atto, il pubblico proruppe in fragorosi battimani. Nel secondo atto, piacquero assai il duetto fra Ortruda e Telramondo e quello fra Elsa ed Ortruda: ci furono vive approvazioni a metà di quest'ultimo e in fine, alla stretta orchestrale: le esimie artiste signore Pierson e Scarlatti ebbero meritati applausi e parecchie chiamate all'onore del proscenio, e dimostrarono anche in tutto il resto dello spartito di essere artiste di sommo pregio. Il Carbone fu pure giudicato artista di merito distintissimo, dalla voce potente ed intonata e dotato di una non comune intelligenza artistica e musicale. La sveglia, colle sue eco lunghissime e lontane, non lasciò di sorprendere e di impressionare grandemente il pubblico. Grande attenzione e applausi all'orchestra nell'accompagnamento del grandioso coro nuziale e grida di bravo al tenore nel suo declamato "A te che fama e onor perdesti." Il terzo atto si rappresentò diviso in due: cosicchè possiamo considerare lo spartito diviso in quattro atti anziché tre, come fu scritto dall'autore. Lo stupendo preludio dell terzo, fu accolto da caldi rumorosi applausi, e sì volle di esso la replica: acclamatissimo fu l'egregio direttore d'orchestra signor Vittorio Vanzo, il quale dové alzarsi parecchie volte - assieme all'intiera orchestra, con cui volle dividere gli allori - a ringraziare pubblico, e applauditissimo fu pure il duetto fra Elsa e Lohengrin, pezzo di sorprendente effetto. Nell'ultimo atto, sia il distinto artista signor Clodoveo Bedogni, già applaudito nel primo atto accolse subito meritate ovazioni nel: "Sia Brabantini, a voi mercè!", da lui cantato con voce forte, potente, intonatissima: ebbe poi unanimi e calorose acclamazioni il racconto di Lohengrin: il finale dell'opera entusiasmò addirittura l'uditorio. Come si vede adunque, il successo di quest'opera, tanto diversa da quelle che il pubblico nostro suole ascoltare, fu oltre modo lieto. E il merito di questo successo va ripartito fra il pubblico, che seppe giudicare nel modo in cui va giudicato uno spartito del Wagner, l'egregio maestro signor Vittorio Vanzo, il quale, da quel valoroso direttore d'orchestra ch'egli è, seppe interpretare le concezioni di Wagner per modo, che l'orchestra, obbediente ad ogni suo cenno, parve da un capo all'altro dello spartito un solo istrumento; i cantanti, i quali riunendo i loro sforzi concordi alla interpretazione del capolavoro Wagneriano, ne raddolcirono colla divina loro arte l'impressione che il primo acchito sorprendeva naturalmente il pubblico; le masse corali, che davanti alle gravi difficoltà di esecuzione si sentirono chiamate ad esercitare tutte le loro forze e lo fecero con coscienza d'artisti, riuscendo mirabilmente a riprodurre quale dev'essere il coro nel nuovo dramma lirico ideato da Wagner; e finalmente l'impresa, che sotto l'egida di una gentildonna che la sa lunga in materia di cose teatrali, allestì lo spartito non solo con decoro, ma con vero lusso di  mise in scéne. Come ho detto da principio, verrò diffusamente parlando in seguito e in apposite appendici sì dello spartito che degli artisti.
rf.


"Gazzetta di Parma" del 15 gennaio 1884

Il flagello di Dio, ossia Attila è andato in scena domenica sera, con esito assolutamente negativo. Il pubblico non ha permesso che si terminasse lo spettacolo. Si sono salvati il basso Purarelli che ha bellissima e fortissima voce - proprio quello che ci vuole per cantare siffatti spartiti - ed il baritono Felici, che canta benino assai. Gli altri un massacro. Non parlo poi dei vestieri, della messa in scena. Robaccia. In somma uno spettacolaccio da teatro di quart'ordine. Povera musica italiana, tu sei proprio la cenerentola degl'impresari e degli editori! L'Impresa ha promesso di mettere in scena l'Attila migliorato e corretto. Intanto iersera abbiamo avuto ancora il Lohengrin con molti applausi e teatro splendido.


"Gazzetta di Parma" del 22 gennaio 1884

La seconda edizione dell'Attila non ha avuto - per quanto migliorata sotto alcuni rapporti - un esito molto più felice della prima. Il pubblico ha fatto buon viso ed ha applaudito, e giustamente, il Purarelli che ha una bella e potente voce di basso; moltissimi applausi prodigò pure al baritono Felici, un esordiente il quale canta un po' a scatti, ma che ha una voce simpaticissima di timbro tenorile - anzi a questi il pubblico chiese la replica di due pezzi ma si mantenne un po' freddo verso la signora Kottas, la nuova prima donna, artista provetta e dotata di non scarse qualità che non si possono a meno d'apprezzare. Ebbe anch'essa, in più punti dell'opera, applausi sinceri, ma sono persuaso che rimessasi dal solito panico, il suo successo sarà, un'altra sera, più spiccato. In quanto al tenore comprimario sig. Battista, che per compiacenza volle assumere temporaneamente la parte di Foresto, bisogna encomiare in lui, la giusta intonazione e la buona volontà. Sicuro che la sua voce non era all'altezza della parte... Ma il pubblico gli rese giustizia conservando, a suo riguardo un contegno glaciale, ma non ostile. Il pubblico si sfogò all'ultimo calar della tela ed a ragione. Francamente parlando, quest'Attila, come è dato, non è tollerabile. Non solo è stato messo in scena alla carlona, ma pare concertato anche per dispetto. L'orchestra non sembra più quella disciplinatissima, attenta del Lohengrin. Domani a sera, terza edizione dell'Attila con il tenore Baldini, ristabilitosi in salute.
Z.


"Il Presente" del 23 gennaio 1884

Parlando ieri del poco lieto successo ottenuto l'altra sera dall'Attila, abbiam detto, come era del resto conforme alla verità, che il pubblico, a spettacolo finito, proruppe in poco lusinghiere grida all'indirizzo dell'Impresa e della Commissione teatrale. Ora, per quanto riguarda la Commissione teatrale, sentiamo il dovere di aggiungere, che essa non ha nessuna colpa nell'attuale crisi teatrale, per la semplicissima ragione che l'Attila non fa parte delle opere comprese nel contratto d'appalto, le quali non erano che tre: il Lohengrin, gli Ugonotti e l'Amazylia. L'Impresa, la quale, di motu proprio, si assunse di darci anche l'Attila, senza ben ponderare se aveva tutti i mezzi sufficienti per la sua esecuzione, venne a trovarsi nelle attuali difficili condizioni. Questo per la pura verità e perchè siam devoti all'adagio: cuique suum. Sappiamo frattanto che - contrariamente a quanto affermava ieri la Gazzetta di Parma - l'Attila non si darà più e sarà invece affrettata l'andata in scena degli Ugonotti.
rf.


"Gazzetta di Parma" del 31 gennaio 1884

Cronista fedele, soprattutto, metto, per ora, da banda le mie personali impressioni e constato che gli Ugonotti hanno avuto iersera, un successo non completo, pieno, entusiastico; ma purtuttavia un lieto successo. L'opera, a mio debole avviso non era matura per la rappresentazione. Con qualche prova di più, certe oscillazioni, esitanze ed inesattezze, sarebbersi, forse, potute evitare; ma, ad onta di ciò, lo spettacolo è proceduto fino alla fine senza gravi inconvenienti e le pecche, cui ho accennato, passarono inavvertite ai più, massime a quella parte di pubblico pel quale il sommo spartito meyerbeeriano era cosa nuova. Applausi ben nutriti, fragorosi, spesso, ve ne furono per tutti: per la signora Pierson (Valentina), per la signora Scarlatti Maccaferri (Paggio), pel Casartelli (Raoul), pel Carbone (Nevers), pel Bedogni (Marcello), pel Purarelli (Saint Bris), pel direttore Vanzo, per le masse corali ed orchestrali, pel scenografo Magnani. La signora Smeroski, la quale presentavasi al pubblico per la prima volta, sotto le spoglie di Margherita di Valois, ottenne un pieno, strepitoso e meritato trionfo. I pezzi che piacquero di più al pubblico in fatto di esecuzione - furono: la romanza del tenore: "Bianca al par di neve alpine", cantata con grazia somma dal Casartelli ed accompagnata squisitamente dalla prima viola, il bravissimo Nastrucci, il quale riscosse un plauso unanime; tutta la scena, nel second'atto, della Regina, in cui la signora Smeroski si mostrò cantante valentissima; tutta la scena della congiura, in cui ha campo di farsi onore il Purarelli e dove il maestro Vanzo ha saputo ottenere effetti bellissimi, per cui il pubblico gli mostrò il suo pieno gradimento applaudendolo ed esigendo la replica del pezzo; ed il susseguente famoso duetto, dove la gentile signora Pierson seppe animarsi un po' più e disse molto bene alcune di quelle frasi appassionatissime, coadiuvata egregiamente dal tenore, i mezzi vocali del quale non saranno, per avventura, totalmente all'altezza di quel pezzo colossale, ma a tale lieve difetto, egli supplisce con l'arte ed un buon gusto che non si saprebbero abbastanza encomiare. Nello spartito si sono praticati molti tagli, alcuni de'quali - mi spiace il dirlo - poco intelligenti, perché rendono incomprensibile l'azione. Il quint'atto è una vera stroncatura e trovo che tanto valeva sopprimerlo di sana pianta. Belli i vestiari delle prime parti. Benissimo messi il Nevers ed il Marcello. Trovo che Raoul poteva far di meno di mettersi gli stivaloni e le manopole di cuoio per andare a pranzo in casa d'amici. Ho dovuto deplorare la mancanza sul palco scenico di un direttore di scena ascoltato. Lassù tutti comandano, nessuno obbedisce; così avviene che, nel terzo atto, nella scena del duello, allorquando Marcello avvisa del tradimento scoperto, gli ugonotti, in cambio di raggrupparsi e stare su le difese, mettono con tutta pace la spada nel fodero, con un sangue freddo, che è ben poco verosimile. E poi, nell'anno di grazia 1572 ai testimoni dei duellanti non era assegnata la parte assai comoda, che i miti costumi odierni destinano ai padrini. Questi, allora traevano anch'essi la spada e si sbudellavano che era un piacere. Credo che molte mende nell'esecuzione spariranno in appresso, massime ora, che il successo deve aver rinfrancato gli esecutori. Io me lo auguro per gli artisti, degni di tutte le simpatie e per l'Impresario che ha saputo ammanirci uno spettacolo, di cui sarebbe ingiustizia il non proclamarsi contenti.
Z.


"Il Presente" del 14 febbraio 1884

Compieva ieri un anno che una grande avventura colpiva l'arte musicale. Riccardo Wagner, mentre era venuto a Venezia quasi a voler ritemprare la mente in un nuovo etere, in una luce di nuova armonia, allo spettacolo dell'arte ispirata dal genio bizantino, mentre egli si disponeva a dare un addio agli eroi dei Nibelungi per respirare un'aura tutto spirante melodia ed affetto e volgere l'immensità del suo genio all'intera umanità, varcò la soglia del finito per inabissarsi nel terribile ignoto d'oltre tomba. Riccardo Wagner moriva senza avere raggiunto tutti gli scopi ch'egli si era prefisso nella sua missione eminentemente educatrice: moriva volgendo forse un sospiro all'Italia, che avrebbe voluto sposare al genio alemanno per avere un'arte nuova, un'arte che non avrebbero potuto creare isolatamente né le Muse italiche, né quelle della terra d'Albione. A commemorare degnamente il giorno in cui l'arte perdette un sì eletto figlio, a rendere - diremo - un omaggio di venerazione e di affetto alla memoria del grande innovatore tedesco, Parma è stata tutta premurosa. L'Impresa del Regio con gentile e nobile pensiero iniziò la cosa e chiamò la nostra cittadinanza ad una solenne serata di musica Wagneriana. E la cittadinanza Parmense accorse iersera affollata al Teatro. È oramai perfettamente inutile che noi aggiungiamo nuove parole di lode a quelle profuse altre volte agli egregi interpreti del Lohengrin, come è altrettanto superfluo dirne altre ad elogio della eccellenza del capolavoro wagneriano. Constatiamo soltanto, che ieri sera il Lohengrin, alla sua sedicesima rappresentazione, trasse il pubblico a slanci calorosi d'entusiasmo, nei quali gli applausi e le chiamate si succedettero senza fine e senza misura. La Sinfonia del Tannhàuser ebbe dalla nostra orchestra una esecuzione inappuntabile e venne ripetuta, dietro le più clamorose ed unanimi richieste del pubblico, plaudente in modo vivissimo. E non meno egregiamente fu eseguita la Marcia del quarto atto dell'opera istessa, nella quale i cantanti del Lohengrin e i cori dell'una parte, l'orchestra dell'altra furono addirittura commendevolissimi. Tanto l'egregio maestro Vanzo, che diresse l'orchestra con quella valentìa, che altre volte ebbimo ad encomiare in lui, come il maestro Gerbella, direttore dei cori, ebbero parecchie chiamate al proscenio e sincere quanto meritate ovazioni. La serata insomma riuscì splendidissima, degna veramente del grande sacerdote dell'arte, ad onore del quale era volta. E ne va resa lode, oltre che a tutti quanti presero parte attiva a questo trattenimento, al bravo impresario signor Scarlatti, che tale trattenimento seppe allestirci.
rf.


"Gazzetta di Parma" del 19 febbraio 1884

Essendo imminente l'andata in scena dell'Amazilia del maestro Palminteri, credo conveniente, prima di registrare il successo dell'opera - che auguro lietissimo - dare un breve cenno della vita, degli studi e dei lavori del giovine maestro, il quale viene ora a sottoporre il proprio spartito al giudizio dei parmigiani. Il maestro Antonino Palminteri ebbe umile origine questo sia detto a sua lode, che già seppe acquistare un bel posto nell'arte - e nacque a Menfi, piccolo paese, posto laggiù in fondo alla Sicilia. Studiò i primi rudimenti dell'arte sua sotto la guida dell'avv. Viviani, egregio dilettante, e col fine di provvedere all'esistenza, imparò a suonar l'organo e divenne organista nella cattedrale del luogo nativo. La sua ambizione non si limitava, però a questo. In seguito a concorso, ottenne un posto gratuito nel Conservatorio di musica di Palermo, ove studiò contrappunto e composizione sotto il maestro Platanìa. Ultimati con onore i suoi studi e resosi vacante, in detto Istituto, il posto di maestro d'armonia vi concorse assieme ad altri valenti e l'ottenne. Ma la speranza di un migliore avvenire; la passione per la musica melodrammatica, che lo spingeva sul sentiero dove pochi trovarono la gloria e tanti la più amara delusione, gl'incitamenti del comm. Basile, allora prefetto di Palermo, indussero lui pure a recarsi a Milano. La stella gli si mostrò benigna, perché la signora Giovannina Lucca, l'intelligente e munifica proteggitrice dei giovani artisti promittenti, lo prese sotto la sua protezione e, mercè sua, il Palminteri potè far rappresentare la sua prima opera l'Enrico II, nel teatro di Monza. Il successo di questo spartito fu assai lunsighiero. Ricordo che i giornali di Milano ne parlarono con molto favore. La stessa opera, e sempre con lieto successo, venne poi rappresentata a Ferrara, a Bergamo, a Voghera, a Casal Monferrato e di recente a Novara. Incoraggiato da questo felice esordio, al m. Palminteri premeva mostrare che il suo estro non s'era addormentato sugli allori. La difficoltà principale era di trovare un libretto, perché, al giorno d'oggi, i librettisti si fanno pagar salato. Ma anche qui la sorte venne in aiuto al giovine maestro. Un suo amico - e poi si dica che al mondo non c'è della brava gente! - gli comperò l'Amazilia e incoraggiato da questo nuovo raggio di fortuna, il Palminteri si mise tutto infervorato al lavoro. La nuova opera andò in scena lo scorso autunno al teatro Dal Verme di Milano ed ebbe sorte lieta. Il maestro, che ha buon senso, buoncuore e che, moderatissimo, non si crede nient'affatto un genio incapace di fallare, fece tesoro delle critiche fatte al suo lavoro e così d'accordo col librettista, corresse, emendò e, voglio credere, migliorò. Presentato così ai miei lettori il simpatico maestro, mi riserbo di parlare domani nel libretto.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 21 febbraio 1884

Ecco la cronaca di iersera, in cui ha avuto luogo la prima rappresentazione dell'Amazilia del m. Palminteri. Applausi abbastanza calorosi ed unanimi alla fine del primo atto ed una chiamata al maestro che è comparso al proscenio assieme agli artisti. Silenzio glaciale in tutto il second'atto e qualche zittio al calar della tela. Nel terz'atto, applausi un poco stentati alla fine del pezzo concertato ed una chiamata contrastata all'autore calato il sipario. Qui l'orchestra essendosi, quasi tutta, alzata per applaudire, una voce da un palco gridò: l'orchestra sia zitta. Mi sembra che quella voce avesse ragione. L'orchestra fa parte dello spettacolo, quindi, meno casi eccezionalissimi, non deve prender parte al giudizio del pubblico; massime poi se tale giudizio non è unanime. Silenzio sepolcrale, interrotto soltanto da qualche segno d'impazienza, in tutto l'ultimo atto non un applauso in fine dell'opera, anzi segni non equivoci di disapprovazione. Dopo questa cronaca, che ritengo d'aver riportato fedelissimamente, credo sarebbe inutile lambiccarsi il cervello per definire l'esito di iersera. L'Amazilia è caduta completamente, irremissibilmente. L'opera meritava questa triste sorte? Esito a pronunciarmi in proposito, dopo una sola audizione; tanto più che non ho assistito nemmanco ad una prova. Tuttavia - mi spiace dirlo, pel maestro Palminteri, che è giovine simpaticissimo - mi pare che il giudizio del pubblico, per quanto severo, non sia errato. Se si ripeterà l'opera - e credo sarebbe un errore - ritornerò su questo argomento, addentrandomici un po' più. Iersera il pubblico è rimasto come instupidito alla vista di certi scenari, di un gusto, d'una fattura, d'un effetto tutto particolare. A prima vista s'è giurato che il pennello dell'illustre Magnani non c'entrava di certo. Erano, infatti scenari spediti da Milano e che, credo, abbiano servito pel teatro Dal Verme, quando si rappresentò, colà, l'Amazilia. Che roba, mio Dio!
Z.


"Gazzetta di Parma" del 3 febbraio 1884

L'INCIDENTE IN TEATRO
Per debito d'imparzialità pubblichiamo la seguente:
Preg. Signor Direttore della Gazz. di Parma
I sottoscritti operai, addetti al Teatro Regio, in risposta ad un articolo inserito nella cronaca d'ieri del pregiato Giornale, da lei diretto riguardante un Incidente in teatro, e in onor del vero, dichiarano quanto appresso:
Che la sfuggita di gaz avvenuta in un tubo delle quinte venne causata dalla sbadataggine dell'accenditore Franchi Giuseppe, il quale staccò il tubo di gomma prima che fosse chiuso il rubinetto di sicurezza sottopalco.
Che non fu niente affatto lo stesso Franchi quello che accorse a mettere la mano sopra il foro, ma bensì l'operaio Fulgoni Aristide; al quale, se pure qualche piccolo inconveniente poteva verificare, va data lode d'averlo impedito.
Che il Franchi, al contrario preso sul momento da paura, non seppe far di meglio che abbandonare il tubo. Che non c'entra per nulla la pressione del gaz, né tampoco guasti nei tubi, che ve ne furono di sorta, essendo essi affatto nuovi.
I sottoscritti dichiarano tutto ciò perché non vada la lode al sedicente meccanico Franchi, che invece merita tutto il biasimo, per essere stato lui la causa del rimarcato incidente; e si affidano alla di Lei bontà affinché questa loro rettifica abbia posto nelle colonne del suo accreditato giornale.

Parma 1° Gennaio 1884

DOMENICO COLLA, assistente della illuminazione a gaz del R. Teatro.
Accenditori: Zamboni Zeffirino - Adorni Enrico - Schumacher Carlo - Dalla Giacoma Alfredo.
Macchinisti falegnami: Tavernari Giovanni - Michele Ferrari - Ferdinando Mori - Monchi Andrea - Marchi Guglielmo - Guzzoni Antonio - Manganelli Egidio - Mainardi Giuseppe.


"Gazzetta di Parma" del 26 febbraio 1884

Come si scrive la storia... dai giornali teatrali! Me n'è capitato una tra mano, che m'ha fatto ridere di cuore. Figurarsi che, dopo aver detto tutto il bene possibile della signora Pierson; dopo aver assicurato che se nel Lohengrin essa fu grande, negli Ugonotti, fu insuperabile - e fin qui niente di male - mette in posto secondario la signora Smeroski e le si concede al più, buoni mezzi ed agilità. Lo stesso giornale contiene i seguenti telegrammi che danno un raguaglio fedele dell'esito dell'Amazilia. Li scriviamo parola per parola.
Parma 21
Amazilia Palminteri esito buonissimo abbenché contrastato diversi punti. Molti pezzi ed artisti tutti applauditissimi, maestro chiamato 10 volte, messa scena splendida. Domani seconda recita.
Parma 22 Seconda Amazilia riconfermò esito prima rappresentazione. Palminteri festeggiatissimo, 12 chiamate proscenio. Esecutori applauditissimi, bissato vari pezzi. Teatro affollatissimo presentava grande effetto; dovettero rimandare pubblico accorso.
In qual modo sei servita dai tuoi corrispondenti, povera Lanterna... cieca!


"Gazzetta di Parma" del 6 marzo 1884

Tutti gli anni s'intona il De profundis al Carnevale; lo si dice morto e sepolto senza speranza di risurrezione; s'impreca alla generale musoneria; alla gioventù che non sa più divertirsi; ai moderni don Giovanni che crederebbero disonorarsi facendo un giro di waltzer, o facendosi vedere con la cravatta bianca; si sospira il bel tempo andato; si raccontano con compiacenza le pazzie fatte e viste a fare; eppure in questi omei, in tutti questi rimpianti c'è una gran dose di esagerazione. È vero: nel passato carnevale non ci furono corsi ed i veglioni riescirono la cosa più magra, più meschina di questo mondo; ciò, però, non vuol mica dire che la gente non si sia divertita; che non ci siano state delle famiglie ospitali che hanno aperte, più d'una volta, le loro sale agli amici; che finalmente la gioventù non abbia ballato fino a perdere il fiato. Tutt'alpiù si direbbe che s'è mutato gusto nel divertirsi, ma questo poco monta: de gustibus non est disputandum; e sia a teatro o sul corso, o in case private, sia con la maschera, o col volto scoperto, purché il divertimento riesca gradito, simpatico, entrainanf. Direi anzi che il carnevale non ha spento il desiderio divertirsi; non ha reso fiacca e slombata la gioventù, dacchè ieri sera ho visto - ad onta della stagione quaresimale - circa sessanta signore ed un adeguato numero di giovinotti radunati nelle suntuose sale del sig. Baistrocchi e tutti con una voglia matta di ballare. Che splendida collezione di belle signore e di gentili giovanette, tra le più belle e graziose che vanti questa città, la quale, non faccio per dire, su questo proposito, fa restare a bocca aperta i forestieri! E come hanno ballato! Ma prima che incominciassero le danze, siccome in casa Baistrocchi si adora la musica e la figlia dei padroni di casa è una distintissima dilettante, così si è avuto un breve concerto. Pochi pezzi, ma scelti con discernimento e buon gusto. La sinfonia delle Vispe Comari di Nicolai, per due pianoforti ad otto mani; la Romanza del tenore sulla Forza del destino cantata dal signor Alfredo Baistrocchi, esso pure appassionato dilettante e che possiede, per giunta, buoni mezzi vocali; un pezzo di Thomas ed un altro di Bellotta per arpa eseguiti dalla bravissima signorina De Stefani; il duetto dell'opera Giulietta e Romeo di Gounod, che la signora Dalla Croce ed il fratello suo hanno cantato a meraviglia; una Romanza per violoncello suonata deliziosamente dal bravo Pezzani; finalmente la sempre bella Leggenda Valacca di Braga, cantata, più che da dilettante, da artista dalla signora Dalla Croce accompagnata dal violoncello. Dopo il concerto, come ho già detto, incominciarono le danze. Alle quattro quando me ne sono andato io, perché a me non è più concesso passare une nuit blanche, si ballava furiosamente il cotillon. E scommetto che se i gentili padroni di casa volessero ripetere la loro simpatica festa, tutte quelle belle signorine ci terrebbero a provare che, carnevale o quaresima per loro fa lo stesso, quando si tratta di passare delle sere tanto piacevolmente.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 28 dicembre 1883

LOHENGRIN
OPERA ROMANTICA
di RICCARDO WAGNER
Riccardo Wagner, è stato uno dei pochi innovatori; uno dei pochi profeti che abbia avuto la fortuna di vedere tradotto in atto quanto la mente aveva ideato; quanto la fantasia nei suoi voli più sfrenati aveva osato concepire. La grandiosa idea di una radicale riforma del teatro lirico, infiltratasi nel cervello di Wagner alla contemplazione dei capolavori di Gluck, di Beethoven, di Mozart, ebbe il suo completo sviluppo con la creazione del teatro di Beyreuth e la rappresentazione della trilogia l'Anello dei Niebelungen. Wagner non poté più gridare, come le altre volte: excelsior! Il tempio era eretto; il verbo era stato rivelato; toccava alle turbe l'adorare e credere. L'apostolo avendo compiuto la sua missione, spariva e restava il culto. Ciò accadeva nel 1876. Quasi ieri! Però, dal giorno della rivelazione all'apoteosi la lotta fu lunga, accanita. Wagner vi lasciò brandelli di carne viva, palpitante; il suo cuore sopportò mille dolorose trafitture; lo spirito ne rimase avvelenato. Vinse, pur tuttavia, perché volle, fortemente volle. Più di tutto si deve ammirare in Wagner la potenza della volontà; la tenacia del carattere. E come succede sempre de' riformatori; di coloro che si propongono di deviare la corrente delle opinioni e delle abitudini, e innalzano lo stendardo della rivolta contro grandezze finora indiscusse, contro idoli davanti ai quali tutti prostransi, confondendo nella rabbia demolitrice il buono ed il cattivo, il maestoso ed il grottesco; il grande maestro tedesco, se ebbe nemici acerrimi, implacabili, ebbe pure discepoli ferventi, adoratori entusiastici, ciechi, fanatici, imitatori, ahi troppo spesso infelici! Ed anche, siccome infallantemente avviene, nel procedere del profeta verso la realizzazione del suo ideale; verso la sognata terra promessa, dalla turba si staccavano i meno ferventi ed i meno ciechi. Ad ogni nuova manifestazione del concetto wagneriano, la turba si diradava; molti titubavano, non vedendo ben chiara la méta; oppure, vedendola, dichiaravano di non voler fare un passo di più per raggiungerla. Fin qui ci arrivo - hanno detto molti wagneriani convinti, ma illuminati - più in là no. Qui meriterebbe davvero il conto ch'io esponessi succintamente in che consiste questa riforma wagneriana, di cui si parla da un pezzo e che molti esaltano, o combattono senza sapere con precisione in che cosa consista. E non mi riuscirebbe troppo difficile il farlo, con la scorta di quanto lo stesso Wagner espose in molte sue polemiche d'arte e illustrarono parecchi reputati scrittori, tra i quali non mancano gl'italiani. Ma io avrei timore di troppo dilungarmi, ciò facendo, e di addentrarmi in questioni troppo, astruse, perdendo di vista il proponimento che mi son fatto di parlare esclusivamente del Lohengrin. Tuttavia, per l'intelligenza di quanto dirò più avanti, m'è giuocoforza riassumere in poche linee quanto Wagner crede consistere la perfezione del poema musicato. Wagner ha attinto il concetto della sua estetica musicale a quella inesauribile fonte del bello che è l'Arte greca. Il dramma in antico, consisteva in un'intima fusione di tutti gli elementi teatrabili e a formare la quale concorreva in perfetto accordo la poesia, la mimica, la musica. Fare concorrere quest'ultima allo svolgimento del dramma, in modo, non solo di dare forza e colorito all'azione; ma di rivelare l'intima coscienza dell'attore, fu il fine che si prefisse Wagner. Al dramma più declamato che cantato Wagner aggiunse una istromentazione ricca, svariata e, di certo, immensamente superiore alla melopea che accompagnava le tragedie greche. Da ciò il necessario predominio dell'orchestra negli spartiti wagneriani. Quando all'attore è tolto il mezzo d'esprimere la passione che lo domina con un canto limpido e simetrico; e che tutto il suo impiego si riduce a poco più che una declamazione, è naturale che gl'istromenti debbano incaricarsi di siffatta parte. Facile il dirsi, ma difficile assai ad ottenersi, tanto è vero che illustri critici, ammiratori di Wagner quant'altri mai non esitarono a dichiarare che la polifonia era insufficiente all'uopo e che l'illustre maestro soggiaceva ad un'illusione dei propri sensi. Naturalmente il sistema wagneriano rovesciava da cima a fondo tutta la tradizione della musica italiana. Ai canti ispirati, ritmici, simetrici, agli accompagnamenti leggeri dell'orchestra, Wagner sostituiva un continuo recitativo, sostenuto da una istrumentazione, portentosa ma anche farragginosa e molto spesso oscura per voler esser troppo eloquente. I cantanti discendevano al rango di attori; e gl'istrumenti pigliavano un posto principalissimo; esorbitante, secondo il concetto di taluni. Non si può negare che molte delle critiche fatte dal Wagner alla musica italiana non fossero giuste. In gran parte degli spartiti italiani c'era troppo manierismo; una soverchia preoccupazione dell'effetto plateale; una smaccata piaggeria al virtuosismo degli artisti ed una biasimevole sprezzatura delle esigenze drammatiche, che spesso offendevano il buon gusto ed anche il senso comune. Se non altro si dovrà in massima parte al Wagner se le cabalette, le ripetizioni ed altri convenzionalismi non appariranno più negli spartiti dei maestri italiani. Verdi ha già dato un splendido esempio con la sua Aida. Con tutto ciò non resta dimostrato che l'efficacia del dramma debbasi esclusivamente far risaltare col solo mezzo della polifonia. Converrebbe ammettere che il finale della Norma, il quart'atto degli Ugonotti, il quartetto del Rigoletto non sono pagine di somma potenzialità drammatica, esplicata con mezzi ben differenti da quelli impiegati dal celebre maestro tedesco. I fanatici, forse, s'arrischieranno a sostenere una simile bestemmia; ma tutti i pubblici hanno finora protestato e non dubito protesteranno sempre.
Conseguenza di questo sistema che tenta dare alla musica uno scopo nuovo e che non sia il puro diletto de' sensi è l'elemento soprannaturale che predomina e spesso è quasi esclusivo nei drammi di Wagner. Le passioni prettamente umane, i personaggi storici hanno carattere troppo spiccato, troppo delineato perché si possano rendere con una musica indecisa, vaporosa, che ha per qualità peculiare l'idealità. Perciò Wagner quando l'azione drammatica non è l'esposizione de' miti scandinavi, si basa su una leggenda dove il meraviglioso ha parte predominante. Così l'Anello dei Niebelungen; così il Vascello fantasma, il Tannhäuser, il Lohengrin. Un reputato critico spagnuolo, Marsillach Lleonardt scrisse che la riforma letteraria di Wagner era l'unica parte completamente incensurabile. Secondo i gusti. Non tutti i pubblici possono interessarsi delle vicende dell'Olandese volante, dei caratteri di Elsa e di Tannhäuser, né delle gesta di Wotan e Sigfrido. Gl'italiani, per esempio - questi pagani bigotti - non si potranno mai commuovere per le astruserie dei miti e delle leggende germaniche; essi si appassionano per una cosa sola: per la passione, come la intendano gli umani. Il Lohengrin fu rappresentato la prima volta nel 1850, tre anni dopo che era stato finito. Prima di questo partito, Wagner aveva dato alle scene il Cola de Renzi ed il Tannhäuser con vario successo. L'apparizione di detto spartito segna il punto culminante della carriera artistica di Wagner. I suoi avversari lo combattono sempre con accanimento; ma il maestro ha dietro di sé le falangi compatte de' suoi ammiratori, non ancora scosse dal dubbio, né rese titubanti alla vista dei nuovi e sempre più lontani orizzonti, che l'irrequieto conduttore loro addita. E le falangi abbattono gli ostacoli ed a Beyreuth si gettano le fondamenta del nuovo San Pietro dell'avvenirismo.
Ammessa la teoria musicale di Wagner, il Lohengrin è opera d'arte rimarchevolissima. Molti l'additano come il summum della perfezione fin qui raggiunta. E può darsi che, dal loro punto di vista, ragionino bene. Se la musica avesse un altro fine oltre quello di produrre nell'animo dell'ascoltatore una successione di sensazione gradevoli; se fosse vero che essa esprime qualche cosa di più che una serie di suoni e di accordi più o meno gradevoli all'orecchio; la musica di Wagner e questa del Lohengrin avrebbe raggiunto il grado della maggior possibile perfezione. Ma, siccome sono dell'avviso di un eminente critico tedesco, l'Hanslik, al cui parere si accosta anche un illustre critico italiano, il Panzacchi: che "la musica per sé, esprime le idee musicali e non può esprimere altro", così del Lohengrin applaudo a tutto ciò che vi ha di assolutamente bello, nel ristretto senso musicale; ma non approvo quanto v'ha di astruso, di contorto, di noioso. E molte di queste astruserie, di questi contorcimenti che prolungano soverchiamente l'azione e finiscono per generare la stanchezza e la noia, oltre che alla maniera del maestro, dipendono, mi pare, dal libretto. L'argomento del Lohengrin, tolto da un'antica leggenda tedesca, è un arruffio bell'e buono, che farebbe onore ad una balia immaginosa; ma nel quale lo spettatore non ci si raccapezza se non con stento e fatica, quando pure ci riesce. Per un pubblico in generale, ed italiano, in particolar modo, quel signor Lohengrin, figlio di Percival, cavaliere del San Graal, che viene, non si sa d'onde, in barchetta tirata da un pseudo cigno, che non è altri che il duca di Brabante, fatto palmipede in grazia di un incantesimo di Ortruda; ha l'aria del più bel pasticcio di questo mondo. Nella leggenda di Volframo di Escinbach, tutto ciò sarà chiaro e limpido; ma condensato in tre atti di un dramma riesce quasi incomprensibile. Wagner per rendere meno inaccessibile il libretto alla mente dello spettatore ha dovuto di necessità dilavare l'azione con una quantità di racconti interminabili, che tolgono ad essa la desiderata speditezza.
La musica, di necessità, si risente di questo capitale difetto. Infatti, tutta la parte non breve del primo atto che procede l'arrivo di Elsa è privo di qualsiasi interesse. Il lungo racconto di Federico - trentadue versi! - in cui espone i torti di Elsa e domanda al re Enrico di succedere all'estinto duca di Brabante, non è che un solo recitativo, sotto il quale l'orchestra tesse una infinità di ricami, alcuni de' quali graziosissimi; ma che proprio non vogliono dir nulla, sebbene i profeti della scuola avvenirista si sforzino a vedere la ragione logica in ogni tremolio di violino, in ogni grattata di violoncello. L'azione si fa un tantino più interessante con l'arrivo di Elsa. Qui il linguaggio musicale - per usare una frase convenzionale - diventa più chiaro ed intelliggibile e certo la posizione drammatica si presterebbe ad uno sgorgo di melodia appassionata, se non fosse un dogma della scuola wagneriana che la "melodia fluida e spontanea" - come si esprime un detto avvenista - debba essere bandita e in sua vece esaltato "un recitativo cantato; una specie di cantata melodiosa, come quelle che si ode quando ci troviamo ad una certa distanza da un oratore, di cui non possiamo percepire distintamente le sillabe che pronuncia, ma siamo abbastanza a lui vicini perché le inflessioni della voce ce le lascino indovinare." Ma la scena acquista un carattere di vera grandezza, quando s'annuncia l'arrivo di Lohengrin condotto dal cigno. Nell'arte di fare agire le masse, di descrivere il tumulto, Wagner è sommo. Il coro, compreso di stupore alla vista dello strano pellegrino, è preso da timore e insieme da entusiasma religioso, e grida al miracolo. È una pagina musicale d'inestimabile valore e che il pubblico - sia detto a sua lode - ha compreso ed apprezzato subito. Tanto è vero che la musica veramente bella si capisce d'acchito, anche se non è simmetricamente melodica. L'addio di Lohengrin al cigno - che lo Schure, altro fervente wagnerista chiama esageratamente una "melodia divina" - è pure una bella cosa e costituisce assieme ad una frase di Ortruda e ad un altra di Lohengrin - quando raccomanda ad Elsa di non chiedergli mai di rivelar l'essere suo - una delle melodie tipiche che nel corso dell'opera si ripetono variamente foggiate. L'azione quindi si svolge con la solita lentezza. Si fanno i preparativi pel giudizio di Dio; l'Araldo rammenta ai campioni le regole che debbono osservarsi; il Re fa un'invocazione a Dio perché dia la vittoria al giusto ed il coro fa eco con un unissono di bell'effetto e che dopo tutta quella melopea scuote un po' la fibbra dello spettatore. L'atto termina con un pezzo concertato che racchiude alcune buone frasi ed è condotto con la solita maestria.
L'atto secondo è il più ostico di tutti. Il duetto tra Ortruda e Federico interminabile e ineffabilmente noioso, termina però con un a due con accordo di ottava assai caratteristico e di bell'effetto. Elsa si affaccia al verone e confida alla luna i palpiti del cuore. E una situazione, press'a poco, come quella di Margherita nel Faust; ma il canto di Elsa non agguaglia certo in dolcezza il canto di Margherita. Più interessante è il susseguente duetto tra Elsa e Ortruda, dove i contrabbassi e i violoncelli ripetono la frase caratteristica di quest'ultima, che rappresenta il genio del male. Ispiratissima è la frase che chiude questo duetto; frase appoggiata principalmente ai violini. Anche qui il pubblico non manca mai di applaudire.
La scena dell'alba è pure un magnifico pezzo. Suona la sveglia a cui risponde l'eco. I corni intuonano sommessamente una breve frase, la quale eseguiscono successivamente gli altri istrumenti, terminando con un pieno d'orchestra di effetto irresistibile. Ma vengono le solite divagrazioni; le solite lungaggini che scemono l'interesse. Bello il coro "felice sia l'eletta" con un crescendo d'orchestra di grande sonorità. La scena tra Elsa ed Ortruda che vuole impedire l'accesso in chiesa alla prima, contiene bei particolari; ma forse perché l'azione non è sufficientemente giustificata dell'esigenza del dramma, il pubblico resta freddo. La identica posizione si ripete poco dopo; se non che questa volta è Federico che impedisce a Lohengrin e ad Elsa l'entrata in chiesa, lanciando l'accusa di frode magia al suo rivale. L'azione drammatica, ad onta di ciò non manca di efficacia e la musica raggiunge un grado di potenza che strappa l'applauso. Questo finale è uno de' pezzi che piace di più.
Il terz'atto - diviso in due parti per comodità della scena - è - a mio avviso - il più bello di tutti. Comincia con un preludio a tempo affrettato - mi si dice che Mariani lo facesse eseguire con un tempo molto più sostenuto - d'effetto irresistibile. Ed è strano che l'autore, il quale attribuisce alla musica la virtù di manifestare ogni moto psichico; la potenza della parola parlata, abbia creduto prudente di avvertire il pubblico che "l'orchestra esprimeva la gioia di una festa nuziale. - È vero che è tanto zuccone il pubblico! il duetto tra Elsa e Lohengrin - quantunque straordinariamente lungo - è una pagina musicale squisita per sentimento, straordinaria pel modo con cui è svolta. La musica, dolce, carezzevole, primo incontro dei due sposi amanti, diventa inquieta, tormentosa man mano che in Elsa si fa irrefrebabile il desiderio di apprendere chi sia l'uomo straordinario, al quale s'è legata per tutta la vita. La frase caratteristica di Ortruda rugge sordamente, si svolge e si contorce a guisa di serpente, facendo sovvenire i dubbi perfidi istillati dalla maga nell'animo innocente di Elsa. Pieno di profonda mestizia è all'incontro il canto di Lohengrin, il quale ben vede che la sua felicità presente sarà distrutta dalla curiosità della sua donna. La scena è bruscamente interrotta dall'irrompere nella camera nuziale di Federico seguito da quattro accoliti. Federico è ucciso; i suoi compagni si arrendono e Lohengrin annunzia che alla presenza del Re svelerà il mistero che copre la sua origine, indi partirà subito, perché così vuole il destino. E infatti davanti Re, ai guerrieri ed al popolo Lohengrin dice d'essere figlio Percival, capo dei cavalieri San Graal, inviato dal padre per difendere l'innocenza in periglio; ma che avendo i cavalieri del San Graal per statuto di non rivelare l'esser loro ad anima viva, egli dovrà tosto ripartire, ora che lo si è forzato a parlare. Il lungo racconto di Lohengrin è in gran parte recitativo; ma le combinazioni armoniche gli dànno rilievo sono così elette, che nessuno s'accorge della sua lunghezza. Sublime il contrasto tra il coro compreso di ammirazione e lo strazio della povera Elsa che vede inevitabile, vicina la sua sciagura. Il cigno arriva e mentre i violini eseguiscono sommessamente un tremolo, Lohengrin saluta mestamente questa sua fida guida, indi si rivolge ad Elsa, dandole, in pegno dell'amor suo la spada, il corno e l'anello. Ispiratissima n'è la melodia, la quale acquista, poi, un carattere di dolcezza ineffabile su parole "Ma se all'anello volgerà il suo ciglio - a quei che ti salvava ei penserà". L'ultima invettiva di Ortruda, l'inabissarsi del cigno e la comparsa di Goffredo di Brabante, terminano rapidamente il dramma.
Ho voluto, seguendo passo passo il libretto, rilevare le maggiori bellezze - o, almeno, quelle che a me sono parse tali - dello spartito, non tacendo quello su cui, secondo il mio modo di vedere e di sentire, si può trovare a ridire. La mia sarà parsa soverchia audacia; amo però meglio così, piuttosto che i miei cortesi lettori mi possano credere capace di non dire intera quanto a me pare la verità. Riassumendomi, dirò che il Lohengrin mi sembra opera di mente altissima e che contenga bellezze d'inestimabile valore. I diffetti che m'è parso riscontrarvi, dipendono in parte dal libretto, in parte dalla maniera del maestro. Quegli eterni recitativi, per quanto sostenuti da un istrumentale ricco e potente, finiscono per generare stanchezza. Forse la musica di Wagner riescirà più comprensibile ad orecchie germaniche, perché intonata con l'ambiente, in cui ha potuto germogliare il genio di Göete. Qui da noi, adoratori del bello plastico, nulla può scuotere la nostra fibbra se non la melodia, figlia divina del genio meridionale. Tanto è vero che il pubblico, ogni qualvolta gli riesce afferrare una melodia, per quanto sia fugace, gli fa festa come il viandante smarrito in una imponente, ma oscura foresta, fa festa al cielo azzurro e al raggio di sole se gli riesce contemplarli da una desiderata radura. Né si dica che l'istrumentazione vi supplisce ad esuberanza. Certo la parola è impotente a dare un'idea adeguata dell'istrumentale wagneriano. Il mare soltanto con le sue onde che rincorrono, si mischiano, s'innalzano spumanti e s'inabissano per ricomparire tosto con forma variata, ora carezzevoli, ora tempestose, può darne una idea. Ma un pubblico - pel quale, checchè si dica, è soltanto fatta la musica melodrammatica - un pubblico - e tanto più se, come dice il prof. Sbarbaro, lo si deve considerare quale la media dell'imbecillità umana - presto s'annoia alla contemplazione del mare.
"La rassegnazione - ha detto un mordace critico tedesco - è la più utile delle virtù per l'uditorio di Wagner." Tutti quei ricami dell'orchestra, ricchieggono una violenta tensione della mente, in chi ne vuole seguire i capricciosi ghirigori. La melopea infinita, se pure arriverà a trionfare di tutti gli altri sistemi musicali, troverà in Italia ostacoli che auguro insormontabili. Eppure, anche in Italia, le opere di Wagner furono rappresentate e sono piaciute. Sarebbe opportuno vedere quanta infatuazione aristocratica, favorevole sempre alle ribellioni dello spirito; quanta complicità di geni musicali abortiti, che sperano un ambiente nuovo favorevole al loro cervello privo di fosforo; quanta stupida quiesenza nella moutonnière majorité, che si lascia imporre dalle frasi e tace ed approva anche perché non l'accusino di supina ignoranza; quanto d'interesse bottegaio; siano entrati come ingredienti negli entusiasmi per gli spartiti wagneriani. Ma anche senza di ciò, un successo è spiegabilissimo col grande amore che gl'italiani hanno per la musica in generale. Anche non approvando il genere di Wagner si può sentire con interesse e, relativamente, anche con piacere le sue opere che contengono peregrine bellezze. Io, per esempio, non posso che applaudire al contegno del pubblico parmigiano, che del Lohengrin rilevò le parti buone e le applaudì senza riserva. Anzi, ritengo che uguale accoglienza avrebbero il Cola da Rienzi ed il Tannühuser, e per parte mia, mi compiacerò se qui verranno rappresentate in modo tanto commendevole come lo è attualmente il Lohengrin. Un pubblico che voglia essere veramente intelligente deve sentire e saper apprezzare ogni gener di musica. Però, anche non approvando il sistema musicale di Wagner, non si può a meno di non convenire ch'egli ha fatto fare un gran passo alla musica.. I giovani maestri potranno ricavare dai suoi spartiti tesori di materiale per nuovi componimenti. Lungi dal maledire l'opera del maestro tedesco, la trovo benefica pel progresso in generale. Mi fanno spavento soltanto gl'imitatori, con tutti i pregiudizi e le gretterie della scuola, senza le risorse del genio. Ai giovani compositori vorrei stessero sempre presenti alla mente queste parole che Wagner scriveva ad Arrigo Boito. "Un anelito segreto ci avverte che noi non possediamo l'intero essere dell'arte; una voce intima ci dice che l'opera d'arte vuole finalmente diventare un fatto completo che appaghi anche il senso, che scuota tutte le febbre dell'uomo, che lo invada come un torrente di gioia. È manifesto che dal grembo delle madri germaniche nacquero sublimi geni al mondo, ma resta ancora a vedere se le facoltà intuitive del popolo tedesco sieno degne delle opere di questi nobili nati da queste elette madri. Forse è necessario un nuovo connubbio del genio dei popoli; ed in tal caso, a noi tedeschi, non potrebbe sorridere un più bella scelta d'amore che quella che accoppiasse il genio d'Italia al genio di Germania." Parole, invero, molto significative in un uomo dotato d'orgoglio smisurato e che aveva già raggiunta la celebrità!
Z.


"Il Goliardo" del 4 febbraio 1884

LOHENGRIN
E
RICCARDO WAGNER
E anche quì, il Goliardo entra in una materia a lui quasi totalmente ignota; in una materia divina, soltanto esteticamente sentita col fremito dei sensi, dal lato scientifico non conosciuta: sicché anche questa volta, come già per la pittura e la scultura, il Goliardo non farà che descrivere le impressioni ricevute co' suoi spasmodici, nervi da questo mito ignorato, rimembranza forse d'un età perduta, trascendente all'ideale nervoso, via, oltre per i poetici campi di un lirico misticismo all'infinito. La Musica per noi profani alla morfologia dell'arte non è che il delirio poetico del cervello, che la elegia lirica, il sospiro dell'anima; non è che l'ideale della ragione, che la voce divina del sentimento; non è che il linguaggio del cuore; amore. Di critica teatrale non m'intendo, perché non ho mai frequentato il teatro: sicché non potrò diffondermi a lungo in ordine al merito specifico dell'orchestra, della messa in scena, degli artisti e dei cori. Quantunque mi sembri che la esimia signora Berta Pierson dotata di voce abbastanza buona, abbia compreso a fondo l'ideale drammatico Wagneriano nella parte di Elsa; che l'egregio signor Davide Casartelli abbenché non poderoso di voce habbia sostenuto da soave cantante da gentile e provetto drammatico la difficile parte di Lohengrin; e che alla degnissima signora Teresa Maccaferri non si possono negare meritate lodi, da lei conquistate nel canto e nella drammatica, nella parte di Ortruda: quantunque mi sembri che nel Re Enrico, signor Clodoveo Bedogni, in Federico di Telramondo, signor Gaetano Carbone, nell'Araldo signor Pio Purarelli, si debbano salutare gagliardi ed esperti artisti: quantunque mi sembri che il maestro direttore signor Vittorio Vanzo, poderoso colla sua bachetta magica il signor maestro Eraclio Gerbella per aver istruiti in poco tempo alla difficile parte i cori, tutta l'orchestra per l'ammirabile precisione e per la potenza del colorito, e la stupenda messa in scena, meritino gli applausi scarsamente tributati dal pubblico troppo esigente.
Pure il Goliardo confermando di non intendersene ancora bene, di non conoscere ancora a fondo l'arte della critica su questo genere d'arte; viene senz'altro a trattare il suo argomento favorito: la critica, cioè, la filosofica dell'ideale tanto cara a Riccardo Wagner; di questo colosso germanico, che, senza presunzione, crede proprio di avere compreso: e in questo genere il Goliardo si sente sicuro di sé: silenzio, cretini! O diva Euterpe Egioca, o dolci e soavi Camene, o voi tutte ninfe serene del canto; ispiratemi voi, datemi forza e ardire; ch'io m'esalti, ch'io mi sublima alle celesti altezze, fino alla gloria sfolgorante del Latonio Apollo! Chi è Riccardo Wagner? È un poderoso Germanico, nato a Lipsia ciel 1813, morto a Venezia nel 1883, al quale sarà preparata dai futuri la corona di gloria: è un cervello trasformato a genio dal mal di cuore che l'uccise; è un'ardito e positivo riformatore: è un titano colosso compreso ed applaudito da chi vive più col pensiero che col sentimento, da chi, per forza di studio porta dentro di sé la vita Germanica in libera unione coll'Italia; non inteso né gustato da chi vive più col cuore che col cervello, da chi per abuso d'orgoglio crede erroneamente che il genio non sgorghi che dall'Italia: Wagner è il precursore dell'arte musicale nell'avvenire; è il Colombo, è il Galileo della Musica.
E cos'è, cosa vuol dire questo Lohengrin; questa mistica leggenda medioevale dei cavalieri della tavola rotonda al Saint-Graal? Era difeso dal prode Artù? È la forma plastica, l'estrinsecazione l'incarnazione dell'ideale Wagneriano, puntato sulla riforma dell'arte musicale in base alla Scienza, misuratrice profonda, positiva, serena, scettica del pensiero e del sentimento nelle loro modificazioni attraverso i misteri dell'organismo umano: il Lohengrin è Wagner, l'arte scientifica, la vita nuova, gustata in Germania perché è l'espressione della vita tedesca; non compresa in Italia, perché noi non siamo ancora redenti e riformati nella scienza positiva come può vantarsi la Germania, maestra dottissima, sicura severa; perché l'Italiano e per ambiente e per clima e per diversità di lotta e di selezione, ha una fisiologia morfologica diversa del Germano: in Italia, mari, fiori, luce, sole, primavere, fuoco, battaglie sempre amore, amore lirico, amore sentimento; in Germania, nebbie, ombre, foreste, nevi, freddezza, slancio ragionato, energia calcolatrice del numero, studio profondo, tenace amore elegiaco, amore pensiero. La grandezza di Wagner sta appunto nell'aver saputo applicare il numero filosofico alla Musica; nell'aver saputo seguire in melodia armonica, le trasformazioni del senti mento e del pensiero, che dal cuore al cervello continuamente mutano forma col palpito del cuore, col pulsare delle arterie, che fecondano e trasformano la sensazione, e la percezione, l'attenzione e la memoria, irrorando tra la diastole e la sistole del cuore tra l'iperemia e l'anemia, i centri sensori e percezionali del cervello; organo principalissimo delle sensazioni, delle percezioni, volontà, attenzione, ed associazione memonica alla comparazione delle idee. La grandezza di Riccardo Wagner sta nell'aver saputo comprendere che l'anima non è più d'un pezzo solo e indipendente dal corpo; ma che è modificabile, trasformabile, dipendente in modo assoluto dalla fisiologia anatomica del corpo la cui energia non è che un'atomo della forza materiale cosmica.
La musica Italiana per quanto appassionata e fervida, per quanto soave e delira, per quanto ineffabile e divina, non ha filosofia, perché non segue e non seconda le modificazioni razionali del sentimento e del pensiero, nello svolgimento drammatico; perché ad un canto elegiaco succede senza ragione un'allegro lirico; perché la musica Italiana non è scettica. Nella musica di Wagner, invece, non c'è nota, non c'è melodia che non abbia il suo perché fisiologico, il suo perché di applicazione in armonia con tutta la tessitura del lavoro; nella musica di Wagner non c'è una caballetta, non una romanza; perché variando il pensiero drammatico, non può continuare sullo stesso tono, sullo stesso ritono, sulle stesse cadenze, col medesimo concetto melodico, il pensiero musicale. La grandezza di Wagner sta nell'avere, forse senza accorgersene, applicato il Darvinismo alla Musica: come Darwin distrusse le speci stabili in Natura, come Spencer stabilì la relatività delle speci storiche così, Wagner distrusse le speci stabili della Musica: infatti, se da noi non si intende e non si apprende subito a memoria questo genere, dobbiamo attribuirlo al fatto, che nel nostro cervello fra le frequenti ed incalzanti impressioni sempre nuove, si combatte una lotta per l'esistenza scelettiva alla vittoria delle più addatte; sicché le percezioni più recenti e gagliarde, distruggono od offuscano le più deboli e rimote; il che non ci accade colla nostra musica; lasciando i pensieri musicali ripetuti e prolungati, facile e sicuro campo da ritenere in breve tempo, per legge di cuore, le percezioni a noi tanto simpatiche, perché sgorgate da organismi educati nel nostro ambiente; sicché la musica Italiana è quasi la nostra stessa parola. Anch'io mi sento sussultare il cuore, mi sento pervadere la fibra e fossa ai muscoli contratti dalla voluttuosa vibrazione dei nervi, da un gelido fremito di commozione soave, da un mistico delirio, da un entusiasmo magnanimo, che mi fa capace di grandi cose, che mi sforza all'affetto, al perdono, all'amore italiano; anch'io mi sento orgoglioso, poeta, quando sento il terzetto dei Lombardi, il quartetto del Rigoletto, la introduzione e i canti elegiaci della Norma, lo stupendo sorriso del Barbiere, il finale della Lucia, le sacre melodie tutte nostre del Trovatore, del Ballo in Maschera, del Ruy-Blas, della Jone; anch'io, anch'io allora mi contorco sotto la concitazione degl'impeti santi, anch'io allora sento l'orgoglio di essere Italiano: ma allora in me, come in tutti, parla e comanda il cuore, ed il cervello non pensa, perché delira: certo il sentimento non ha bisogno che di cuore, e la Musica italiana sgorga tutta dal sentimento come espressione della vecchia Fede che non ammette critico esame: ma noi oggi vogliamo vedere sapere, sentire, il perché di tutte le cose terrene.
Riccardo Wagner, dunque è indiscutibilmente grande; intelliggibile e stupendo ai democratici di cervello ed aristocratici di sentimento, amanti, cioè, e gelosi del bello; oscuro e vuoto al volgo dei profani che, bestialmente democratici e di cervello e di cuore vogliono conquistare il bello senza fatica. La scienza è democratica, perché cerca il vero all'utile di tutti; l'arte è aristocratica, perché cerca il vero bello, visto e sentito da pochi. Wagner fu democratico ed aristocratico perché applicò il vero al bello, riassunse, cioè in rapida e celeste sintesi la scienza e l'arte. L'arte è fede; dove non c'è fede non ci può essere arte, ma come Palestrina fa il precursore di Bellini, di Rossini e di Verdi; così Wagner è il precursore della musica dell'avvenire, che per lo futuro assumerà melodiche forme, nuove e divine, quando l'uomo, cuore e cervello, sentimento e ragione farà sgorgare dal suo cuore una nuova Fede, non più dogmatica e trascendente, ma positiva, terrena e scettica: allora solo la musica Wagneriana sarà perfezionata: ed allora l'uomo affacciandosi al delubro della Musica, dovrà salutare inneggiando alla memoria di Riccardo Wagner, come noi oggi, parlando di filosofia, salutiamo la colossale figura di Giordano Bruno, che fino a noi si rivela fra le ombre del cinquecento: Riccardo Wagner è il Giordano Bruno della Musica. Ho detto il vero? il merito non è mio; è tutto di quei grandi che m'hanno insegnato sulle vie della vita il paracleto della verità. Ho detto sciocchezze? in questo caso la colpa è tutta mia, perché non ho saputo applicare i postulati della Scienza all'argomento. Ad ogni modo, scusate, lettori, se v'ho annojato, e credete che stavolta non l'ho fatto apposta. Il secolo è positivo e Wagner è positivo col secolo. Come il positivismo è la prosa critica della scienza; così anche la scienza positiva di Wagner è la robusta prosa critica della Musica: verrà tempo in cui questo positivismo sarà incarnato da una nuova arte poetica; e allora anche la Musica di Wagner, da nuovi geni sarà poetizzata. Invano si tenta dai dogmatici Archimandriti, dagli Aristarchi conservatori, dagli Arcadici Mecenati, dai maccaronici Trisottini, della vecchia scuola, di demolire questo colosso: Riccardo Wagner è un gigante coi piedi d'acciaio solitario e poderoso, ritto sul picco glorioso della Sicenza. Riccardo Wagner non teme il presente: il suo giusto giudice sarà l'avvenire. Per ruinare la piramide di Wagner, bisognerebbe demolirne la base che si punta tetragona sul difficile monte del vero. Riccardo Wagner, scuola nuova, canta la ribellione, il progresso, la civiltà, il socialismo, la nuova Fede, il verismo, la vita, l'avvenire. La vecchia scuola da Palestrina a Cimarosa, da Paisiello a Bellini, da Rossini a Verdi da Beethoven a Mozart, canta il sentimento, l'affetto, l'amore, l'odio, il pianto, il sorriso, il cuore. La vecchia scuola compendia l'esperienza del passato trasfusa nel presente. Wagner riassume passato, presente ed avvenire. La Musica di Wagner è la musica riottosa del libero pensiero, pugnace al dogma dell'assolutismo.
Come nel suo dramma Riccardo Wagner ha voluto con tragica romantica, dimostrare che la Fede, una volta studiata e compresa si dilegua, sfracellata in una miriade di Miti caduchi; così colla sua musica applicata all'argomento relativo ha dimostrato la vanità del sentimento caduco e fuggitivo, come il fatato Cigno di Lohengrin; che ignoto argonauta si dilegua al mare, lui pure ignorato e benedetto dalla Fede; è che poi, una volta conosciuto, il nocchiero, si dilegua distrutto dal vero, come l'ideale della vita; ma invece del Cigno discende dal Cielo una colomba che rapisce la navicella e la travolge rimorchiandola al mare, via coi venti: quella colomba figura il genio ché spirò anche nello scettico vero il forte Wagner, e che crebbe sempre compagno colla natura umana: quella colomba compendia simbolicamente l'evoluzione attraverso il tempo e lo spazio della materia all'infinito.
Il Goliardo