Il Teatro e il suo Archivio

 

"Non bisogna esagerare nella smania di voler ogni cosa perfetta,
perché si corre il pericolo di compiere ben poco, o di non compiere nulla"
G. Verdi

 

Quasi un prologo

Le parole in epigrafe, quanto mai verdiane nella loro prosaica e rapida praticità, sembrerebbero assolutamente fuori luogo o per lo meno contraddittorie come introduzione ad un paziente, quanto lungo, faticoso, meticoloso e anche un po' perfezionistico lavoro di riordino e di inventariazione di un archivio.

In realtà il richiamo, al di là del suo solido buon senso, risulta quanto mai opportuno quando si voglia affrontare, con coscienza e umiltà, il mestiere dell'archivista. Fare 1'archivista, infatti, vuol dire dare ordine a masse di documenti che ordine spesso non hanno, o 1'hanno distorto, manomesso, depauperato da qualcuno che, in buona o mala fede, ci ha preceduto. Mettere in fila i documenti; ritrovare al loro interno i nessi storici, i rimandi, le concatenazioni logiche. Rifarne la storia, dunque. Questo è il mestiere dell'archivista. In cui il puntiglioso procedere non può che essere circospetto, attento, mai domo. Non si deve perdere mai, infatti, la speranza di trovare una strada; un percorso che ci illumini, quasi d'improvviso, tutta la serie di documenti appena vagliata e che sembrava così oscura.

Ma allora siamo agli antipodi dello sbrigativo invito di Verdi a non attardarci in perfezionismi fuori del tempo? Affatto. Innanzi tutto, non è da prendere così alla lettera il nostro Verdi, che non era certo affetto da faciloneria e che sapeva benissimo quel che faceva, sempre, sia scrivesse musica, sia conducesse un'azienda agraria. È piuttosto lo spirito con il quale egli ci invita ad approfondire le cose della vita, tutte, che va preso e fatto nostro. È il metodo dell'umiltà intellettuale quello che ci ricorda il maestro; e la consapevolezza della fragilità delle nostre conquiste, della limitatezza dei nostri confini. Lavorare con accanimento, inseguire il risultato, la perfezione, nella consapevole certezza che ciò che stiamo facendo non solo è perfettibile, ma verrà superato da altri, presto o tardi. In questo senso il lavoro degli archivisti è molto vicino a quello degli storici e forse, chissà, anche a quello dei musicisti.

Il prologo era necessario per spiegare con quale disposizione d'animo, dopo cinque anni di paziente, accurata e crediamo intelligente fatica, ci apprestiamo a rendere disponibile ad un più vasto pubblico il risultato delle operazioni di riordino e di inventario dell'Archivio Storico del Teatro Regio nel periodo preunitario, dal 1816 al 1859. Nessuna sicumera, nessuna pretesa di aver compiuto l'opera perfetta; piuttosto la certezza di aver fatto tutto quanto era possibile per rendere più leggibili le carte di un archivio, di aver quindi contribuito, in una qualche misura, ad arricchire le conoscenze relative ad un periodo storico importante per la nostra città, illuminandone uno dei simboli più affascinanti, il teatro.

Roberta Cristofori ha lavorato con rara intelligenza, profondo amore per le carte, preziosa caparbietà.

Il mestiere dell'archivista è spesso ingrato. Costretto a ricostruire la storia del fondi documentari cui si intende mettere ordine, quasi mai raccoglie la gloria, la pubblica soddisfazione, che tocca invece allo storico di professione, in nome di un lavoro intellettuale considerato di lignaggio superiore. Eppure "non si fa storia senza i documenti..." e se il concetto di documento si è molto dilatato, la testimonianza scritta rimane il punto di riferimento fondamentale per la ricerca.

A partire dalla fine degli anni settanta, ben lo ha sottolineato Roberta Cristofori nella sua introduzione all'inventario, cui rimandiamo per tutte le notizie storiche riguardanti il fondo archivistico in esame, il Comune di Parma aveva iniziato un'operazione importante, di inusuali proporzioni per una pubblica amministrazione, di valorizzazione del patrimonio documentario contenuto nell'Archivio Storico del Teatro Regio. Basti ricordare la "Cronologia degli Spettacoli lirici 1829-1979", con relativo volume di Indici, e "Dietro il Sipario", le memorie del segretario della commissione teatrale Ferrarini, che appuntavano con mordente e salace intelligenza la cronaca teatrale dell'ultimo ventennio dell'ottocento.

Mancavano, tuttavia, due condizioni fondamentali perché quell'operazione avesse vera rilevanza pubblica, e un'intima coerenza: la piena disponibilità fisica dei documenti, cioè la predisposizione di un luogo dove essi fossero consultabili da parte di chiunque avesse desiderio o necessità di farlo, e la loro sistemazione scientificamente corretta, quindi la predisposizione di strumenti, gli inventari, atti a rendere effettiva la loro accessibilità, la loro lettura. Come si vede, le due condizioni erano in realtà le due facce di un'unica operazione.

Crediamo di aver fatto un grosso passo in avanti in questo 1992 che si sta chiudendo. Una sala di studio funzionante, una buona ma migliorabile sistemazione fisica dei documenti, l'avvio di un vasto programma di tutela e restauro del materiale cartaceo e iconografico, ed ora, con la pubblicazione dell'inventario 1816-1859, l'inaugurazione di una nuova collana editoriale "Archivio Storico del Teatro Regio - Strumenti".

Le operazioni di riordino erano iniziate alcuni anni fa. Nell'ambito dei progetti per l'occupazione giovanile, più comunemente conosciuti come Progetto Giovani, si era lanciata una scommessa che poteva apparire ambiziosa in quel momento. Intraprendere una grande operazione di riordino degli archivi comunali con personale senza esperienza lavorativa alle spalle, privo di specifiche professionalità ma decisamente motivato e interessato alla scommessa con la quale era chiamato a confrontarsi. Ulisse Adorni, cui abbiamo voluto dedicare il volume, allora Assessore al Progetto Giovani, incoraggiò l'operazione; possiamo ora affermare che i processi avviati nell'anno '87 hanno avuto esiti positivi, e non hanno ancora smesso di produrre energie sempre nuove, esperienze di lavoro qualificate, innovazioni propulsive nel settore dei beni librari e documentari del Comune di Parma.

Ci sembrava giusto e corretto inserire queste considerazioni nel momento in cui si presenta al mondo della cultura, e più in generale, al cittadino interessato alla storia della propria città, un volume che organizza e rende accessibile la memoria storica di una istituzione pubblica come il Teatro Regio. Il cittadino ha il diritto di sapere come è stato speso il pubblico denaro. Le pagine di questo inventario ne sono un possibile rendiconto.

Un teatro per la città

L'esposizione "Maria Luigia donna e sovrana - Una corte europea a Parma 1815-1847" ha cercato di mostrare un'epoca storica, quella ludoviciana, a tutto tondo, attraverso una minuziosa adesione a tutte le pieghe del personaggio, delle istituzioni, della società.

In quel contesto non poteva mancare una sezione dedicata al teatro. È ancora fresco, dunque, il ricordo del materiale esposto, in larga misura proveniente proprio dall'Archivio Storico del Teatro Regio; ed è soprattutto al nostro saggio "A teatro con Maria Luigia" che rimandiamo per quanto attiene alla temperie culturale, al gusto musicale che si andava evolvendo in quell'epoca, quando il teatro era espressione diretta, immediata, dei sentimenti, delle passioni, delle intelligenze.

"La festa si prepara tutti i giorni..." dice il poeta. Tutte le sere si apparecchiava il Teatro, si imbandiva il palcoscenico, si libava nei calici di uno spettacolo che si voleva dal sapore inebriante, in cui si chiedeva la novità ma la si misurava sulle vecchie certezze.

Le ragioni vere di un inventario come quello che presentiamo stanno proprio nella necessità di far emergere, dalla sedimentazione della documentazione storica, quello che era un movimento reale di persone, di politiche, di culture. Si possono così dipanare e sciogliere le questioni poste da una trama storica assai fitta e intricata come quella relativa all'evoluzione del teatro nell'età della Restaurazione fino all'esito unitario.

I vari livelli di lettura con i quali si può cogliere quella vicenda storica, trovano dunque nella stratificazione documentaria dell'archivio la loro ragione d'essere e il loro dispiegarsi; e i rimandi alla situazione più generale il loro sostegno.

Certo dovremmo allargare il raggio della nostra ricerca qualora desiderassimo inquadrare, da un punto di vista storico-sociale, il ruolo giocato dal teatro nell'ambito della società parmense della prima metà del secolo scorso. Tuttavia, anche in questo caso, le chiavi di lettura diverse troverebbero nell'unitarietà della documentazione un punto di confronto indispensabile.

Il Teatro Ducale era un teatro dello stato o un teatro della città, o qualcosa di più e di diverso? Riusciamo a comprendere il progetto politico che stava dietro la costruzione prima, il mantenimento e il funzionamento poi, del nuovo teatro; ci è del tutto chiara l'ipotesi di un teatro come specchio della società del suo tempo, di un teatro come fattore economicoproduttivo, di un teatro come progetto culturale? O non ci conviene forse, anticipando un po' la conclusione di questo ragionamento, pensare al teatro semplicemente come istituzione, dotato cioè di forza propria, capace di autoriprodursi nel tempo?

 

Il teatro come progetto politico

L'arrivo di Maria Luigia nell'aprile del 1816 aveva significato per Parma il ritorno ai fasti settecenteschi di piccola capitale, dopo la lunga parentesi napoleonica. La politica della duchessa e dell'uomo che la era stato affiancato per aiutarla nella direzione dello stato, il Conte di Neipperg, tendeva a rivitalizzare tutti gli aspetti del vivere civile della società parmense. Il moderatismo politico che contraddistingue il primo periodo, sostanzialmente coincidente con la presenza del Neipperg, e che si concluderà con i moti del '31, non è sinonimo di quieto vivere o, tanto meno, di inerzia. Si identifica, piuttosto, in un periodo di fervore che investe numerose attività, producendo immediati effetti stimolanti nella vita sociale. L'aspetto più evidente è un disegno complesso di opere pubbliche, che oltre ad intervenire per creare quelle che oggi definiremmo le infrastrutture (strade, ponti ecc.), prevedeva anche una riqualificazione del tessuto urbano soprattutto nella direzione delle necessità sociali (ospedali, assistenza pubblica ecc.), culturali e d'immagine.

In questa politica, ovviamente, c'era una forte componente rappresentata dalla necessità di recuperare una situazione di degrado fattasi negli anni sempre più preoccupante e intollerabile; c'era inoltre, soprattutto per i lavori di minore utilità, la necessità di dare sollievo alla costante disoccupazione. C'era, tuttavia, anche la volontà, di più ampie dimensioni, di immettere, o di riportare, Parma in una atmosfera europea. Vienna e Parigi, le capitali politiche e culturali dell'Europa continentale, divengono i punti di riferimento, filtrati attraverso la personale esperienza di una protagonista, forse suo malgrado, di quella politica e di quella cultura.

Il teatro rappresenta il momento di sintesi più alto di quella politica. Crogiuolo in cui si fondono e si amalgamano i sentimenti, le aspettative, le debolezze, l'immaginario di una società intera, risulta evidente che è a lui, al teatro, che Maria Luigia, e con lei il Neipperg, affida il proprio messaggio politico, facendone una specie di manifesto elettorale senza elezioni, sintesi di un programma, di una visione del mondo.

Non poteva certo bastare, a questo disegno, il farnesiano, ligneo, vecchio, Teatro Ducale, che risaliva al 1688. "Il piccolo teatro dove si davano le opere ... offriva uno stridente contrasto con il palazzo ducale. Era estremamente piccolo, modesto, squallido, male illuminato, a forma di doppio quadrato, lungo e stretto". "A una lunga scatola fatta a losanga illuminata da cinque candele di sego". L'impietoso giudizio di una viaggiatrice irlandese sul vecchio teatro doveva probabilmente essere condiviso a corte. A pochi anni dall'insediamento, nel 1821, la sovrana dà inizio alla costruzione del nuovo teatro, individuandone la collocazione in uno dei luoghi più strategici ed emblematici della città, nell'area del vecchio convento di S.Alessandro, in diretto collegamento con il sistema Palazzo Ducale-Pilotta-Palazzo di Riserva. Viene affidato alla responsabilità dell'architetto di corte Nicola Bettoli.

I lavori saranno ultimati nel 1828, e l'ultimo anno sarà dedicato alla decorazione interna: il teatro appare subito di bellezza non comune, perfettamente adeguato alle esigenze sceniche del tempo, rispondente in tutto anche alle necessità di un teatro che voleva e doveva essere luogo per eccellenza di incontro della società del tempo. "... È stato costruito un nuovo teatro, superbo, elegante, ampio e comodo. Tutti gli accessori e le attrezzature sono di gusto moderno e in perfetta armonia con le esigenze e il progresso della vita sociale, sia per le decorazioni esterne che per la disposizione interna. Questo edificio è considerato alla pari delle più belle costruzioni del genere in Italia". E in effetti, il Nuovo Teatro Ducale si impose agli occhi dei contemporanei divenendo uno dei modelli più prestigiosi e indiscussi del teatro all'italiana, che in quegl'anni si andava diffondendo in tutto il nostro paese.

L'apertura del teatro avvenne, come noto, con un'opera nuova del giovane compositore Vincenzo Bellini, reduce dai primi timidi successi alla Scala di Milano. Zaira 16 maggio 1829: non fu un vero insuccesso. Tuttavia, emblematicamente, la storia del nuovo teatro esordiva ponendo in risalto il difficile rapporto tra pubblico e scelte teatrali. Zaira era stata, facendo un passo indietro, la risultante di un cammino irto di ostacoli iniziato alcuni anni prima, con i contatti preliminari della corte con il grande Rossini, ormai stabilito a Parigi, per l'inaugurazione del teatro, che si voleva degna di una capitale europea. Sui documenti d'archivio si possono dunque ripercorrere le scelte di politica culturale dei sovrani, che saranno sempre commisurate, anche nei momenti di maggiore difficoltà per lo stato, al ruolo di tempio laico, splendido e memorabile, immagine del potere ducale, luogo deputato alle relazioni sociali.

Anche dopo la morte di Maria Luigia questo ruolo non si attenua, anzi riceve con Carlo III una nuova connotazione di ostentata grandeur. Il 25 agosto 1849, per festeggiare l'insediamento del giovane duca dopo l'abdicazione del padre Carlo II e la lunga chiusura dovuta agli eventi dell'anno precedente, il teatro riapre e muta il proprio nome: non si chiamerà più Ducale ma Regio.

Nei 1853, poi, Carlo III, che vede proprio nel Teatro uno dei principali strumenti della sua politica megalomane, decide di restaurarlo, dotandolo di tutti i più moderni ritrovati tecnici. A tale scopo invierà il soprintendente Michele Lopez e lo scenografo Girolamo Magnani per l'Europa a visitare alcuni dei più importanti teatri perché si documentino sulle varie soluzioni adottate. Dopo un viaggio di tre mesi che li porta a Parigi, Vienna, Dresda e Berlino, gli incaricati ritorneranno con molte idee. Sarà così definitivamente cancellata, eccetto che nello splendido ridotto, la patina neoclassica del teatro.

Tuttavia i restauri e le opere di abbellimento contribuiranno ad aumentare ancora la fama di splendido edificio al Teatro Regio, che sarà dotato, tra l'altro, di un nuovo sistema di illuminazione a gaz; sappiamo, per altro, dai documenti del tempo, quanto fosse importante l'illuminazione della sala nelle occasioni fastose e festose dell'arrivo di principi, duchi o altri personaggi ospiti dei governanti.

Ovviamente questi brevi accenni possono solo gettare qualche debole fascio di luce su quello che era un ben più vasto progetto politico che stava dietro la creazione prima e la conduzione poi del teatro.

Non si può tuttavia tacere, di passaggio, il corollario naturale, o meglio l'altra faccia, di quella politica, e cioè il teatro inteso anche come strumento di controllo sociale. Non era questa una prerogativa esclusiva della politica del ducato parmense. Il teatro rappresentava uno dei luoghi più atti ad esercitare quel controllo politico nei confronti di tutte le classi della popolazione, controllo molto stretto e rigido, che era, nella mentalità corrente, un diritto riconosciuto, per il reggitore dello stato, di ingerenza nella vita, nei costumi, nelle abitudini dei sudditi. I rapporti serali dell'ispettore del teatro, le relazioni di buon governo, redatte di solito ogni due giorni dal direttore della polizia, stanno a dimostrare l'importanza data al controllo e al buon ordine nel teatro. La trasgressione e il divieto: è sul rapporto tra le abitudini inveterate del pubblico e la più o meno rigida loro proibizione da parte delle autorità che si giocano, a volte, gli esiti delle stagioni, o delle serate, a teatro.

 

II teatro come prodotto culturale

Non poteva essere solo il divieto di applaudire senza l'assenso della sovrana, o di chiedere il bis, a condizionare l'andamento delle serate a teatro. C'era, ovviamente, qualche ragione più profonda, che investiva i contenuti dello spettacolo. Converrà allora dare uno sguardo a quello che si rappresentava sulla scena: uno sguardo necessariamente rapido (non per questo frettoloso o distratto), poiché troppo grande risulta il materiale che ingombra il palcoscenico in quegl'anni.

L'opera lirica è la vera dominatrice delle scene; esplode la moda, quasi una febbre, per l'opera di Rossini a partire dalla metà del secondo decennio del secolo. Il genio pesarese farà piazza pulita in pochi anni del gusto musicale tardo settecentesco prima in auge e contribuirà, in modo decisivo, a collocare l'opera al centro della vita culturale del suo tempo.

"Il teatro è ora il principale discorso d'ogni società, d'ogni conversazione e d'ogni caffè: occupa tutte le bocche e tutte le penne..." scriverà, qualche anno più tardi, la Gazzetta Privilegiata di Milano. In quei primi anni venti, mentre stava sorgendo il Nuovo Ducale Teatro, nella vecchia e angusta sala del Lolli furoreggiava Rossini. "...il pubblico è troppo esigente e non sa tollerare che la musica del Maestro Rossini", scriveva nell'agosto del 1822 l'ispettore del Ducale Teatro, conte Senesio Del Bono. Nelle 50 stagioni liriche, di Carnevale, Primavera, Estate (a volte), Autunno, che si susseguono nel ventennio dal 1816 al 1836, Rossini è presente in 36 con 23 titoli diversi. Solo nella seconda metà degli anni trenta, con l'affermarsi del melodramma belliniano e donizettiano, inizia la parabola discendente rossiniana che diventerà precipizio nel volger di pochi anni; a conservarsi nel tempo saranno le poche sue opere di repertorio, che mutuando un termine in voga all'epoca, si potrebbero definite "di baule", destinate, molto spesso, al salvataggio di una stagione compromessa.

Per una profetica circostanza, abbiamo visto, l'inaugurazione del Nuovo Teatro viene affidata al giovane Bellini: l'apertura sembra quasi rappresentare uno spartiacque tra il tramontante rossinismo e l'incalzante romanticismo. Prendendo per buona questa forzatura, si può più agevolmente comprendere il passaggio rappresentato dai primi anni trenta, un periodo indubbiamente caratterizzato dalla più intensa attività creatrice, nell'ambito del teatro d'opera, mai conosciuta. Tutti i teatri, almeno i più famosi, e il Nuovo Ducale è tra questi, vogliono l'opera nuova. Nel breve volgere di tempo Bellini, Donizetti, insieme con l'ingresso dei violenti e tenebrosi temi della letteratura romantica del nord Europa, rivoluzionano il gusto, spingendo l'opera verso nuovi approdi, mentre si viene solidificando, prima lentamente, poi a movimenti più rapidi, il repertorio.

"Essa (Norma) lasciò nell'animo di tutti, non diremo gran persuasione di critica, ma soddisfazione piena dal lato del sentimento; rammarico di non averla udita che per poche sere, pochissime al desiderio, speranza di pur averla di nuovo..." "Egli (Donizetti) si è accomodato al vero delle situazioni (si tratta di Lucia di Lammermoor) e n'ha reso il sentimento con note altrettanto potenti e calde d'affetto". Il sentimento. È arrivato il sentimento sulle scene. I commenti del critico della Gazzetta colgono il profondo cambiamento nel gusto musicale e teatrale che va prendendo corpo in quegl'anni.

Le carte d'archivio lo registrano, con apparente distacco, ma quale rivoluzione là, sul palcoscenico! La prima del verdiano Nabucodonosor è del 17 aprile 1843: ed è subito fanatismo. Alla beneficiata di Giuseppina Strepponi del 31 maggio sono presenti in teatro più di 2.200 spettatori paganti. Tutta Parma è stipata dentro la bomboniera. Saranno 500, forse 600, persone nel lubbione, nei corridoi, giù per le scale, ad ascoltare le care ed affettuose melodie". "Esso (Verdi) guardò meglio all'autorità dei dettami che non ai capricci della stagione, e alle volgari industrie di coloro che più intendono a blandire l'orecchio col facil trastullo delle note, che non a rinvigorir l'animo co' modi propri della passione significata dalle parole". Sarebbe difficile dir meglio del recensore. Passione significata dalle parole. E musica.

Il mutamento del gusto nel pubblico, all'interno del quale è indubbiamente cresciuta, non solo culturalmente, ma anche quantitativamente, la componente borghese, è ormai completato definitivamente, con l'approdo alle sponde del melodramma romantico. Basta un rapido sguardo alle cifre. Nel ventennio 1829-1848, su 43 stagioni d'opera, Rossini è presente in 15 con 14 titoli ma dopo il '35 è presente solo con 4 titoli (Cenerentola, Barbiere, Otello e Stabat Mater); Bellini è presente in 13 con 7 titoli; Donizetti, il vero fenomeno di quegl'anni, è presente in 24 stagioni con 23 titoli; Verdi è però già presente in 8 con 7 titoli. Nel decennio successivo 1849-1859 le stagioni d'opera sono 19, ma si sono completamente rovesciati i rapporti tra i quattro compositori. Rossini è presente solo in 5 stagioni con 4 titoli (a parte More e L'Italiana in Algeri gli altri due titoli sono ormai ricorrenti, Barbiere e Cenerentola, più che mai opere "di baule"); Bellini è presente in 3 stagioni con 3 titoli (I Puritani, Norma e Beatrice di Tenda); Donizetti in 11 con 10 titoli; Verdi, il cui successo è ormai incontrastato, in 13 stagioni con 14 titoli.

L'opera lirica dominava dunque le scene di quegl'anni, divenendo l'argomento principale di ogni conversazione. "La riuscita d'una nuova opera era un avvenimento capitale che commuoveva profondissimamente quella città fortunata dove il fatto avveniva, e il grido ne correva per tutta Italia". Tuttavia l’opera italiana era strettamente legata al mondo degli antichi sovrani, delle antiche capitali; ebbe una prima scossa quando le rivoluzioni del 1848 ne indebolirono i governi, e quando, con l'Unità, questi governi caddero definitivamente, fù l'inizio della sua fine.

Negli anni che vanno dal 1816 al 1859, lo abbiamo visto, si ha un mutamento enorme nella cultura teatrale e musicale, ma non dobbiamo pensare che questo avvenisse solo per l'opera.

Converrà allora, dare uno sguardo agli altri generi di spettacolo, tenendo conto di due aspetti, strettamente connessi tra di loro: il fatto che il teatro era luogo di incontro e di scambio sociale per eccellenza nella città (e quindi a teatro ci si andava quasi tutte le sere) e il fatto che la serata tipica a teatro doveva contenere, vista la sua lunghezza, elementi compositi, spesso di puro divertimento. Quindi non solo e non tanto opera, ma pezzi d'opera, uno o due atti, magari con qualche pezzo sostituito all'ultimo momento con un'aria da un'altra opera che poteva risolvere qualche difficile situazione per un cantante; e poi, ancora, balletto, qualche numero acrobatico, prestigiatori e così via.

Il balletto rimase una componente fondamentale nelle stagioni, soprattutto nella più importante di Carnevale, almeno fino a tutto il primo decennio dopo l'Unità. Ma prima dell'esplosione rossiniana, era addirittura lo spettacolo preferito; e anche in seguito un buon balletto poteva servire a raddrizzare una serata che si metteva sul burrascoso. Stava tra gli atti delle opere, spesso si trattava di uno spettacolo elaborato, dal soggetto storico o esotico, con una musica che molte volte lasciava a desiderare. Ma era fascino per gli occhi, era l'immaginario, che, oggi, possiamo solo indovinare dalle scenografie del tempo, da qualche manifesto. La gente ancora fanatizzava negli, anni dell'opera romantica per i celebri coniugi Bretin, o per la celeberrima Fanny Cerrito, cui si dedicavano ballate e sonetti.

A teatro si consumava anche musica. Le accademie erano frequenti, alternando serate con virtuosi famosi a beneficiate per giovani, a volte giovanissimi, artisti bisognosi, a serate più complesse a pro' di istituzioni benefiche, come gli Asili d'infanzia. In genere i programmi si ripartivano tra pezzi strumentali e pezzi vocali e, naturalmente, contavano molto sui pot-pourri operistici o variazioni su arie d'opera particolarmente in voga.

La prosa, o drammatica, come si diceva allora, aveva la sua parte nel quadro delle stagioni teatrali. Era un tipo di spettacolo che non provocava gli entusiasmi dell'opera lirica, tuttavia godeva di una tradizione consolidata e, soprattutto, era a buon prezzo. La professione dell'attore si tramandava di padre in figlio, per cui le compagnie erano caratterizzate da una conduzione che potremmo definire familiare: Generalmente il padre era capocomico e la moglie e i figli figuravano tra gli attori. Frequente era il caso in cui il capocomico scriveva alla commissione teatrale affinchè gli venisse concesso di dare una serata a beneficio di un attore o di un'attrice che erano suoi figli. I capitolati d'appalto dell'opera prevedevano che l'impresario potesse, ultimate le stagioni a suo carico, subappaltare il teatro, sotto la sua responsabilità, a compagnie drammatiche, che dovevano essere tra le più accreditate d'Italia e addirittura "di primo rango" per la stagione detta di autunnino, tra novembre e dicembre. Le cose però non andavano sempre liscie, perché era difficile trovare un accordo tra l'impresario e le compagnie. Rinunce all'ultimo momento, scritture d'emergenza e compagnie scadenti, rendevano la drammatica un'arte minore quasi di necessità. Tuttavia non mancavano eccezioni, specie quando si riusciva a pescare sul mercato il grande capocomico, o quando una compagnia diventava quasi stabile, come il caso della compagnia Mascherpa. In genere le rappresentazioni drammatiche erano abbinate a farse, nel tentativo di attirare un pubblico più numeroso, e quasi ogni sera le compagnie mettevano in scena pezzi diversi, un po' come succedeva nelle stagioni d'opera e di ballo. II repertorio era vasto e contemplava per lo più drammi d'autori contemporanei, oggi pressoché sconosciuti, con l'eccezione delle compagnie più accreditate che attingevano, a volte, al repertorio classico.

II teatro era anche sede, quasi fosse stato una piazza o una strada cittadina, di spettacoli di acrobati, di ipnotisti, di orsi e di scimmie (veri o finti che fossero).

A teatro, soprattutto se si era qualcuno, nobile, o borghese, si andava per parlare, intrattenere rapporti, mangiare, bere, giocare d'azzardo. Luogo di svago, sede di celebrazioni ufficiali. Se il teatro era tutto questo, luogo per eccellenza in cui si coltivavano le relazioni sociali, era dunque il pubblico stesso parte integrante dello spettacolo.

Si aprirebbe un capitolo assai interessante, che potremmo intitolare "il teatro come specchio della società", ma ci porterebbe troppo lontano dalle carte d'archivio, che possono solo gettare qualche brevissimo squarcio di luce sull'argomento. È noto che il teatro all'italiana offre grandi spazi anche fuori dalla sala per gli spettacoli. Questi erano necessari, e Parma non sfuggiva alla regola, per veglioni danzanti, tombole, giochi d'azzardo. Lo spettacolo, quindi, aveva luogo nella sala e nei foyer non meno che sul palcoscenico. Questo non significava che il pubblico non si interessasse a ciò che si stava cantando e suonando, solo che il rapporto dello spettatore con lo spettacolo era molto particolare, e oggi pressoché sconosciuto. Si poteva anche chiacchierare, perché lo spettacolo era, dopo le prime serate, assai familiare, ma, nei momenti cruciali, il pubblico partecipava con la massima concentrazione.

Teatro e società, teatro e consumo culturale. Affascinanti interrogativi che ci introducono ad un altro capitolo del nostro rapido percorso.

 

Il teatro da struttura economico produttiva a istituzione

Nella strutturazione degli spettacoli, nell'andamento delle stagioni, si è potuto cogliere, in qualche misura, un modello di produzione teatrale piuttosto lontano dal nostri attuali schemi di riferimento. In particolare, è la figura dell'impresario, o appaltatore, che mal si combina con l'idea nostra, ormai divenuta forma mentis, del teatro come struttura che appartiene all'apparato pubblico, del denaro pubblico vive e in prima persona progetta e gestisce la propria attività produttiva. Non si vuole certo affermare che queste caratteristiche fossero del tutto assenti nel teatro del primo ottocento, ma piuttosto che dobbiamo usare, nel rileggere quella storia, anche una lente che ci permetta di mettere a fuoco alcuni aspetti più dichiaratamente privatistici.

L'impresario, oggetto di studi approfonditi negli ultimi anni (si ricordano in particolare quelli di John Rosselli), era in sostanza un imprenditore che gestiva un'impresa con parecchi dipendenti e un elevato fatturato, offriva una serie di servizi, di cui il principale era l'allestimento degli spettacoli, e otteneva in cambio una remunerazione dal pubblico e dalle autorità.

Una tale impresa era caratterizzata da spesso opposte esigenze artistiche e commerciali, che costringevano continuamente a mediare tra il rigoroso controllo formale e finanziario della direzione del teatro e il giudizio del pubblico, arbitro inappellabile e magari impietoso. Questa duplice subordinazione aveva come contro partita la possibilità di agire, nel momento artistico, da padrone assoluto; giacchè poi l'impresario molto spesso godeva di un diritto di monopolio, essendo subordinati alla sua autorizzazione tutti i divertimenti a pagamento nel territorio cittadino, diveniva di fatto uno dei responsabili dell'evoluzione culturale di una città.

L'impresario era scelto in base ad una gara d'appalto. Assai interessante, al riguardo, è seguire nelle carte d'archivio, l'evoluzione, ancorchè lentissima, di questo contratto. L'analisi dei singoli capitolati rivela infatti una struttura di base costante nel tempo: innanzi tutto la durata dell'appalto, di solito non superiore ai tre anni. Poi seguiva una minuziosa elencazione degli obblighi e dei vantaggi dell'appaltatore. Dettava precise disposizioni in merito agli spettacoli che l'impresario era tenuto ad organizzare. Egli doveva assumere sempre in proprio la stagione di Carnevale, la più importante, e quella di Primavera. Dalla Quaresima in poi era libero di subappaltare il teatro a compagnie drammatiche, o ad altri impresari. Le opere da allestire dovevano essere novità per la città di Parma; per riproporre opere di successo era necessaria l'autorizzazione della direzione del teatro. Sia per le opere che per i balletti l'impresario doveva impegnare solo artisti "reputati fra i migliori nella rispettiva loro arte". La lista nominativa dagh artisti doveva essere approvata dalla commissione (direzione) teatrale con largo anticipo e comunque si doveva far fronte agli imprevisti con sostituti. Per l'orchestra l'impresario doveva avvalersi di quella ducale ma, qualora l'organico si fosse rivelato insufficiente, doveva assumere altri musicisti a completo suo carico. I costumi, predisposti dal disegnatore del teatro e approvati dal revisore degli spettacoli, così come il vestiario dei coristi, dell'orchestra e delle comparse, e gli scenari, dipinti dal pittore decoratore e scenografo, erano a carico dell'impresario. Costumi e scenografie dovevano essere nuovi per la stagione di Carnevale, mentre per le altre in genere si poteva riadattare l'esistente. Libretti delle opere, cartelloni e programmi muniti del visto della direzione, erano stampati a spese dell'impresario. L'impresario inoltre doveva pagare i dipendenti a servizio del teatro "con uno stipendio non minore di quello che percepiscono sulla base dello specchio relativo" annesso al capitolato.

Cosa otteneva in cambio a fronte di tutti di questi obblighi, l'impresario? L'uso gratuito del teatro, e delle sue dipendenze, che gli venivano consegnati dopo un accurato inventario. In sostanza, gli introiti derivanti dai biglietti d'ingresso, dagli abbonamenti, dal canone dei palchi. Aveva inoltre il diritto di affittare il caffè e la trattoria del teatro, poteva cedere l'uso del teatro, sotto la sua responsabilità, e trarne profitto.

Percepiva il decimo del prodotto lordo di tutti gli spettacoli e di tutti i divertimenti che si davano in città, la cui rappresentazione, a Teatro Ducale aperto, era subordinata alla sua approvazione. Ma l'impresario soprattutto aveva diritto alla "dote", al finanziamento pubblico, diremmo oggi. Tale stanziamento, assegnato all'impresario a copertura parziale delle sue spese, era pagata in quattro rate dette "quartali". I sovrani, da Maria Luigia a Carlo III e Luisa Maria di Berry, furono tutto sommato generosi con i vari impresari che si succedettero nella gestione del teatro, anche perché di converso, potevano esercitare, non senza contrasti, un ingerenza sulle scelte artistiche e, nello stesso tempo, imporre una politica dei prezzi decisamente contenuta, politica che trovava giustificazione nella funzione sociale che più sopra abbiamo osservato.

Annotava il soprintendente del teatro Michele Lopez, di ritorno dal suo viaggio presso i principali teatri d'Europa: "Il Teatro è considerato un luogo dove si vende e si compera: si vende una merce in ragione del suo valore, e si compera in proporzione dei mezzi de' concorrenti. Ma come tale merce ha per lo più un valore maggiore di mezzi dell'universalità de' compratori; così in molti paesi il prezzo saggiamente concorre a creare il necessario equilibrio fra quella e questa; le qual cose, quando si stabiliscono i prezzi dei biglietti d'ingresso ad un Teatro si debbono sempre avere innanzi al pensiero".

La complessità degli aspetti economico-produttivi del teatro emerge in tutta la sua ampiezza, quando, nel confronto con le carte d'archivio, la misuriamo con una serie di fenomeni correlati che qui solo di sfuggita citiamo: il panorama economico più generale della città e del ducato, la conduzione istituzionale del teatro (direzione, commissione amministrativa, soprintendenza, commissione direttiva: una lunga storia che con puntualità Roberta Cristofori individua nella sua introduzione), il personale, dall'ispettore di scena all'ultimo servente, l'orchestra (quale enorme capitolo si aprirebbe a questo proposito), il coro.

Come "luogo aziendale", punto d'incontro di molte e diverse istanze e di contrapposti interessi, il Teatro Ducale poi Regio, a generatore di una storia economica, imprenditoriale che si compenetra e si struttura con quella artistica, culturale, politica e sociale.

II teatro è dunque un'istituzione complessa ed è come tale che noi oggi lo ritroviamo restituito nelle carte d'archivio alla nostra intelligenza, alla nostra volontà di comprendere. Lo ritroviamo come ente che non riesce mai ad essere pienamente autonomo, soggetto alla magnanimità sovrana, come sostegno economico, e, nello stesso tempo, soggetto al controllo sovrano, come ammortizzatore delle tensioni sociali. Il ricorso ad un soggetto esterno, privato, che opera con logica imprenditoriale, è certo giustificato da considerazioni artistiche e anche istituzionali: l'impresario è infatti un professionista dell'allestimento teatrale. A lui va quindi il rischio imprenditoriale connesso all'andamento degli spettacoli: lo Stato allontana da sè questa responsabilità. Ma questo non significherà un alleggerimento per le casse dello Stato: piuttosto, un ambiguo procedere tra delega e controllo.

 

Archivi e palcoscenici

Il cammino circolare, faticoso per difficoltà di condensazione, dall'assunto iniziale fino all'epilogo finale, sintetizzato nella formula "il teatro come istituzione", trova la sua ragione d'essere nelle carte d'archivio, nel loro ordinamento, nella cura particolare dei rimandi, degl'indici, delle chiavi d'accesso.

Non altro quindi che il tentativo di percorrerlo insieme con il lettore attento, con il ricercatore insaziabile, quel cammino; fornendo qualche spunto, qualche idea per renderlo più interessante, come accade quando si sale, conversando in piacevole compagnia, un silenzioso sentiero di montagna.

Questo volume esce in occasione dell'anno di celebrazioni ludoviciane, anzi alla sua conclusione. Non vuole essere, tuttavia, un mero omaggio alla duchessa, che volle quel teatro che ancora oggi amiamo e frequentiamo, piuttosto uno strumento di lavoro per capire quell'età con le sue luci e le sue ombre.

Il teatro e il suo archivio sono documento - monumento. Come ci ha insegnato Le Goff, sono il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro, volenti o nolenti, quella data immagine di sé stesse.

Con questo inventario abbiamo dato un nostro contributo alla destrutturazione, alla decodificazione, e, ci auguriamo, anche alla ricomposizione, del documento - monumento Teatro Regio. Nulla è più lontano da un polveroso e statico archivio, nella mentalità comune, di un teatro, del suo brulicante mondo di luci e di suoni, del suo palcoscenico, eternamente cangiante, così pieno di vita e di finzione. È in queste contraddizioni che ci siamo voluti buttare, trascinandovi anche il nostro lettore.

ValerioCervetti