Il manoscrittoParma e la crisi del melodrammaGiulio Ferrarini





 

Due quaderni a righe, lunghi e stretti, scritti con un inchiostro nero e una calligrafia regolare. Una vecchia etichetta della Libreria e Cartoleria L. Battei, incollata sulla copertina, funge da frontespizio: "Dietro il Sipario. Memorie e appunti del Segretario della Commissione Giulio Ferrarini...". Insieme con i due quaderni, all'interno di una fodera cartonata legata con lacci neri, altri fogli d'appunti manoscritti di Giulio Ferrarini, le "Rimembranze teatrali", un primo abbozzo di cronologia degli spettacoli lirici al Teatro Regio (segno direi inequivocabile di una "necessità storica" per Parma di rispecchiarsi nel proprio Teatro e nel proprio passato) e ritagli di stampa, anch'essi in forma di quaderno, quasi un suggerimento all'idea, poi fatta nostra, di offrire al lettore un'ampia rassegna stampa sugli avvenimenti teatrali e musicali che Ferrarini veniva annotando.
È difficile restituire il senso di stupore e curiosità che ci prese quando cominciammo a sfogliare e poi a leggere il manoscritto di "Dietro il Sipario". Non era cosa che potesse rimanere patrimonio di pochi; non poteva subire la stessa sorte di tanti documenti che attendono invano di essere portati alla luce. Ci pareva, tra l'altro, che quel manoscritto riprendesse la gloriosa tradizione parmense del settecento e ancor più del primo ottocento dei diari teatrali, scritti con "spirito salace", "illuminista"; ci tornava alla mente lo Stocchi (alias Lorenzo Molossi). Era doveroso dimostrare che quella tradizione non si era spenta. C'era, del resto, un invito indiretto, ma quanto mai efficace e opportuno, di Gustavo Marchesi 1, quel "tuttora inedito" riferito al diario degli spettacoli tenuto dal figlio dell'"esimio maestro" Giulio Cesare Ferrarini, Giulio, "diventato Segretario della Commissione Teatrale". Non erano mancate anche altre sollecitazioni, tra le quali ricorderò quella scritta di Gianfranco Uccelli 2 e quella verbale di Giampiero Rubiconi 3. In questi ultimi tempi, poi, alcuni brani del manoscritto erano stati citati in occasione delle pubblicazioni che accompagnano ogni anno le opere della stagione del Teatro Regio4. Questo utilizzo, quasi un assaggio stuzzicante,ci sembrava tuttavia in qualche modo insufficiente; bisognava restituire nella sua interezza il lavoro del Ferrarini, per coglierne tutta la varietà e la complessità dei significati e dei messaggi culturali. Da questa constatazione elementare nasce quindi il presente volume. "Dietro il Sipario" offre di sé una lettura immediata, piacevole, essenziale, mordace, travolgente talora. Bisognava di conseguenza non sovraccaricarlo di note, rinvii, chiosature; il testo è il manoscritto, ed abbiamo cercato, per quanto ciò era possibile con la stampa, di restituirne l'aspetto, l'andamento, il suo modularsi sulle pagine del quaderno. Abbiamo ridotto al minimo gli interventi: praticamente nulli quelli sintattici e grammaticali, si è cercato di rendere più agevole la lettura svolgendo le abbreviazioni, peraltro scarse. Qualche svista del Ferrarini, quando ci sembrava rendesse meglio il suo linguaggio salace, quasi popolaresco, l'abbiamo lasciata. I due quaderni non arrivano insieme alle cento pagine di testo a stampa e si leggono d'un fiato. Tutto risolto quindi con la pubblicazione delle pagine di "Dietro il Sipario"? La frequentazione assidua con il manoscritto ci fece sorgere alcuni interrogativi... Sì, il Ferrarini si poteva tranquillamente leggere come un'incalzante cronaca teatrale; il linguaggio e le situazioni si presentavano anche come incredibilmente attuali. Però, quanti spunti, magari abbozzati, quanti piani di lettura che si intravedevano... C'era, naturalmente, la storia del Teatro Regio in quell'ultimo ventennio del secolo XIX e "Dietro il Sipario" si veniva intrecciando con quei documenti che, mano a mano, il fondo del "carteggio" del nostro Archivio Storico ci restituiva e che assumevano significato e spessore storico nel contatto, nella sovrapposizione con quello. Ma, ancora, c'era la storia dell'Impresariato e del mondo vorticoso e imprevedibile dei cantanti; delle strutture musicali della nostra città, l'orchestra, il coro; c'era la storia del gusto musicale; in sostanza c'era la storia della cultura della città di Parma nella seconda metà dell'ottocento, e si potevano cogliere, attraverso quel caleidoscopio straordinario che è il teatro in musica, gli atteggiamenti, i bisogni, le aspettative di una cultura di provincia in un'epoca di caduta di grandi ideali, quelli risorgimentali, e di difficoltà nel rinvenire nuove strade da percorrere.

 

Percepivamo le grandi potenzialità contenute nel manoscritto. Ci sembrava necessario, tuttavia, non farci travolgere da spinte centrifughe, che ci portassero magari verso generici approdi; piuttosto si doveva procedere in modo rigoroso per una migliore comprensione del testo stesso del manoscritto. Da qui l'idea di un'accurata rassegna stampa del tempo, intitolata "altre voci", che servisse a dilatare e nello stesso tempo a precisare il messaggio di "Dietro il Sipario". E poi il dizionario biografico dei personaggi presenti nel Ferrarini, anche di quelli "minori", per dare una dimensione più ampia e circostanziata alla ricostruzione storica del periodo; e, da ultimo, la discografia, come elemento che completasse il quadro dei personaggi, in questo caso i cantanti, che furono presenti sulle scene del Regio in quegl'anni, a dimostrazione che il passato glorioso non era del tutto scomparso. Il volume si caratterizza quindi come un lavoro incentrato esclusivamente sul manoscritto di Giulio Ferrarini.

Esso rappresenta il contributo iniziale di una collana editoriale dell'Archivio Storico del Teatro Regio nella quale, nei prossimi anni, vorremmo dipanare e approfondire scientificamente quelle "meditazioni" storiche che facevamo nelle pagine precedenti. In altre parole, cercare di cogliere la cultura, sotto l'angolo visuale particolare del teatro d'opera, della città di Parma nel periodo che va dall'Unità d'Italia allo scoppio della prima guerra mondiale. Perché questa scelta?

Innanzitutto, la necessità di operare sul lungo periodo per cogliere e verificare i fenomeni storici nella loro evoluzione; e questo periodo ci pare sufficientemente omogeneo per poter trarre qualche risultato dalle analisi, anche quantitative, sui documenti a nostra disposizione. Inoltre si tratta di un periodo, tutto sommato, poco studiato5, soprattutto a confronto con il precedente periodo ducale; e manca in particolare, una visione d'insieme che colleghi gli aspetti strutturali, economici e sociali, della città con quelli culturali e teatrali. Il punto d'inizio appare inequivocabilmente chiaro. Il 1860, l'Unità d'Italia, rappresenta una vera e propria cesura nella storia di una piccola capitale come Parma. Certamente non sfuggiva a questo fatto anche uno degli elementi di cultura e civiltà che più la caratterizzava, e la caratterizza, il suo teatro. Tutta una tradizione storica, così ben delineata nel recentissimo volume di Claudio Gallico "Le Capitali della musica - Parma" subiva un durissimo contraccolpo. È ovvio che gli effetti si produssero su un periodo abbastanza lungo, tuttavia si può affermare che già negli anni settanta iniziava una crisi i cui veri confini si sarebbero meglio precisati verso la fine del secolo. Nel quarantennio precedente l'Unità d'Italia il teatro, e in particolare il teatro d'opera, aveva conosciuto a Parma un periodo di grande splendore, coincidente con le attenzioni ducali per la città. L'orchestra divenne forse l'emblema più prestigioso di questa "ricchezza". Le stagioni liriche scandivano il passare degli anni con la loro presenza costante (autunno, carnevale, primavera); ma a teatro ci si andava quasi tutte le sere, per il ballo, per la compagnia drammatica, per il saltimbanco, per il fenomeno, per la tombola. Una città si ritrovava a rivivere ogni sera l'illusione, il suo teatro.

Il non essere più capitale, con tutti i vantaggi che la presenza di una corte poteva portare all'economia, ma certo anche alla cultura di una città di piccole dimensioni, gettò Parma in una crisi che non riuscì e non volle mai completamente superare. D'altra parte lo stato italiano non fu, né forse poteva essere altrimenti con una realtà provinciale come la nostra, in quegl'anni di aspre polemiche politiche e di necessario rigore finanziario, molto tenero. La soppressione dell'Orchestra nel 1875 è una delle date cruciali per la cultura musicale della città e concludeva un'agonia che durava dal 1862; nel 1868 lo Stato passava al Comune il Teatro Regio.

Parma languiva entro le vecchie mura. Uno stato di malessere che investiva tutti gli aspetti della vita civile: economici, sociali e culturali, persino demografici. Il censimento del 1881 vide un calo di popolazione rispetto al 1861 e solo verso la fine del secolo iniziò un incremento degli abitanti 6, dovuto in realtà, principalmente alla crescente disoccupazione bracciantile nelle campagne (a seguito della crisi economica degli anni '80-'90), che causò un fenomeno di urbanizzazione forzata. Anche la relativa prosperità dell'età giolittiana investì nella nostra provincia più la campagna, dove cominciavano a fiorire le industrie di trasformazione e dove si affermava un'economia moderna di tipo capitalistico, che la città, la quale rimase sostanzialmente estranea a quel fenomeno e continuò ad essere un quartiere d'inverno per i "gentiluomini di campagna" che vi tenevano i loro palazzi 7.

La popolazione della città era formata in prevalenza da piccoli artigiani e da un sottoproletariato irrequieto e turbolento confinato nel ghetto dell'Oltretorrente e in alcune zone "marginali" del centro (B.go del Naviglio, B.go Trinità, ecc.). Dopo l'Unità d'Italia, appunto, quando Parma perse il privilegio di capitale, migliaia di cittadini, a loro volta, dovettero rinunciare a quell'unica fonte di sostentamento che erano le elargizioni ducali. Alcune amministrazioni, fonti di impiego e di ricchezza, furono soppresse; e soprattutto il grande opificio delle Fonderie Militari, la Guarnigione Militare, le Dogane e, naturalmente, la Corte. Si tolse la dote al Teatro Regio (e leggeremo nel Ferrarini e nella stampa del suo tempo le mai sopite polemiche sulla dote teatrale), decaddero e sparirono alcune istituzioni cittadine, l'Università diventò di seconda classe e ne emigrarono illustri professori, perdette studenti, perdette la facoltà di Lettere e Filosofia; la Manifattura Tabacchi, con sede nella Certosa di Parma, dopo un breve periodo di espansione , cominciò a decadere per finire soppressa nel 1891. Parma sembrava andare alla deriva, ridotta ormai a piccolo centro di provincia. Anche il Municipio aveva i suoi guai. Scarse le entrate, decisamente insufficienti a bilanciare le uscite. Se le prime infatti erano rimaste invariate o addirittura diminuite, le seconde, sia per le necessità del nuovo stato, che per l'indigenza del sottoproletariato e per l'urgenza di riforme urbanistiche in una città per buona parte ancora medioevale, erano cresciute a dismisura. Il Municipio, senza campagna intorno, ristretto alla cerchia delle mura, viveva sulle tasse degli immobili, sulla ricchezza mobile e sui dazi; ma senza industrie e con molti benestanti che tornavano ai campi, si seccavano le fonti di entrata, mentre la rendita era ai limiti e non sarebbe stato lecito sovraccaricare8. E invece si calcò la mano. Macinato, tasse sulle vetture e sui domestici. Da principio "si sopportò per amore di patria", poi si cominciò ad insinuare che al governo non si facesse buon uso del pubblico denaro, se non peggio, mentre le tasse perduravano e si accresceva il malcontento. Aumentò anche la tassa sul dazio di consumo, che portò l'aggravio fiscale ad un valore quattro volte superiore al livello pre-unitario. Lo stato della città risentiva di questa situazione di profondo disagio, trovandosi il Municipio nelle condizioni di poter ricorrere in misura limitata, alle opere pubbliche che da sempre erano state il correttivo più efficace alla disoccupazione; una forma mascherata, e neanche troppo, di elargizione. Strade disselciate, un macello pubblico che offendeva l'igiene9; non esistevano ancora i bagni pubblici, la scrofola infuriava e altre malattie, come la tubercolosi, ponevano la città ai livelli più bassi nelle statistiche del Regno; i Pii Istituti erano in malora10.

Il Municipio tentò di risolvere i problemi emettendo prestiti pubblici volontari che, a differenza dei mutui con enti privati e banche, generalmente esosi, ebbero buon esito; ma la situazione non poteva essere rovesciata in poco tempo11. Nonostante le ristrettezze, comunque, la Congregazione Municipale di Carità aveva allora un bilancio di L. 20.000 che erogava in piccoli sussidi. Il problema sostanziale era che mancava una vera e propria classe dirigente, essendo il potere economico nettamente spostato verso la campagna. Chiusa in un paradossale isolamento difensivo, l'economia locale aveva tratto certamente profitti scarsi dalla fase di generale espansione. In questa situazione di relativa arretratezza, la crisi economica di fine secolo, come abbiamo visto, creava condizioni di disoccupazione quasi permanente, riducendo ad una ricerca disperata di lavoro la popolazione della città e spingendo i braccianti delle campagne ad un inurbamento senza sbocchi. È in questo contesto che le scelte delle amministrazioni cosiddette popolari guidate da Mariotti negli anni novanta assumono le loro più reali dimensioni. Abbattere le mura per dare lavoro12 (anche se non era l'unica motivazione, certo non era tra le secondarie) e togliere la dote al Teatro Regio per opere di pubblica necessità ci appaiono forse azioni un po' meno "esecrabili".

La chiusura del Teatro nelle stagioni di Carnevale nel 1892-93 e 1893-94, quindi, mi sembra più che frutto della "follia socialista", come la definì l'Alcari 13, piuttosto una scelta dolorosa e difficile, in una città che amava il suo teatro e l'opera lirica. E l'intervento della Società dei Commercianti 14, una felice anticipazione di ciò che è oggi l'intervento del capitale privato nella promozione di manifestazioni culturali, permise l'avvio della stagione successiva, quella del 1894-95. Ho il sospetto che anche il referendum, imposto dalla componente socialista (ma non tutti erano d'accordo - vedi Isola) che doveva sancire o meno la concessione della dote teatrale da parte del Municipio, fosse in realtà più il cercare una copertura, un alibi, che non il credere veramente che i cittadini di Parma avrebbero scelto per la soppressione delle stagioni liriche. La vittoria, comunque, arrise ai "continuisti", interpreti della grande tradizione musicale della città; e certamente questo retaggio attraversava tutte le classi, accomunandole in una passione comune.

Se quella che abbiamo visto era la situazione di perdurante crisi economica e sociale di Parma dopo l'Unità, non molto diversa si presentava l'atmosfera culturale. La classe più rappresentativa, il ceto intellettualmente più dinamico, la borghesia urbana, aveva, nella sua grande maggioranza, partecipato ai grandi ideali risorgimentali che avevano portato all'adesione, pressoché incondizionata, al nuovo stato unitario. Giulio Ferrarini (ma lo vedremo meglio più avanti) ne fu un tipico rappresentante, garibaldino prima e poi attivo partecipe al dibattito culturale nella città. Forte era stata la delusione in questi ceti per il mancato decollo, in senso docratico e civile, della nazione. "A lei pare una bella cosa questa Italia? Io per me credo non sia bella". "Altra Italia sognavo nella mia vita". Le due frasi, la prima di Carducci, la seconda di Garibaldi15, mi pare sintetizzino assai bene la temperie culturale di una borghesia "in crisi", che pure aveva contribuito a fare l'Italia, ma che, quasi d'improvviso, si sentiva estranea ad essa. E così, a poco a poco, rinasceva l'ammirazione per il passato... Il presente pareva asfittico, povero. Le glorie ducali cominciavano ad apparire straordinarie, l'età dell'oro; prendeva corpo il mito del ducato, della piccola capitale tradita. E non era certo, si badi, l'aristocrazia fedele al passato che creava questo mito. L'abbattimento delle frontiere del piccolo stato aveva paradossalmente rinchiuso la città, avvezza a contatti con la cultura europea. Nella rassegna stampa che abbiamo proposto in questo volume vi sono parecchi segnali di questo stato d'animo. Il teatro non poteva, infatti, rimanere estraneo, escluso da questo malessere più generale. La caduta dell'appoggio diretto dei reggitori dello stato alla conduzione delle stagioni, e l'impegno di un tipo di impresariato che, col solo aiuto della insufficiente dote fornita dal Municipio, doveva mettere in piedi una stagione dignitosa e nello stesso tempo far quadrare i conti, aveva significato un decadimento della qualità degli spettacoli16. La stessa "cultura romantica e risorgimentale", che aveva sostenuto il melodramma negli anni preunitari, si stava lentamente liquefacendo 17. L'affermarsi di un repertorio per certi aspetti più limitato completa il quadro di una evoluzione "in negativo" che Ferrarini e gli altri recensori dei giornali del tempo andavano annotando, anche se non sempre ne coglievano, ma questo è naturale - la loro lente era chiaramente deformante - tutte le implicazioni.

La lunga digressione sulla situazione della città dopo l'Unità d'Italia era indispensabile per capire cosa intendevamo per "Parma" e per "crisi": "del melodramma" ci risulta un po' più difficile da spiegare. Ma a parte la battuta e la nostra confessata ignoranza sull'argomento, qualcosa bisognerà pur dire su che cosa intendevamo per crisi del melodramma nella nostra città.

Quando, nelle pagine precedenti, abbozzavamo qualche ragionamento su i vari piani di lettura del manoscritto di Ferrarini, sulle sue potenzialità, già fornivamo qualche anticipazione sulla "crisi del melodramma" a Parma. Crisi delle istituzioni musicali, in primo luogo dell'orchestra, ma anche del coro, e il conseguente tentativo di difendere il loro ruolo. Tutto ciò lo possiamo seguire attraverso i documenti dell'Archivio Storico del Teatro Regio. E così pure i difficili rapporti tra gli Impresari, il Teatro, i cantanti. Le difficoltà di allestimento di una stagione lirica. Ma possiamo anche analizzare la proposta "culturale" delle varie stagioni, e seguire passo passo l'affermarsi del repertorio, della scelta o non scelta dei titoli, scoprire quali erano le opere "buone" per tutte le stagioni, con le quali si sperava di raddrizzare quella che stava andando male. Perché non abbozzare anche una storia delle commissioni teatrali del Teatro Regio18?.

Vorremmo poi approfondire il rapporto di Verdi con Parma19 in quel periodo; scopriremmo così che, malgrado la sua popolarità mai venisse meno nella nostra città, si ebbe una contrazione, verso la fine del secolo e almeno fino alle celebrazioni del 1913, nelle rappresentazioni verdiane al Regio. La percentuale, che si mantiene dal suo apparire nel 1843 col Nabucco fino ai nostri giorni su valori superiori al 30% sul totale delle rappresentazioni, cala intorno al 25%. Più che la quantità, tuttavia, forse è interessante vedere quale Verdi viene offerto al pubblico, almeno fino al 1913. Altri fenomeni culturali, del resto assai noti, almeno ad un livello più generale, andrebbero affrontati in ambito locale. La presenza di Wagner, di Boito, dello stesso Puccini o dei veristi, appaiono argomenti, insieme con altri che via via potrebbero emergere, da sostanziare con accurate ricerche d'archivio20. Infine la storia di quell'altra istituzione, che corre parallela al Regio, e che pure è tanta parte dell'humus culturale della città, il Reinach. Potremmo, forse, abbozzare una periodizzazione ad "alti e bassi" che parte dal 1860 per arrivare al 1915 attraverso alcune date significative del difficile e complesso rapporto tra Parma e il suo Teatro Lirico: il 1868 in cui il Teatro Regio passa al Comune, il 1872 in cui Verdi viene a rappresentare l'Aida al Regio, il 1875 con la soppressione dell'Orchestra, il 1892 che vede la chiusura del Teatro Regio e infine il 1913 con le Celebrazioni Verdiane. La visitazione dell'Archivio e della pubblicistica del tempo, fonti, come tutte del resto, certamente non perfettamente neutre, ci offrono altri spunti ancora. Cosa significava, quanta parte aveva nella vita, negli affetti, negli ideali, nelle speranze, nell'immaginario di ciascun individuo vissuto un secolo fa, il teatro? Perché si stampavano giornaletti umoristici e non, in cui la vita teatrale era così larga parte? Perché si poteva arrivare a "rifare" Cavalleria Rusticana in dialetto parmigiano21?.

 

 

Chi poteva riassumere in sé, nella sua esperienza di vita, quell'epoca, chi ne era stato testimone schivo, ma fortunatamente non silenzioso è proprio Giulio Ferrarini. Di lui sapevamo pochissimo, se si esclude "Dietro il Sipario". L'Alcari, nel suo "Parma nella musica", parla solo di Giulio Cesare e di Mario22 e cioè rispettivamente del padre di Giulio, il notissimo direttore d'orchestra, e del figlio, l'avvocato musicofilo. Ed effettivamente pareva quasi che la vita di Giulio Ferrarini fosse trascorsa all'ombra di quella più imponente del padre, fino alla sua morte, e poi, in punta di piedi, egli fosse uscito di scena lasciando il posto alla personalità più estroversa del figlio Mario. Forse c'era qualcosa di vero in tutto ciò, ma non ci convinceva del tutto, non ci poteva bastare. Solo alcuni accenni, tuttavia significativi, li avevamo sotto mano: il figlio Mario nel suo volume "Parma teatrale ottocentesca" lo elenca tra i membri della Società Filodrammatica così detta "degli operai"23 ; Alcari stesso nel volume che celebrava il primo centenario del Teatro Regio lo cita tra coloro che "diedero, per anni, opera attiva nelle varie Commissioni o Presidenze teatrali e vantaggio degli spettacoli"24. C'era poi un delizioso accenno al "caro Giulietto": "quanto desidererei di vederlo su quello sgabello e [ancora] vedere Giulietto alla finestra con il tamburo ma speriamo che ciò sia presto in altra stagione". È una lettera di Marianna Barbieri Nini a Giulio Cesare Ferrarini25.

L'involontario quadretto familiare fornito dalla celebre cantante e che ci pare straordinario è del 1844. Giulio, anzi Giulietto, aveva tre anni. Infine, in quella miniera di notizie per la storia di Parma che è il volume "Le Osterie Parmigiane", Aldo Emanuelli parlando della trattoria "La Concordia" 26 di Borgo Bondiola (ora via Angelo Mazza) riporta il nome di Giulio Ferrarini tra i frequentatori del locale. In particolare ricorda il brindisi d'addio che i garibaldini, tra cui il nostro, fecero prima di partire per la campagna del 1866. "Giulio Ferrarini - scrive l'Emanuelli - padre dell'avvocato Mario, divenne Segretario del Municipio di Parma e fu pure apprezzatissimo dilettante di musica e pittura". E più avanti "Alloggiò pure alla Concordia il tenore Gayarre, quando debuttò a Parma nel Ruy Blas, riportando quel calorosissimo successo..." Chissà, se pur non nominato, ci pare di vedere il Segretario della Commissione Teatrale Ferrarini a cena col cantante spagnolo, magari dopo una prova27. Questo è tutto ciò che avevamo tra le mani prima di iniziare le ricerche sulla vita di Giulio.

Egli nasce a Bologna il 19 gennaio 1841 da Giulio Cesare e da Fanti Rosa. I primi anni sono caratterizzati dai frequenti spostamenti che la carriera artistica del padre, primo violino e direttore d'orchestra, imponeva alla famiglia. Abbiamo alcune testimonianze attraverso il carteggio contenuto nel Legato Ferrarini dell'Archivio Storico del Teatro Regio. Nel maggio del '44 la nonna Anna scrive al già famoso primo violino chiedendogli denaro per improvvise necessità e conclude "Saluta Rosina, dà un bacio a Giulio per me" 28. L'anno successivo la famiglia si è già trasferita a Fermo, dove rimarrà alcuni anni. I successi scolastici del piccolo Giulio sono testimoniati da una serie di "Biglietti d'onore" che gli vengono rilasciati dalla scuola, perché si è distinto nella "lettura e religione", e nello "scrivere e disciplina"29. La madre Rosina, in una lettera al marito lontano del 13 febbraio 1849 (in quale temperie politica!) scrive tra l'altro: "...Nel passare da Loreto farai ricerca di quelli Ballocchi per le Creature che non ho potuto ritirare mai. Qui abbiamo la Repubblica da Salvato a questa parte; questa sarà l'ultima lettera che io ti scrivo perché per me non vi è più tempo. Tu però mi scriverai... e poi scrivimi precisamente il giorno del tuo arrivo perché Giulio smania di venirti incontro a Bologna..."30. La lettera riporta un post scriptum del piccolo Giulio: "Caro padre, io studio più che posso, il maestro è andato in Osimo perché il figlio di Pelagallo sta poco bene. Io desidero lo schioppo. Mamma sta benone, noi pure stiamo bene, come spero di voi. Vostro affezionato figlio. Giulio Ferrarini".

Se la passione per la musica e per il teatro sono le componenti fondamentali per l'educazione di Giulio, non mancano aspetti più schiettamente ideologici e politici. Da alcune lettere di amici al padre scopriamo, seppure indirettamente, quale doveva essere il "pensiero" di casa Ferrarini 31. Anticlericali, accesi democratici, mazziniani probabilmente, garibaldini certamente. Tra il 1856 e il 1857 la famiglia si trasferisce definitivamente a Parma; Giulio ha poco più di quindici anni. Qui concluderà gli studi, ma non frequenterà l'Università. I Ferrarini abitano in Borgo Nuovo. Molti anni dopo saranno tra i firmatari di una petizione che chiede di intitolare la via a Girolamo Cantelli, da poco scomparso 32. I Ferrarini abitavano proprio nella casa del Conte Cantelli, al numero 11, 2° piano. Abbiamo un foglio di famiglia, nell'Archivio Storico Comunale - Registro di popolazione, che fotografa la situazione nei primi anni ottanta.

La famiglia è ancora in gran parte unita. L'anziano Giulio Cesare (n. 1807) e la moglie Rosa (n. 1811 ), la di lui sorella Adelaide di tre anni più giovane (n. 1810) vivono insieme con Giulio e sua moglie, Carolina Scopoli (n. 1847 a Milano). Non faceva più parte invece della famiglia la sorella di Giulio, Teodolinda detta Linda (n. 1846 a Fermo) sposatasi qualche anno prima con Ferrari Giulio Cesare; i due figli di Giulio, Mario (n. 1874) e Teresa (n. 1876); e delle due domestiche presenti nella precedente rilevazione, Irma Tinelli e la trovatella Teresa Salvatori solo la prima è rimasta. L'unica entrata, oltre alla pensione del vecchio direttore d'orchestra, risulta essere quella di Giulio, L. 2200 annue, mentre la pigione dell'alloggio è di L. 380 annue.

Ma torniamo un attimo agli anni dell'arrivo a Parma dei Ferrarini. Esentato nel 1860 dal servizio militare, Giulio inizia a vent'anni la propria attività lavorativa, con modestia, come si addice al personaggio. Il 22 giugno 1861 viene assunto dal Comune di Parma quale commesso apprendista. Sappiamo che è un fervente garibaldino. Nel 1863 egli risulta caporale della Guardia Nazionale Parmense in forza alla 1a Compagnia del 4° battaglione; in quell'anno sottoscrive in favore dei danneggiati dal brigantaggio33. Nel '66, come abbiamo visto, parte volontario nelle truppe garibaldine che combatteranno a Bezzecca. Nel 1869 ha già percorso un po' di carriera34 all'interno del Comune e lo troviamo, a partire dall'8 ottobre, segretario della Commissione Teatrale. È da questa data che inizia il suo rapporto più stretto con la vita culturale della città, da quell'osservatorio particolarissimo che è la Commissione Teatrale. Per quasi trent'anni egli sarà testimone diretto di tutte le vicende legate alle stagioni liriche, funzionario integerrimo dell'Amministrazione Comunale, ma anche arguto e mordace osservatore del mondo teatrale.

Il 29 luglio 1876 è nominato vice segretario comunale. Nel frattempo assieme ad altri giovani, come lui, dallo spirito salace e beffardo, entra nella redazione de "Il Diavoletto", un giornale che si stampò a Parma e a Modena dal 1871 al 1875. Qui Ferrarini fa le sue prove generali per "Dietro il Sipario". Scrive articoli di critica teatrale. Il giornaletto è stato ingiustamente poco studiato. La sua lettura risulta straordinariamente interessante per cogliere quel "clima culturale" della città di cui si parlava nelle pagine precedenti. Direi che, al fondo, ciò che si coglie è che la vita culturale è tutta imperniata sul teatro, è la vita teatrale della città. Ci sono divertentissime polemiche con la vicina Reggio e i suoi teatri35; il Reinach è "l'infelicissimo Politeama"; non manca il dibattito politico, "Ernani e il programma elettorale", ferocemente astensionista; ci sono polemiche aspre, se pure da "sinistra", con il "Presente" che vorrebbe togliere la dote teatrale36. Ferrarini è in prima linea. Sue sono appunto in genere le cronache teatrali37. Ma forse il suo ruolo di segretario della Commissione Teatrale gli dà qualche problema. Scrive il 22 dicembre 1871: "Caro Diavoletto! Con rincrescimento rinunzio d'essere collaboratore per ciò che si riferisce ad articoli teatrali. Circostanze indipendenti dalla mia volontà mi costringono a questa determinazione. Del resto la perdita che fai è così meschina da essere facilmente riparata"38. Ma il giornale, che era stato in prima fila per chiedere, già alla fine del 1871, che l'Aida dopo il Cairo e Milano venisse a Parma (e c'era stata, anche a questo proposito, una polemica con la vicina Reggio), lo chiama a stendere la cronaca e la critica della 1a dell'opera verdiana al Regio. Credo sia necessario riportare per intero l'articolo, che è l'articolo di fondo, di Giulio Ferrarini, poichè si possono cogliere vari aspetti interessanti (annoterei in particolare il suo "conservatorismo musicale"): :39:

"Forse nessun'Opera mai suscitò tanto cicaleccio di critici, tanta curiosità di publici, tanta differenza di commenti, tanta passione ne' giudizi, come cotesta Aida del Verdi. La collocarono fra le più grandi manifestazioni dell'arte, e la dissero l'aborto d'un Genio!... La giudicarono una fra le più melodiche Opere scritte dal Verdi, e la condannarono come una fallita o tisica imitazione della, per me e per tanti altri, incomprensibile musica dell'avvenire. Fu insomma ed è tuttavia campo a vivissime discussioni, le quali non sembra stiano per cessare, malgrado il luminoso successo ottenuto a Milano e quello non meno splendido che s'ebbe qui.

Fra tanto battagliare di critici coscienziosi o interessati, fra tanto pettegolezzo di profani e di neo-intelligenti, io pure, povero sconosciuto, vo' aggiungere qualche mio apprezzamento, poichè a questo mondo suol dirsi ce n'è per tutti i gusti, e può benissimo accadere che certe mie idee non siano poi per sembrare a taluni nè troppo balzane, nè assurde addirittura.

Verdi in questa sua dilettissima Aida, come già fece scrivendo il Don Carlos, La forza del destino, Un Ballo in maschera volle che la musica si addattasse il meglio possibile alle condizioni del Dramma come oggi lo si intende, e studiandosi vieppiù di quanto ebbe a fare nella sua Luisa Miller e nel suo Rigoletto, trasse dall'Orchestra quegli effetti mirabili d'istrumentazione che solo può immaginare chi, come lui, alla profonda conoscenza dell'Arte unisce fervido ingegno e potenza creatrice.

Nè così facendo egli si rese imitatore delle scuole straniere e molto meno di quella del Wagner, siccome alcuno volle asserire; si sciolse soltanto dalle pastoje del convenzionalismo per raggiungere un accordo più vero, più logico, più stretto fra l'indole del dramma e la musica che lo riveste.

E per questo si disse da molti che Verdi aveva disconosciuto sè stesso, aveva sacrificato l'Arte alla scienza, il cuore alla mente, l'ispirazione al calcolo; e che nella sua Aida c'era dell'incomprensibile, dell'oscuro, dell'artificioso, e la quasi assoluta mancanza di melodia.

Eccola la gran parola - Melodia - Certo che la melodia non si trasforma, essa è la sostanza immateriale della musica, e conserverà sempre il suo profumo divino, la sua vergine ispirazione, la sua inviolabile purezza, in onta a tutte le variazioni a cui l'Arte potesse essere soggetta, ed a tutti i deliri di certuni i quali pretendono chel a musica dipinga ciò che sarebbe lo stesso che far cantare la pittura!...

Però, tornando all'Aida, è un grave errore il dire che in quest'opera siavi difetto di melodia, poichè essa direi quasi vi abbonda; soltanto non è sempre così spontanea e così fresca come nel Nabucco nell’Ernani nei Foscari, così toccante e fluida come nella Traviata, nel Ballo in maschera; così appassionata, così sublime ed insieme così chiara come nel Rigoletto e nel Trovatore, due capolavori, che malgrado il loro atto di nascita, apparteranno sempre al presente. Anzi talvolta, come in ispecial modo nelle due Arie d’Aida appare difficile, strana, spezzata, soprafatta da ricami istrumentali che sembrano messi lì apposta per vestirla di maggiore effetto, per legare un concetto ad un altro, per darle insomma quella vita di cui qua e là realmente abbisogna. E sì che alla seconda di esse questi versi bellissimi del Ghislanzoni

"O cieli azzurri… o dolci aure native…

avrebbero dovuto scuotere ed ispirare la fervida Musa del Verdi ad uno di quei canti affettuosissimi che commuovono, che fanno piangere, o che toccano il cuore vero ed unico tempio dell'Arte.

Ma a rendere meno sensibili cotesti punti neri che assolutamente non si possono disconoscere, hanvi a mio parere cinque pezzi musicali di stupenda fattura in cui si rivela lo slancio e tutta la potenza del genio e sono - l'intera scena del Tempio nell'atto 1°- il Duetto fra Amneris ed Aida nell'atto 2° - l'altro fra questa ed Amonasro nel 3°- tutta la scena del giudizio nell'atto 4°, e l'ultimo duetto finale. Taluni mi diranno: ma il gran finale dell’atto 2°? Certo è un pezzo di musica scritto con molta coscienza, ma artisticamente lo credo inferiore e quello del Don Carlos, e d'effetto più per sonorità d'istrumentale e per materiale splendidezza di situazione che per estrinseca bellezza musicale.

E qui se dopo tutto mi si, chiedesse: preferite voi altre opere dell'Illustre maestro a cotesta fortunatissima Aida, io risponderei - sì - senza esitanza; e accennerei più specialmente al Rigoletto. Mi perdonino il confronto gli adoratori appassionati della bella Schiava etiope, ma a me sembra che se dal Verdi ci venisse oggi un'opera come quella, circondata da tutte le cure di cui si circondò Aida, (le quali toccarono quasi l'esagerazione) con un complesso d'artisti adattati al genere della musica ed ai personaggi del Dramma, come per l'Aida furono richieste, mi sembra, ripeto, che Verdi, arricchirebbe la sua splendida corona d'Artista d'una gemma anche più fulgida di quella che seppe testè conquistare.

Ed ora saltando di piè pari il libretto del Ghislanzoni, il quale ha solamente il pregio di essere poeticamente bello, riferirò brevemente dell'esecuzione - Fu inappuntabile e perchè le prove procedettero sotto l'immediata direzione dell'Autore, e perchè le Signore Stolz e Waldman, il Capponi, il Pantaleoni e il Vecchi sono artisti che sanno inalzarsi alla sommità dell'arte e raggiungere la celebrità. Io non li analizzerò partitamente, nè dirò delle chiamate che s'ebbero e s'hanno al proscenio, nè di quelle moltissime che toccarono al Verdi - altri l'hanno già fatto prima di me e sarebbe un portar acqua al mare; mi limiterò soltanto ad accennare che ciascuno di essi concorse e per intelligenza artistica e per potenza di voce a formare un insieme veramente mirabile, e che non esclusi il Basso De-Giulio ed il Tenore Angiolini completano una così perfetta esecuzione che assai difficilmente sarà ripetuta.

Quanto alla parte istrumentale, il più bell'elogio che si possa fare alla nostra Orchestra diretta dal Cav. Giovanni Rossi, la quale anche questa volta seppe mantenersi all'altezza di quella fama che ha sempre meritamente goduta, è che il Maestro Verdi, di cui tutti conoscono le giuste esigenze, si dichiarò di essa molto soddisfatto.

Anche le masse corali istruite dal M. Griffini fecero lodevolmente il compito loro. - Bellissime alcune scene del Prof. Magnani, specialmente l'ultima che è d'un effetto sorprendente; ed assai ingegnosamente costrutto, per chi può esaminarlo davvicino, il doppio palcoscenico fatto dal Mastellari, il quale divide il sotterraneo dal Tempio di Vulcano.

Ricchissimo il vestiario fornito dall'Ascoli e splendidi pure gli attrezzi, espressamente allestiti dai nostri bravi artisti Bocchi e Delprato.

Tutto sommato quindi è uno spettacolo di rimarchevole bellezza, che segna una pagina gloriosa nella storia dell'arte; e ciò torna sopratutto ad onore della Commissione Amministrativa e dell'Impresa Lasina a cui auguro di cuore gl'incassi favolosi che a Milano scoprirono un Eldorado al fortunatissimo Brunello".

Quanto avrà pesato la costante, e forse ingombrante, presenza del padre nel gusto musicale di Giulio? È diflicile rispondere. Possiamo affermare che, nonostante si percepisca l'ombra del famoso maestro dietro l'esperienza di Ferrarini, egli rimane, e vuole rimanere, per tutta la vita sostanzialmente un dilettante, anche se un dilettante con le idee chiare, in tutti i campi in cui opera (eccetto, naturalmente, il lavoro in cui è sicuramente un professionista). In quegl'anni settanta stava maturando esperienze comunque decisive per la sua esistenza. Dopo il matrimonio del '74 nasce Mario e nel ' 76 Linda, i due figli. Abbiamo testimonianza, in alcune letterine dei bambini, tra cui alcune natalizie, del clima affettuoso in cui viveva la famiglia Ferrarini. Ne riporto una di Mario, datata 3 gennaio 1880, per l'onomastico del padre: "Caro babbo, questo giorno è per me uno dei più avventurati perchè mi ricorda più particolarmente il tuo nome. Il nome di colui che tanto mi ama e che s'interessa così per la mia felicità. E come io potrei degnamente contraccambiarlo? Con eguale amore con infinite premure e specialmente col udire e mettere in atto i suoi consigli ed essere tuttora buono e studioso. Sì, io lo farò, e sia questo il miglior augurio e spero che sarà il complimento più accetto che ti possa fare pel tuo onomastico il tuo aff. mo figlio Mario"40. Pur non riportando alcunchè di eccezionale (quanti milioni di bambini hanno scritto letterine di questo tono ai propri genitori?), queste testimonianze mi pare, proprio per il loro essere "comuni", ci rendono con molta evidenza la cultura, l'atmosfera del tempo.

Come abbiamo visto, Giulio non trascurava altre attività, come quella dell'attore nella società filodrammatica "degli operai", che presentò alcuni lavori anche al Teatro Regio; e quella del pittore. Abbiamo trovato, tra le sue carte, oltre ad un quadretto di pregevole fattura che dimostra una tecnica pittorica piuttosto raffinata, alcuni bozzetti che arrischiamo a chiamare "di scenografie", anche se uno solo lo è per certo. Si tratta di un disegno a inchiostro, al tratto, che raffigura l'inizio della parte quarta del Trovatore, nelle parole di Ruiz: " Ecco la torre, ove di Stato gemono i prigionieri...". È comunque interessante anche questo aspetto della personalità di Ferrarini; e, certamente curioso, è il fatto che egli usasse minute di carte d'ufficio (il retro dei fogli lo dimostra inequivocabilmente), quasi cercasse qualche distrazione durante noiose sedute della Giunta o del Consiglio Municipale...

Pur nello zelo che egli profondeva nel normale lavoro di vice segretario comunale, gli anni ottanta lo vedono sempre più impegnato nell'attività di segretario della Commissione Teatrale. In realtà, Ferrarini era una figura che si avvicinava molto a quella di direttore del teatro. La presenza dell'impresario per un verso e, per l'altro, quella del Presidente della Commissione, che aveva la responsabilità politica dell'andamento delle stagioni e del bilancio nei confronti del Consiglio Comunale, ne attenuavano solo leggermente l'importanza. Egli rappresentava l'elemento di continuità nella gestione teatrale di quell'ultimo trentennio del secolo. Di fatto era il coordinatore, il punto di riferimento di tutta l'attività del teatro.

La sua importanza, sulla scorta dei documenti d'archivio, la si vede crescere a poco a poco, ma è comunque fuori discussione. È lui che stende i rapporti serali, è lui che intrattiene i contatti con le imprese, con i cantanti direttamente, con le agenzie teatrali, con il personale del teatro, con gli orchestrali e i coristi.

La sua esperienza ne fa presto un profondo conoscitore dei complicati meccanismi che sottendono all'allestimento di una stagione lirica41.

Innumerevoli sono le testimonianze di questo fatto, anche se la sua correttezza e il rispetto per le sue e le altrui funzioni gli impediscono di superare i limiti delle proprie competenze ed attribuzioni. Leggiamo la minuta di una relazione della Presidenza della Commissione Teatrale (ing. Gambara), ma in realtà scritta da Giulio Ferrarini di suo pugno:

"Questa direzione crede suo dovere riferire brevemente intorno all'andamento degli spettacoli datisi nel passato carnevale 1886-87, i quali in quanto riguarda l'azienda economica non diedero luogo a verun incidente notevole avendo l'impresa Gimeno soddisfatto e tutti gli obblighi assunti col capitolo d'appalto verso l'Amministrazione Comunale.

Certo l'andamento artistico non corrispose in tutto alle previsioni concepite dopo - il fortunato successo del Mefistofele con cui diedesi principio agli spettacoli; ma ciò devesi principalmente attribuire a quella serie inevitabile di esigenze, di difficoltà, di contrattempi, di casi sempre imprevisti, e sempre nuovi, che rende ormai impossibile condurre a termine una stagione regolarmente e con soddisfazione del pubblico fino al suo termine. Comunque malgrado la grave malattia sopravvenuta alla sig. Singer che costrinse l'impresa a scritturare la Bulicioff onde aprire il R. Teatro la sera fissata dal Capitolo d'Appalto; malgrado gli insuccessi della Dinorah causati (come la Direzione aveva indicato all'Impresa e che questa mal consigliata e peggio informata credette aver trovato nella signora Adams); malgrado l'esito alquanto dubbio dell'opera Fausta imposta dal Ricordi, l'Impresa fece invero ogni sforzo per soddisfare agli assunti impegni ponendo in scena un quarto spartito (Rigoletto) e dando inoltre tre rappresentazioni in più del numero fissato pel Cartellone... Quanto al risultato economico dell'Azienda teatrale la Direzione crede siasi risolto per l'Impresa in una perdita alquanto sensibile giacchè delle quattro opere summenzionate soltanto Mefistofele e Rigoletto piacquero veramente; onde durante l'azienda stessa essa Impresa si trovò più volte in così gravi imbarazzi finanziari da far dubitare della continuazione degli spettacoli; il che avrebbe posto codesto Municipio nei più gravi imbarazzi. Ma anche questa volta la Direzione è riuscita come ha sempre fatto durante i sette anni della sua gestione a tutelare gli interessi del Comune per modo che mai esso Comune ebbe durante questo lasso di tempo ad impegnare negli spettacoli teatrali somme maggiori di quelle preventivamente autorizzate dalle proprie deliberazioni. E ciò, nell'abbandonare questa amministrazione le è sufficiente compenso ai molti e spesso dolorosi fastidi ad essa recati dal non facile ufficio"42.

Come si diceva nelle pagine precedenti, Ferrarini stendeva di suo pugno gran parte degli affari amministrativi del teatro, compresi i rapporti serali, chiamati "Esiti". Questi fascicoli degli "Esiti" sono assolutamente fondamentali per chi voglia fare uno studio approfondito delle stagioni liriche, ponendoli, naturalmente, a confronto con "Dietro il Sipario". In gran parte le due versioni coincidono, pur non sovrapponendosi, data anche la maggiore "ufficialità" degli " Esiti". Questi, inoltre, coprono spesso un periodo più ampio di quello riscontrabile in "Dietro il Sipario" e perciò spesso risultano ad esso complementari. Negli "Esiti" il Ferrarini non risparmiava strali contro il pubblico parmigiano, accusato a volte di prevenzione immotivata nei confronti di certe opere, o di certi cantanti. La smania protagonistica del pubblico veniva stigmatizzata con durezza.

Ad una " Beneficiata dei Poveri" del 15 febbraio 1885 in cui il baritono Pantaleoni e il basso Wulman avevano interpretato il duetto dei Puritani "Il rival salvar lo dei", Ferrarini commentava: "Il pubblico, sentendo urlare ha applaudito ed ha chiamato al sipario gli artisti; in quanto al Maestro però, buon per lui che è morto, altrimenti avrebbe provato un gran dolore!" 43. E ancora alla prima de " I Pescatori di perle", nel Carnevale 1890-91, rincarando la dose rispetto a "Dietro il Sipario" scrive parlando di disapprovazione del pubblico al secondo atto: " qualche fischio causa specialmente il vino e gli anolini"44.

Tuttavia spesso riconosceva anche la giustezza di certe manifestazioni di dissenso particolarmente quando gli sembrava che l'improvvisazione, la scarsa accuratezza e l'insufficienza nella preparazione di un'opera prevalessero. Ebbe spesso parole di fuoco, soprattutto nei confronti, è ovvio, delle imprese. Ma giustificava anche il pubblico quando gli riconosceva che l'orecchio abituato a sentire cose pregevoli difficilmente riesce ad accettare anche cose mediocri (non è del resto questa polemica attualissima?). Scriveva alla prima del Mefistofele del 29 gennaio 1891: "L'opera è quindi caduta per causa del basso De Bengardi e del tenore Coppola, due cristi uno peggiore dell'altro; e la caduta poi è stata tanto più alta in quanto che le belle rimembranze di Puerari, della Singer e della Boulicioff sono tuttavia piacevolmente vive nel pubblico""45.

In quei primi anni novanta, nel pieno della sua attività alla Direzione del Teatro Regio, Giulio perdeva il padre, il grande maestro di violino e direttore d'orchestra Giulio Cesare Ferrarini. Non una parola, non un accenno trapela nelle pagine del diario. Ma l'accuratezza con cui, nell'archivio personale, egli raccoglie le attestazioni di cordoglio, di stima nei confronti del padre testimonia il suo affetto. Scopriamo così il legame profondo che univa Giulio Cesare e importanti personaggi del panorama musicale italiano. Il conte Stefano Sanvitale, mecenate e musicologo, nel porgere le sue condoglianze a Giulio e nell'annunciargli che gli avrebbe in seguito inviato una sua memoria contenente " notizie biografiche riguardanti il maestro cavaliere Giulio Cesare Ferrarini", scriveva: "Un fatto importante della sua carriera artistica non venne citato da alcuno ed è quello dell'offerta a lui fatta della Direzione del Teatro Italiano di Parigi...". Lungo era stato il sodalizio tra il Sanvitale e la famiglia Ferrarini. Due bigliettini da visita di pugno del conte Stefano mi paiono particolarmente interessanti per cogliere il clima culturale che vivevano certi ambienti della società parmense. "Di casa 23 gennaio 1888. Egregio Maestro, questa sera alle ore 8 manderò la mia carrozza alla sua porta colla speranza ch'Ella voglia profittarne onde recarsi a sentire un altro di quei bei quintetti di Mozart che llietano, esilarano, allargano il cuore colle chiare e dolcissime loro armonie". "Giovedì 8 maggio 1890. Egregio Maestro, domani sera alle ore 8 1/2 si eseguirà in casa mia un nuovo quartetto (inedito) dell'Illustre Maestro Bazzini. Più che mai conto, in questa occasione, sulla gradita sua presenza, onde venga apprezzato come merita questo stupendo lavoro"46.

Nel 1893, come abbiamo visto, Giulio Ferrarini viene nominato Segretario del Comune di Parma. Sono gli anni della chiusura del Teatro. Nel frattempo egli presta servizio straordinario come Direttore delle Scuole Elementari. Alla ripresa dell'attività teatrale, riprende il suo posto come segretario della Commissione, e riprende in mano "Dietro il Sipario". Ma ormai il cumulo dei vari incarichi cominciava a pesare. Scrivendo, nel dicembre '96 al presidente della Commissione avv. Testi, denunciava l'impossibilità di continuare ad interessarsi dell'azienda finanziaria degli spettacoli47. Per quell'incombenza " occorrono attenzione e tranquillità... chè se in esso [ufficio] io ho altra volta potuto fare quanto si desidererebbe facessi ora, ciò accadde in circostanze molto diverse, vale a dire quando i miei servigi erano prestati a una commissione, la quale altro non era che una emanazione dell'Amministrazione Comunale, talchè io in consimili frangenti, altro non diventavo che un impiegato di quest'ultima, dalla bontà e dalla fiducia dei miei superiori designato a curarne gli interessi. Così mi era permesso di trattenermi in Teatro tutto il tempo necessario tanto di giorno che di notte, per dar corso all'importantissimo lavoro...". Ora ciò non gli è più possibile. Continuerà a prestare la sua opera "col maggiore disinteresse", come segretario della commissione, ma l'aspetto finanziario dovrà essere affidato ad altra persona.

Di lì a poco, nel marzo '98, il figlio Mario, che come il padre, era cresciuto nell'amore per la musica, gli sarebbe succeduto anche come segretario della Commissione Teatrale.

Il primo gennaio 1908 Giulio Ferrarini veniva collocato a riposo, dopo 47 anni di servizio, con una pensione regolamentare di L. 3.887,72 oltre alla pensione di favore di L. 612,28, totale L. 4.500 annue. Gli ultimi anni trascorrevano in tranquillità. Dopo una brevissima malattia si spegneva alle 4 del mattino dell'8 febbraio 1916.

I funerali, che partirono dall'abitazione di via Vittorio Emanuele 99, videro un grande e affettuoso concorso di folla.

Scriveva tra l'altro la Gazzetta48 "La grande manifestazione di cordoglio era resa ieri sera non solo all'ottimo cittadino scomparso, ma all'impiegato "del vecchio stampo" che aveva posto tutta la sua onestà, tutta la scrupolosità più rigida, nel compiere il suo dovere, nel servire prima la Patria come volontario garibaldino poi, per ben 47 anni, il nostro Comune. Poichè egli fu esemplare per bontà, intelletto, generosità in ogni incarico che gli fu affidato".

 

Valerio Cervetti            

Parma, dicembre 1985