Intorno all'operetta
L'opera buffa fiorì un dì in Italia
E n'eran celebrati i suoi cantori.
Ma venne orribil peste dal di fuori
Col nome d'operetta; e un animalia
Musical, antiartistica, sgualdrina,
Che l'opera nostral mandò in rovina
(E. Evaschi)
E' questione di qualità. Dopo tutto, dove si situa
la frontiera? Se non si accetta la gaiezza in
arte, allora si dovrebbe rifiutare Rossini.
Andiamo dunque all'operetta: è una simpatica
lezione di felicità.
(I. Markevitch)
Tout genre est bon, hors le genre ennuyeux.
(A.Sauvage)
L'operetta, figlia dell'opera comica, è come una
ragazza di buona famiglia che si sia lasciata
traviare: tutti sanno però che esistono delle
traviate attraentissime.
(C. Saint-Saëns)
Dialogo tra un impresario e una aspirante
operettista:
- Nell'operetta voi volete entrare?
Sapete ben cantar, ben recitare?
- Non fo la prima cosa o la seconda,
Ma son bella, gentil, ben fatta e bionda.
(E. Evaschi)
1. Nonostante l'opera sia pur stata significativa tra gli spettacoli del Teatro
Reinach, a nostro parere l'importanza che il politeama ha rivestito nelle vicende della
musica nella nostra città, è nel cameo dell'operetta. Ci siamo intrattenuti maggiormente
su di essa per due ordini di ragioni: se una è che a Parma non ci risulta sia stato
scritto altro che qualche articolo, e quanto fece l'Alcari nel 1921 con la cronologia del
teatro è troppo poco per mettere in luce quanto l'operetta effettivamente avesse contato,
la seconda è che i settant'anni di vita del nostro teatro ricalcarono nel contempo quelli
che videro per la "piccola lirica" la nascita, la crescita, l'affermazione
trionfale, il declino, l'ultimo anelito, la fine.
Non ci consta esista oggi una ricerca mirata a presentare la storia della "lirica
minore" in Italia nei particolari: su alcuni libri di cronologie di teatri, mentre si
concede largo spazio alla lirica, salvo rarissime eccezioni si citano al più i titoli
delle operette eseguite e non si è cercato di ricostruire gli organici delle compagnie, i
programmi, il numero delle repliche, il favore incontrato dai singoli spettacoli.
Questo lavoro, la cui stesura è stata resa possibile dall'esistenza della ricca
collezione di locandine di Mario Ferrarini conservata presso l'Archivio Storico Comunale
di Parma, mira a sollevare, se non totalmente, almeno in parte, il velo sulle nostre
conoscenze.
Quando il Teatro Reinach fu inaugurato nel 1871, l'operetta stava muovendo in Italia i
primi incerti passi. Diciamo incerti, in quanto, a differenza dalla Francia e
dall'Austria, da noi vi erano delle forze contrarie alla sua affermazione e gli interessi
dei grandi editori musicali erano catalizzati esclusivamente sul melodramma e su
quant'altro facesse ad esso espresso riferimento.
Nel 1877 la rivista partenopea La Musica vantava che l'Italia, con i suoi
Galuppi, Paisiello, Cimarosa, Pergolesi, era stata signora incontrastata in
quell'innegabile gloria che fu l'opera buffa, "riguardata come arte esclusiva della
scuola napoletana", e proseguiva: "Chi non sa il tradizionale gusto del nostro
popolo per tal sorta di componimento? Se vi fosse chi volesse contrastarlo, lo
proverebbero a dismisura le Farse cavajole ed alcune commedie che si eseguivano
tradizionalmente dal nostro popolo con musica caratteristica e con frasi piccanti ed
incisive".
Se la tradizione dell'opera buffa era continuata fin nella prima meta dell'800 con le
felicissime scorrerie di Rossini e Donizetti, questo genere si era andato inaridendo. Fu
per merito di un parmigiano, Emilio Usiglio, che si ebbe alla fine del secolo una, anche
pur debole, rinascita dell'opera comica. Le sue composizioni - Le donne curiose, Le
educande di Sorrento, Nozze in prigione - entusiasmarono il pubblico con la
loro musica agile, carezzevole, non disgiunta dalla sentimentalità, tinta appena di
melanconia, dalla tipica frase schiettamente popolana, espressa con facile euritmia. Fu,
però, un astro che tramontò presto.
Agostino Sauvage, (malgrado il nome francese compositore fiorentino di operette, tra le
quali un Richilieu, che venne rappresentato in due stagioni al Teatro Reinach),
in una "memoria" letta nel 1888 all'Accademia del R. Istituto Musicale di
Firenze, fece un'analisi attenta e accettabile di come l'operetta, forma di spettacolo che
egli qualificò Arte con la a maiuscola, rispondesse a una esigenza sentita dal pubblico.
Un pizzico di nazionalismo traspariva poi nell'affermazione che l'opera buffa, con i
recitativi in prosa che si alternavano al canto solistico, i duetti, i terzetti, i cori,
era stata una creazione dell'arte italiana prima che francese. E come in questa
progenitrice non vi era nulla "che repugnasse alla vera arte, così non può esservi
nell'operetta che da quella direttamente deriva".
Sauvage asseriva che il trionfo del Guglielmo Tell di Rossini del 1829 era stato
foriero di conseguenze, "e non tutte liete", avendo fatto entrare il melodramma
in una nuova fase. L'opera in musica, infatti, che fino a quel tempo era stata una
ricreazione per la classe eletta del pubblico, aveva cominciato ad appassionare intere
popolazioni, molto di più di quanto avessero potuto le avventure di Don Giovanni o le
astuzie di Figaro. Questa via era stata percorsa anche da potenti ingegni e le opere erano
diventate linguaggio universale, compreso, amato, desiderato, recepito. Tale altezza
raggiunta dal melodramma rappresentò per la musica - secondo il Sauvage - una spada a
doppio taglio: si disse che lo stringersi "così davvicino al dramma era il vero
ufficio della musica, che essa non si meritava il grado di arte bella, se non coloriva, se
non ritraeva giustamente un dramma, se non lo seguiva fedelmente in tutte le sue tinte,
anzi in tutte le sue parole: insomma, in una delle sue qualità si volle vedere tutta la
musica; in uno dei suoi atteggiamenti, tutta intera l'essenza dell'arte".
Sulla base della cultura romantica, che volle distinguere la musica "elevata" da
quella "leggera", una tipizzazione precedentemente non rilevante, si era
inserita, in epoca di Risorgimento ebolliente, quella Filosofia della musica di
Giuseppe Mazzini che teorizzava, avvolta da un pesante paludamento retorico, l'esercizio
di quest'arte non limitato a procurare diletto superficiale, bensì come missione sociale
atta a risvegliare i più nobili sentimenti di virtù civica e politica. Non che le parole
di Mazzini fossero vangelo, sintetizzavano comunque una tendenza delle classi più colte
ed evolute.
Da queste concezioni derivò che soltanto la musica drammatica rivestiva importanza e,
anche se ogni anno venivano presentate in Italia non meno di una quarantina di opere nuove
- per rendersene conto, basta consultare l'ultima pagina della Gazzetta musicale di
Milano di ogni annata - da parte del pubblico la richiesta era sempre superiore
all'offerta. Si costruirono teatri sempre più capienti, si allestirono spettacoli
grandiosi con il concorso della scenografia, della coreografia e delle più recenti
invenzioni: la luce, a gas prima, elettrica poi. Questo, però, non fu sufficiente per
creare il genio. Il repertorio bello invecchiava, quello giovane era nella quasi totalità
più vecchio del vecchio: se appariva qualcosa di fresco, lo si ripeteva subito a sazietà
e presto veniva dimenticato. Il pubblico cominciò allora ad annoiarsi, a disertare i
teatri.
L'esclusivo interesse nei riguardi della musica drammatica aveva già portato a trascurare
tutti gli altri generi: anche il sinfonismo, la musica da camera, la religiosa, furono
improntati sull'opera lirica, mentre quella buffa venne guardata con condiscendenza, se
non con disprezzo. Così, se si esclude l'exploit di alcuni epigoni sempre più rari, non
ci furono più compositori che coltivarono questo genere, essendo pubblico, impresari,
editori e critici, passati sotto quelle che erano le bandiere vittoriose. E autori come De
Giosa, De Ferrari, gli stessi fratelli Ricci (tutti presenti nei cartelloni del Teatro
Reinach), che si erano dimostrati brillanti nel genere giocoso, dando vita, come scrisse La
Musica, "a opere stupende, e rigeneratrici della musica napoletana",
cimentandosi nel genere drammatico, intruppati nel gregge, percorsero invece una carriera
ben mediocre. Scena illustrata del 1 novembre 1894 con prosa fiorita confermava
che le glorie dell'opera buffa, Crispino e la Comare, Don Bucefalo e via
dicendo, avevano costituito "tutta una fioritura varicolore, rorida, olezzante; una
letizia di garrule melodie birichine, un record di canti e di suoni leggiadri, burleschi,
esilaranti; una festa gioconda dello spirito". Nella costatazione che la commedia
musicale era adesso ridotta in uno stato agonico, La Musica ne attribuiva la
ragione anche al fatto che "oggi in Italia più che ai musicisti la decadenza deve
addebitarsi a' così detti librettisti. Oggi manca più il poeta che il maestro di
musica", un poeta che sappia "fare la commedia vera dei nostri tempi,
ricercandola nelle sconce idee di mal capita libertà, ne' parlamenti, nelle assemblee,
nell'emancipazione, nella repubblica una, nell'internazionalesimo, nel comunismo,
nell'ipocrisia degli eterodossi, e in altre giocondità del secolo". La rivista da
cui stiamo leggendo, "giornale di pedagogia, estetica e critica musicale",
rilevava inoltre che erano venuti a mancare anche gli esecutori, perché, "tranne i
buffi propriamente detti, dove è una Celeste Trabalza, una Marianna Monti, una Carolina
Miller? dove un tenore come l'ultimo De Rosa? Manca del tutto il resto della compagnia per
l'esecuzione di una commedia lirica".
Oltre a non esistere più teatri propri per gli spettacoli, si era fin perduta la
tradizione di una scuola per questo genere di canto, essendosi tutti messi a urlare e a
declamare le frasi drammatiche, "ma ciò non è una scusa per i compositori; però
che se ci fossero buone opere, la necessità di eseguirle determinerebbe dei buoni artisti
esecutori".
Dalla commedia musicale di scuola italiana, nel tempo si erano andate sviluppando nei
paesi europei alcune nuove forme teatrali semiliriche a carattere nazionale e a sfondo
satirico: gli ascendenti dell'operetta. Riguardo a quest'ultima, vista la presenza sul
palcoscenico del Teatro Reinach di lavori per la quasi totalità di scuola francese e
danubiana, ci limiteremo a un cenno sui compositori facenti capo a queste, cenno a nostro
parere opportuno, considerato che il pubblico di Parma godette per decenni della loro
musica.
L'evoluzione dell'opera comica in Francia era stata rapida, e presto la satira aveva
soppiantato l'intreccio amoroso e la buffoneria pura: in tale veste l'operetta incontrò
il trionfo, auspice il genio di Offenbach. Benché sia un'assurdità, essendo impossibile
fissare una data di nascita per uno stile musicale frutto di un'evoluzione, c'è stato chi
ha indicato il 5 luglio 1855, giorno in cui Offenbach inaugurò con i suoi due atti unici Les
deux aveugles e Une nuit blanche, il teatro dei Bouffes parisiens. Tra le
tante e tante - più di cento operette, indicate a volta come opere buffe o opere comiche
- La bella Elena e Orfeo all'inferno (che Bortolotto definì
"l'immensa devastazione del mito più poetico che mai avesse vagheggiato la
musica") rappresentarono autentiche esplosioni di talento beffardo, veri capolavori
di ardimento parodistico, condotti con geniale stravaganza e ricchezza d'invenzione, al
punto da essere ancora ben vivi e vitali. Ed è questa immortalità che ci fa respingere
l'affermazione di quegli studiosi che, con un'ottica riduttiva, limitano la produzione di
Offenbach a uno specchio deformante, lucidamente corrosivo, della fatua e leggera società
parigina del Secondo Impero, avviata allegramente verso la catastrofe di Sedan.
Era invece vera arte: tra vivacità ed ironia, brio e cinismo, le arie, i duetti, i pezzi
d'assieme si incrociano naturalmente con quei dialoghi parlati, vero motore dell'azione,
pepe di una satira briosa e frizzante. Nietzsche, in proposito, aveva scritto a Peter
Gast, cui comunicava da oltre dieci anni le sue perlustrazioni musical : "Ho
ascoltato qualcosa: tre cose di Offenbach (La Périchole, La grande duchesse de
Gérolstein, La fille du tambour-major) e ne sono stato rapito. Quattro, cinque volte
egli arriva a un grado di esuberante buffoneria, ma in un gusto classico di una logica
assoluta e nello stesso tempo meravigliosamente parigino! Inoltre, quel ragazzo viziato ha
avuto la fortuna di avere per librettisti i più spiritosi dei Francesi: Halévy (che è
stato accolto all'Accademia per i suoi tratti di genio, La belle Hélène, ecc.),
Meilhac e altri. I testi di Offenbach hanno un non so che di stregante e sono veramente
finora i soli contributi dell'opera alla poesia". E Albert Wolff osservò: "La
sua musica ha il diavolo addosso, come il nostro secolo che marcia a tutto vapore: è la
musica del movimento diabolico del nostro tempo".
L'approccio di Parma con l'operetta avvenne proprio attraverso Offenbach: la compagnia dei
fratelli Grégoire - a quanto ci risulta - si presentò per la prima volta il 2 ottobre
1866 in un teatro posticcio montato in Piazza Grande, eseguendo in francese La belle
Hélène, che, al momento, non sembrò lasciare il segno. Fu con I briganti che
la prima (in senso cronologico) compagnia di operette, quella di Bergonzoni-Lupi, aprì
nel 1873 la sua stagione al Reinach, seguito qualche giorno dopo dalla Bella Elena,
quella che era stata la prima operetta rappresentata in lingua italiana: lavori ambedue
che ritornarono su queste scene per decenni in innumerevoli allestimenti e rappresentati
dalle più fulgide gemme del firmamento delle stelle operettistiche.
Con qualche rara infiltrazione austriaca il teatro d'operetta italiano in quei primi anni
fu francese e le rare manifestazioni indigene rispondevano per spirito e forma ai dettami
di quella scuola. Assieme a Offenbach la scuola francese potè infatti vantare una superba
fioritura di ottimi musicisti, che si dimostrarono splendidi autori: si dedicarono
all'operetta, paladini del genere scapigliato" quali Florimond Ronger detto Hervé,
come lo definirono nel loro poetico e nostalgico ricordo della rivista e dell'operetta
Dino Falconi e Angelo Frattini. Organista della chiesa di Saint-Eustache, direttore
d'orchestra, cantante, morì suicida, "indotto al funesto proposito pel dispiacere
delle critiche rivoltegli ultimamente dai giornali", ipotizzava Il teatro
illustrato nel novembre 1892. Hervé era stato autore, tra l'altro, di quella Mam'zelle
Nitouche, nota in Italia come Santarellina, un modello del genere, piena di
musica graziosa, elegante e soprattutto allegra: anche questa in mezzo secolo ritornò
sulle scene del Reinach in una ventina di allestimenti. Vi furono musicisti di ilare,
ricca e signorile vena, come Charles Lecocq - quello che Stravinsky definì un compositore
di musiquette ricco di dono, di originalità - che con La figlia di madama Angot non
dissimulava l'intenzione di ritornare allo stile della più eletta commedia musicale e che
era, per Louis Schneider, la rievocazione del fantasma di Rameau nella canzone dei paggi,
nella gavotta e nella lezione di solfeggio di Le petit duc. Sia Il duchino che
La figlia di madama Angot furono due colonne di questo genere di spettacolo nel
nostro teatro: la seconda, poi, fu addirittura definita da un cronista della Gazzetta "l'Aida
delle operette", cui ricorrere a salvataggio, quando una stagione navigava in
acque infide; compositori colti e raffinati come André Messager, artefice delle Piccole
Michù e di quella Basoche, che rinnovò la squisitezza dell'opera comica di
Boïeldieu; personaggi eclettici quali Planquette, dal facile e istintivo talento
melodico, autore di quelle Campane di Corneville, che avevano ottenuto centinaia
di repliche consecutive a Parigi, senza contare gli innumeri trionfi sul nostro più
modesto palcoscenico, mentre memorabili successi baciarono Edmond Audran che, uscito dalla
scuola di musica sacra di Louis Abraham Niedermeyer, divertì i nostri avi profondendo il
suo lirismo chiaro e un po' zuccheroso con La mascotte e con La Cicala e la
Formica. Di questa, Domenico Oliva scrisse che aveva trovato "una commedia
garbata che possiede una musica carina quanto mai, che talvolta, come nel primo atto, non
è solamente carina, ma addirittura bella".
Dalla cronologia del nostro teatro si può rilevare come, nel gran numero di compagnie che
si sono succedute nei trent'anni dell'Ottocento, il repertorio comune comprendesse quei
compositori francesi che abbiamo testè ricordato e che si incontravano su tutte le scene
europee: olimpo, questo, sul quale non furono ammessi gli autori italiani, i cui lavori,
che soltanto con buona volontà si possono qualificare operette, erano per lo più
d'occasione (quali le riviste di fine d'anno o le parodie a spettacoli famosi) e che,
passato il momento, non venivano ripresi dalle compagnie che li avevano commissionati
spesso al loro direttore d'orchestra.
Nella sua "memoria" Sauvage ricordava che, proprio mentre in Italia il teatro
era in crisi di affezione da parte del suo pubblico, aveva fatto capolino l'operetta
francese: la prima compagnia transalpina, che fece conoscere i lavori di Offenbach in
lingua originale, fu, come abbiamo già accennato per Parma, quella della famiglia
Grégoire nel 1866. Al suo primo apparire si esibiva in un teatrino mobile in legno e
tela, che veniva montato nelle piazze o nei prati di periferia delle città che toccava.
Erano, rispetto a quelle cui erano soliti assistere gli italiani, rappresentazioni
clownesche dal ritmo vorticoso, sguaiate, scollacciate, colorite, pimpanti, quasi sempre
irresistibili, travolgenti: gli allestimenti, per lo più di disarmante semplicità, erano
quelli propri delle compagnia di giro: a dominare era il movimento, una girandola di mimi
che si mescolavano al coro, in un carosello frenetico di follia collettiva. La grazia e lo
charme delle giovani interpreti, le voci graziose e intonate, fecero il resto nell'aprire
la breccia.
Dell'apparire di questo nuovo spettacolo in Italia, nessuno di quelli oggi
chiamati,"addetti ai lavori", volle accorgersi: esso, anzi, venne guardato
dall'alto in basso. Nel linguaggio ricercato di una paludata recensione di un secolo dopo
(1979), scritta da Marcello Passeri, ci sembra di ravvisare ancora quello che doveva
essere l'approccio di questi snob nei riguardi della massa del pubblico, "il quale
ritrovava nell'esecuzione non poco di ogni substrato della propria minuta cultura primaria
intesa come accettazione della musica quale quotidiano rifugio contro le cose crudeli
della vita. E l'operetta ricompensava ad abundantiam per l'effluorescenza delle sue
melodie di scorrevolissima e bella invenzione".
Con molto maggiore realismo un giornalista del lontano 1884, Yorik, riconobbe sulla Musica
popolare che furono proprio i critici a favorire il successo dell'operetta in Italia.
Dopo aver rilevato come questa aveva avuto le sue iniziali affermazioni per demerito
dell'opera, continuava: "Allora, inebbriata dai primi successi osò fare un passo
più innanzi, esagerò la sua vena comica, accennò a mutare in licenza quel suo carattere
di onesta libertà nella parodia delle debolezze e dei pregiudizi, oltrepassò i limiti
dell'umorismo castigato: e noi critici goccioloni e buaccioli, commettemmo l'imprudenza di
lanciarle contro la scomunica maggiore in nome della morale oltraggiata e della pudicizia
compromessa. E fu come versare olio sulla fiamma. Per gli ingenui, per gli indifferenti,
per gli spassionati, l'operetta si fece bella di tutte le intenzioni e di tutte le
seduzioni del frutto proibito". E continuava: "Ormai l'operetta ha conquistato
fra noi il suo diritto di stato e di cittadinanza. C'è e ci starà ... né varranno a
cacciarla tutte le nenie giulebbose de' moralisti e tutte le diatribe violente di critici.
Facciamo buon viso a cattiva fortuna e proviamoci a trarne partito anche da un male
inevitabile e necessario. Quando l'operetta ride con un certo bel garbo mostrando le
labbra porporine e i denti bianchissimi, senza cacciar fuori plebejamente un palmo di
lingua, rendiamole giustizia e non ci vergognamo della onesta ilarità che suscita anco in
noi [...]. E studiamoci di far sì che i suoi frizzi e i suoi motti vadano sempre a
colpire un pregiudizio, un errore, una stortura dell'umano intelletto, una malattia morale
della società dei nostri giorni".
Anche Renato Simoni vide con un senso di umanità quella che era la funzione sociale del
teatro d'evasione: "Il pubblico ascolta, ride, passa la serata ed esce di teatro,
atteso sulla soglia dalla folla dei guai che ha deposto all'ingresso. Fuori del teatro
c'è il guardaroba dei guai". Solo umanissimo desiderio di evasione: niente a che
fare con quanto è invece saccentemente riportato dal DEUMM, che trancia un giudizio
generalizzante, banale e di lunatico estremismo politico, su una supposta natura
dell'operetta come fenomeno socio culturale. Secondo l'estensore, Evangelos Mazarakis, va
vista "quale luogo naturale d'incontro dei ceti affaristici e arrivistici,
politicamente miopi e culturalmente poco esigenti, avidi di facili sollazzi e di ancor
più facili e gratuite emozioni [...e] divenne la panacea dei gusti effimeri di una
società che della gioia di vivere e del far quattrini con tutti i mezzi aveva fatto il
suo credo etico e civile". Della competenza in materia, comunque, il Mazarakis dà
prova poche pagine dopo quando, nel riprendere dall'Enciclopedia dello Spettacolo i
nomi delle più prestigiose stelle che calcarono le scene, tra Silvia Marchetti Gordini ed
Emma Vecla, inserisce Anna Glavari: la vedova allegra in persona!
La musica dell'operetta, senza pretese, era gaia, spigliata, facile e, anche se spesso
triviale, spontanea: mai pesante; i libretti pieni di spirito e originalità, le prime
parti non trascuravano il personaggio: fu così che nelle sale di second'ordine il
pubblico trovò quanto non offrivano i teatri dalle grandi tradizioni.
La compagnia Grégoire, a seguito del successo conseguito, affinò le sue esecuzioni,
arricchì gli allestimenti e presto fu ricercatissima ospite di tutti i teatri della
Penisola aperti agli spettacoli di arte varia. Sarà una coincidenza ma, dopo il trionfo
riscosso nella primavera 1874 sul palcoscenico del Reinach, le operette presero piede con
sempre maggiore frequenza anche nella nostra città. In verità essa era già comparsa al
Reinach prima dei Grégoire: timidamente, ad opera della compagnia Bertini, che ne aveva
presentata una, frammista a riviste e lavori comici dialettali, una rappresentazione
quanto mai popolare, in cui le battute con doppi sensi si alternavano a balli e a
canzonette.
Questo genere di proto-operetta di produzione italiana non si rifaceva al teatro lirico,
attingeva bensì la sua linfa a quel teatro di varietà, a quei vaudevilles che poi,
all'affermazione della "lirica minore", scomparvero dal Teatro Reinach. Su
questa scena erano comuni gli spettacoli dialettali delle compagnie per lo più milanesi,
che si basavano sui successi di Cletto Arrighi, pseudonimo di Carlo Righetti, quegli
stessi spettacoli - chi non conosce la canzonetta Levati la camisella del Milanes
in mar? - che fecero nascere in Antonio Scalvini l'idea di un'operetta
italiana:."italiana" in quanto rappresentata nella nostra lingua, da attori
italiani. Gran praticone del teatro e del gusto del pubblico, intelligente, colto, il
dottor Scalvini riunì in sé le qualità di autore e di impresario, anche se a volte
accanto al suo nome dimenticava di mettere quello dell'autore francese: le operette
straniere vennero così presentate tradotte dal poliedrico Scalvini in versioni ritmiche,
a volte persino nel dialetto locale: perderne il senso, l'istantaneità della battuta, era
assurdo in un'epoca in cui - fortunati loro - non imperava la fredda, asettica, non
creativa, pedanteria filologica.
Da parte della maggior parte delle compagnie nostrane dei primordi - spesso randagie,
straccione, non fatte certo per guadagnarsi e conservare la simpatia dei critici - si
trattò di una innegabile e pesante volgarizzazione degli spettacoli, rilevata e
stigmatizzata sovente dall'attenta cronaca della stampa di Parma. D'altronde l'origine di
questo teatro in Italia fu povera e, anche nel successivo ampliarsi con il successo,
denotò la sua origine "volgare": nel senso che mirava direttamente,
scopertamente, senza mistificazioni né orpelli, al gusto del volgo, il suo pubblico
primigenio. Questa povertà risulta anche dall'esame comparato dei personaggi che
comparvero negli spettacoli dei primi tempi. Abbiamo infatti rilevato al Teatro Reinach
che - a differenza di quanto avveniva nell'esecuzione delle opere, in cui tutti i ruoli
venivano rispettati - nella lirica "minore" si presentavano variazioni anche
notevoli da compagnia a compagnia: il nome stesso degli interpreti è risultato assai
spesso variato rispetto a quello che compare nei libretti o negli spartiti e, come a
questi ne sono risultati alcuni aggiunti, così a volte ve ne erano di mancanti, con le
innegabili difficoltà nella cronologia, nella stesura della quale abbiamo cercato di
conferire la maggiore uniformità possibile. Problemi si sono palesati altresì per la
classificazione, in quanto molti spettacoli, indicati di solito con il nom de genre di
operetta, appartenevano in realtà a quella pletora di filoni del teatro musicale che
andava dal vaudeville, all'opera buffa, alla zarzuela, alla féerie, e chi più ne ha,
più ne metta. Ci siamo altresì imbattuti in operette e opere buffe eseguite egualmente
sia da compagnie ricche di diecine di elementi, che da altre con soltanto otto o dieci: e
variazioni si sono riscontrate nei titoli che denotano differenze più o meno marcate.
Specie nei primi decenni non furono risparmiati interventi pesanti sulle partiture con
aggiunte, manomissioni e mutilazioni, a volte indicate come opera del direttore
dell'orchestra della compagnia, mentre i libretti furono oggetto delle traduzioni spesso
le più approssimative, con l'aggiunta di lazzi e battute da avanspettacolo, che
divertivano la parte meno raffinata del pubblico, certo la più rumorosa. L'esecuzione a
volte - non era fortunatamente la norma - sia per la parte strumentale, che per quella
vocale, era quanto di più barbaro potesse avvenire, per non parlare dei costumi e messa
in scena, definibili con un eufemismo, approssimativi.
A differenza di quanto avveniva in Europa, fu questo inizio a causare il disprezzo della
"intelligenza" italiana nei riguardi di questo genere, considerato appannaggio
della plebe nonché, come si direbbe oggi, quasi "a luci rosse", al punto che,
quando un libretto era castigato, l'impresa si premurava di darne l'avviso sui manifesti,
specificando che era uno spettacolo "per le famiglie", o quantomeno per le
signorine. Quello che ebbe a dire con velenosa eleganza Eleonora Duse, allora amica del
colto e raffinato Arrigo Boito, sintetizza l'opinione della classe intellettuale:
"L'operetta è come l'anitra: vorrebbe cantare, volare, camminare, nuotare: ma in
realtà non sa far niente di tutto questo".
Da parte dei frequentatori più intelligenti del nuovo spettacolo e dei critici più
aperti si riconosceva che, qualora fossero stati tolti i frizzi indecenti e le sconcezze,
nell'operetta restava comunque, tra musica e libretto, qualcosa che apparteneva alla vera
e sana arte: se a molte delle opere che comparivano nei teatri paludati fossero stati
tolti gli apparati scenici grandiosi, gli effetti della sonorità, qualche nota acuta dei
divi strapagati, vi sarebbe rimasto molto meno. Con tale orientamento collima l'opimone
espressa il 18 novembre 1888 da Nietzsche in una lettera a Peter Gast, dopo aver assistito
a uno spettacolo al Teatro Carignano di Torino: è un inno all'operetta, ma nel contempo
una critica a come essa veniva eseguita nel nostro paese. "Domandate dunque come
Monsieur Audran definisce l'operetta: "il paradiso di tutte le cose delicate e
raffinate, comprese le sublimi dolcezze". Ho ascoltato recentemente la Mascotte.
Tre ore, e non una sola battuta di vienneseria (= porcheria). Leggete un qualunque
feuilleton su una nuova operetta parigina; vi sono in Francia, in quest'ambito, veri geni
di monelleria, di malizia indulgente, d'arcaismi, d'esotismo, di cose affatto ingenue.
Occorrono dieci numeri di prim'ordine perché un'operetta, stretta da un'enorme
concorrenza, possa restare in programma. Vi è una vera scienza delle finesses del gusto e
degli effetti. Se potessi mostrarvi una vera soubrette parigina, in una sola parte di sua
création, le squame vi cadrebbero dagli occhi, stavo per dire dalle operette. [...] Per i
nostri corpi e le nostre anime, caro amico, un piccolo avvelenamento alla parigina è
semplicemente una liberazione, diventiamo noi stessi, cessiamo d'essere Tedeschi cornuti.
[...] Morale: non l'Italia vecchio amico! Qui, dove ho la prima compagnia d'operetta
italiana, sono tuttavia obbligato a convenire ad ogni gesto delle graziose, talvolta
troppo graziose donnine, che d'ogni operetta esse fanno una caricatura. E' che esse non
hanno alcun esprit nelle loro piccole gambe, e meno ancora nelle loro testoline... In
Italia, Offenbach mi pare oscuro (voglio dire di una volgarità abbietta) come a
Lipsia".
I moralisti rigidi e piagnucolosi stigmatizzavano lo spirito troppo libero e ardito che
emanava dall'operetta francese e, dopo aver assistito agli spettacoli, scrivevano lettere
ai giornali, invocando l'intervento della censura contro queste immoralità. Sulla Gazzetta
di Parma riportava sia queste che le risposte del critico musicale: se uno non voleva
assistere a spettacoli notoriamente scollacciati, poteva liberamente astenersi dal recarsi
al teatro, dato che nessuno lo imponeva. Questa trionfante presenza del nudo sul
palcoscenico fu ricordata anche nei versi - assai brutti e sgangherati in verità - di
un'ode che il commediografo parmigiano Parmenio Bettoli scrisse su Scena sport il
15 maggio 1891:
C'è il ballo e l'operetta, in cui, vera o posticcia,
ha una parte di rilievo anche la ciccia...
A quelli che rimpiangevano l'opera buffa classica, ricca di buona musica, ispirata, e
che non indulgeva a certe licenziosità, Egisto Roggero rispondeva sul Teatro
illustrato: "Se i nostri nonni si contentavano della più rigorosa morale nelle
opere buffe, se essi andavano in sollucchero alle tirate, alle eterne situazioni di quei
libretti che sapevano quasi tutti a memoria, dopo però essi avevano il ballo, il ballo
delle ballerine scollate, dalle gonnelline lunghe mezzo palmo, dalle maglie procaci che
sviluppavano le curve senza nasconderle. E dopo un'oretta di quell'esplosione di gambe, di
spalle, e di braccia, più o meno ben tornite e provocanti, essi eran ad usura
ricompensati dell'austerità delle opere buffe". Anche quest'ultimo conveniva che il
favore del pubblico per l'operetta non era altro che una logica reazione alle condizioni
in cui versava l'opera lirica, quella grande, seria. Si erano andati bandendo da questa i
passaggi di agilità, "scarrucolate rossiniane"; le cabalette, "roba da
organetti"; le ripetizioni simmetriche, "vecchiumi"; le fioriture, i
gruppetti, i trilli, "tutte cose che piacevano nel secolo passato"; l'eleganza
delle melodie, "manierismo": tutto quanto aveva fatto la gloria dell'opera
italiana era stato sostituito "dalle frasi drammatiche, dalla filosofia, dal colore
locale, sino a finire al continuo recitativo". L'opera moderna - siamo alla fine
degli anni Ottanta - non era più fatta per il popolo, per la massa degli spettatori, che
andava a teatro per svagarsi e tornare a casa fischiettando un motivo che si era incuneato
nella memoria. Adesso essa navigava -in pieno oceano di avvenirismo, di ricerche
strumentali, di fusioni di scuole e che so io, converrete con me che il povero pubblico,
che dopo tutto non è obbligato ad essere professore di contrappunto per udire un'opera
moderna, trova molto poco da divertirsi [...e] si sente torturato da una musica che non
capisce, astrusa per lui, come per molti i più sublimi teoremi della matematica
superiore". Medusa, la rivista dei giovani intellettuali di Parma, quelli
che dettero vita al movimento futurista locale, in un lungo dialogo tra il Teatro Reinach
e il Teatro Regio, dall'indicativo titolo La sapienza degli umili, metteva in
luce con una allegoria la differenza tra l'operetta e l'opera, concludendo l'articolo con
questa poetica visione: "Un passante fischiettava rincasando un'arietta piena di
languore. Era stato a teatro [il Reinach] ed era tutto felice perché aveva portato via
qualche cosa. Dalla parte opposta un pezzente passava con passo vacillante. Salì i tre
gradini della facciata del Teatro Regio, passò tra le colonne, si coricò rasente le
porte chiuse e poco dopo russò profondamente".
Tommaso M. Persico rilevava nel 1884: "Vedete lì quel gruppo di persone che si
accalcano, si pigiano, fanno ai pugni innanzi al botteghino d'un teatro. Temo che arrivino
troppo tardi per trovare un posto, anche nel lubbione, e che molti se n'andranno a tornare
con le mani vuote. Che spettacoli si danno in quel teatro, per chiamarvi tanta gente? Non
è certo un dramma dello Shakespeare; non è certo un'opera di Mozart, di Rossini, o di
Wagner. Vi si darà il Boccaccio, il Duchino o la Mascotte.
[...] Riconosco che le operette esistono perché debbono esistere, e si producono perché
il pubblico le vuole. [...] Spesso vado a sentirle e mi ci diverto". Il Persico
rilevava in questo favore del pubblico l'inconveniente "che la soverchia produzione e
moltiplicazione delle operette ha assorbito l'opera seria", cosa certo che "non
era da addebitarsi all'operetta vincente, ma alle colpe di un'opera perdente".
Anche l'arte di Tersicore venne messa in crisi dall'operetta: dopo i costosissimi balli
coreografici del Manzotti, che avevano toccato il massimo con Excelsior, Amor, Sport,
e che non erano più superabili per grandiosità, alle ballerine non restò che trovare
rifugio nelle compagnie d'operetta. Bisognò attendere la novità dei balli russi perché
quest'arte tornasse a trionfare sulle scene. Anche la prosa si trovò a navigare in
cattive acque nei riguardi dell'operetta trionfante. Parmenio Bettoli, in Scena
illustrata del I agosto 1894, affermava convinto: "Ebbene: tra un decennio, di
tutte le novita, che, adesso, si decantano, si festeggiano, si premiano, non rimarrà
neppure il ricordo. E perché? perché il teatro, che, adesso, si vuole ad ogni costo, far
prevalere su le scene, è un teatro noioso".
Proprio per la leggerezza che caratterizzava l'operetta, il pubblico accorreva in massa:
comprendeva quello che andava a sentire e, se applaudiva o fischiava, lo faceva perché
così si sentiva di fare secondo una libera scelta, "non ciò che egli s'obbligava di
ammirare o di spregiare dai critici autorevoli, sotto il pericolo di buscarsi una patente
d'asinità". Questo sentire calzava con quanto aveva scritto Guido Gozzano:
Oh, mi a teatro i vad për divertime!
Considerate le difficoltà per rappresentare una prima opera seria, cosa che si risolveva per lo più con l'esborso da parte dell'autore all'impresario di svariate migliaia di lire, Sauvage suggeriva ai giovani compositori di iniziare la carriera con le operette. Il consiglio ricalcava quanto aveva fatto Carlos Gomes: partendo dal teatro leggero, con le travolgenti musiche delle riviste di Scalvini Se sa minga e Nella luna, il brasiliano si era costruita quella solida fama, che gli aveva aperto nientemeno che le porte della Scala per Il Guarany. Il successo aveva creato scalpore, e una filastrocca aveva recitato:
Guarda un po' che caso strano
un parmense e un brasiliano
scrivon musica in Milano ...
"Ghe ne pu de milanes?".
Il parmense accomunato a Gomes era Costantino Dall'Argine, indimenticato autore di
musiche per i grandi balli coreografici e di opere leggere, di cui una, I due orsi,
aveva ottenuto anche il caloroso plauso del Reinach.
A supporto di questo suggerimento, che avrebbe potuto dare nuova linfa alla musica
italiana, Sauvage rilevava che,"intanto con l'operetta troviamo un teatro che vive, e
che è ordinato a compagnie fisse e a repertorio, per conseguenza non è grave il danno
che può recarvi la caduta di un lavoro; tanto meno difficoltà negl'impresari per
tentarlo; il bisogno di novità vi è più sentito" e, dato che quei lavori
invecchiavano presto, era maggiore la facilità nell'accettazione di lavori nuovi.
Malgrado le difficoltà e il rifiuto da parte di coloro che in conclusione scrivono la
storia, in quei primi decenni postunitari con lo Scalvini si segnalarono alcuni
personaggi, cui andò il merito di aver portato avanti questo discorso: tra di essi sono
da ricordare Giovanni Gargano, Bruto Bocci, Raffaele Tomba, tutti presenti nella
cronologia del Teatro Reinach.
Al Gargano bisogna riconoscere di aver organizzato delle esibizioni artistiche veramente
efficaci e notevoli: ex attore di prosa, non si può dir di lui che organizzò degli
spettacoli perfetti, in quanto l'apparato scenico era quasi sempre disarmonico. Fu però
un direttore artistico di talento eccezionale: un maestro di dizione che, pur essendo
napoletano, insegnò ai suoi artisti una recitazione sobria e corretta. Dalla sua scuola
uscirono la Calligaris, la Soarez, la Ciotti, Aristide Gargano, Pinelli, Acconci,
Piraccini, che poi si dispersero dando vita a nuovi nuclei vitali per l'arte
dell'operetta.
Bruto Bocci ebbe il merito di rendere gioconde, accessibili, brillanti, scapigliate le
pieces che la sua compagnia allestiva. Artista attivissimo, intese l'operetta con criteri
meno pratici del Gargano, con un senso più intimo del genere e la bontà del suo
insegnamento è testimoniata dal fatto che Giulio Marchetti, di cui avremo agio di parlare
a lungo, dopo l'apprendistato presso la compagnia Grégoire, fu suo allievo.
A Raffaele Tomba, amministratore nato, si deve far risalire la concezione dell'operetta
intesa come una donnina aggraziata, che appariva più stuzzicante e piccante quanto più
era vestita con gusto e malizia, concezione che lo portò a valorizzare il quadro dello
spettacolo con la cornice lussuosa di una ricca messa in scena. A questo aggiunse artisti
che sbalordissero, ma anche teatri che lo arricchissero. E se tirò su attori veramente
comici (Edoardo Favi, Oreste Lambiase) e belle donnine brillanti sulla scena, fu anche il
primo a portare la compagnia nelle lontane Americhe, non ancora toccate da questo genere
di spettacoli.
La cronologia del Reinach - che fu a Parma il centro più importante per l'operetta, dato
che essa era bandita dal nobile palcoscenico del Teatro Regio, ma compariva d'estate anche
nelle arene posticce all'aperto eseguite per pochi centesimi da compagnie di modesta
caratura - sintetizza le vicende di questo genere di spettacolo, almeno per quel che
riguarda le compagnie che agirono nell'Italia settentrionale. Essa ci trasporta, dopo
quasi un trentennio caratterizzato dai ritmi leggeri, spumeggianti, scintillanti dei
grandi maestri francesi che abbiamo ricordato, attraverso Franz von Suppé e Johann
Strauss jr, alla successione raccolta dalla scuola danubiana, trionfante con il nuovo
secolo.
2. Fu per merito degli artisti testé ricordati che le condizioni pionieristiche
cambiarono radicalmente e fu allora che l'operetta si impose alla grande in Italia,
cambiando struttura: anche tre o quattro interpreti d'un certo rilievo nel canto, un buffo
veramente comico, qualche primadonna brillante, presto chiamata soubrette, (di una di
queste il critico, dimentico dei meriti canori e coreutici, si era invece, con
immaginifica espressione, smarrito nell'apprezzamento delle "magnifiche caviglie
scoperte fino all'inguine"), un coro, un corpo di ballo composto da donnine
attraenti, "un esercito di ancheggianti soldatesse della seduzione, freschissime di
cottura, tutte appena sfornate e croccanti" (come ebbe a definirle Orio Vergani), un
direttore d'orchestra, ricchi costumi e scenari furono l'organico di una compagnia
italiana di operette della fine del secolo, imprese che necessitavano di un
consistente impiego di capitali.
A Parma le stagioni (a Roma e Milano si poteva presentare anche un solo spettacolo per
mesi) tenevano la piazza per periodi che andavano da pochi giorni al mese intero,
normalmente un paio di settimane. Generalmente si agiva in percentuale con il gestore
della sala: tolte le spese - stampa, luce, imposte - per lo più i due terzi andavano alla
compagnia e un terzo al teatro. Poteva anche accadere che le compagnie esigessero un
minimo garantito, quando il gestore si faceva anche impresario, assumendo cioè i rischi
dello spettacolo: se gli spettacoli andavano bene, l'utile era suo, se il pubblico
disertava, era a suo carico pagare egualmente gli artisti. Questo fu il sistema, la
"pazzia", che Montanari osò nel 1902: egli, infatti, per la prima volta negli
annali del Reinach, assicurò alla compagnia Marchetti un introito serale netto di 450
lire! Una somma che pareva irraggiungibile: Marchetti rimase a Parma un mese, intascò
13.500 lire, ma l'impresario guadagnò di parte sua quasi 4.000 lire.
Dal 1893, in cui prese il teatro in gestione, Ugo Montanari aveva compreso che per
attirare il pubblico bisognava offrire spettacoli di livello. Dopo l'exploit della
compagnia Marchetti le assicurazioni aumentarono: ma se crescevano le qualità delle
compagnie scritturate, lievitavano in ragione geometrica anche gli incassi. I programmi
andarono assumendo sempre maggiore valore artistico, e il vecchio e popolare teatro, fino
allora quasi ignoto oltre le mura cittadine, diventò uno dei più importanti e reputati
nel genere.
L'orchestra era sempre formata da elementi locali, cosa di cui Parma non difettava certo,
essendo sempre stata una fucina di ottimi strumentisti. Normalmente si formava di una
quindicina di elementi cui, a seconda delle esigenze di qualche partitura, si aggiungeva
qualche strumento particolare, quale l'arpa. Negli anni d'oro che precedettero la prima
guerra mondiale, in casi eccezionali abbiamo trovato il numero portato a trentacinque
professori: erano tutti esecutori ben conosciuti in città, e i loro a solo erano oggetto
di plauso e richieste di bis, come le arie delle divette. Come sempre, non si deve però
generalizzare. Il Presente, una volta, nel 1881, rilevò che "i
professori d'orchestra, egregi sempre, collegati ai Forti, [erano] poco benevoli
ai Piani, nemici, a viso aperto, ai Pianissimi".
Dallo svolgimento delle stagioni, si rileva che era cura dell'affittuario del teatro,
ricercare l'alternanza tra i vari generi - opera, arte varia, prosa, operetta - al fine di
tenere acceso l'interesse nel pubblico. Normalmente non si presentavano di seguito due
compagnie dello stesso genere - nel nostro caso di operette - sia per evitare confronti
diretti, sia in quanto la base del repertorio era composta per lo più dagli stessi
titoli.
In genere era anche il gestore del teatro, che conosceva il gusto del pubblico, a decidere
il cartellone tra le operette che la compagnia aveva in repertorio. Comunque, se una di
queste faceva maggiori incassi rispetto a un'altra, si aumentavano le rappresentazioni
della favorita a scapito delle altre. Se incontrava infatti il gradimento del pubblico - a
meno non fosse stata acquistata in esclusiva - un'operetta entrava nel repertorio di tutte
le compagnie e veniva rappresentata fino a quando il pubblico non decretava la
cancellazione dal cartellone con il semplice astenersi dall'assistervi ulteriormente.
Furono soltanto alcuni spettacoli dalle qualita musicali o comiche eccezionali quelli che
sopravvissero per decenni. Questo sistema di un ampio cartellone, a differenza dell'opera
lirica, in cui la compagnia -salvo casi eccezionali di tournées - si riuniva in un teatro
per una o pochissime opere e, terminati gli spettacoli, si scioglieva, rendeva le
compagnie di operette "movibili" e con una forma di stabilità stagionale,
similmente a quelle della prosa o del teatro musicale di varietà e vaudevilles.
Si recitava ogni sera e soltanto ai primi di questo secolo si tennero, oltre alla
rappresentazione ordinaria, delle matinées che, malgrado il nome, iniziavano alle tre del
pomeriggio. Normalmente si cambiava spettacolo ogni giorno, o al massimo dopo due, mentre
le ulteriori repliche venivano riprese dopo qualche sera, per rendere possibile che negli
spettatori nascesse il desiderio di assistervi nuovamente. Non sempre, però, le repliche
erano gradite: nel novembre 1881, ad esempio, come si legge sulla Gazzetta di Parma,
"in una serata climaterica, il pubblico del lubbione", annoiato per l'ennesima Bella
Elena, già tanto applaudita, era ombroso. "Le grida si mescolavano ai fischi, e
questi a certe parole più o meno castigate e vereconde, che gli abitatori dell'aereopago
lubbionesco si tramandavano da una parte all'altra dei loro elevati scanni. Anche gli
artisti ridevano, e ridevano pure i delegati di P.S., le guardie di polizia e quelle
municipali...".
A differenza dei maggiori teatri lirici, quelli di second'ordine - come il nostro Reinach
- non godevano di alcuna dote. Questa - oggi sono chiamati contributi - all'epoca degli
stati preunitari, veniva elargita dai sovrani, in quanto il teatro costituiva uno degli
abbellimenti più prestigiosi di una corte. Unificata l'Italia, i Savoia depennarono dal
bilancio dello stato queste spese, addossandole, assieme agli edifici dei teatri, ai
singoli comuni: e, a Parma, ad essere dotato era il solo Teatro Regio.
Oltre a non dare nulla, lo stato pretendeva e tanto. E' quanto si può rilevare nel 1873,
in occasione della prima stagione di operette date al Reinach: il 4 marzo la compagnia
comunicò che, causa l'imposizione fiscale, dal successivo lunedi avrebbe sospeso le
rappresentazioni. Erano state richieste per ventiquattro recite 658 lire - 18 a spettacolo
- e questo dopo che la stagione era già iniziata da cinque giorni: il direttore della
compagnia ne offriva, invece, 300. L'accomodamento fu raggiunto - non sappiamo a quale
cifra - e la stagione poté proseguire per tutto il mese preventivato.
I prezzi del Reinach erano popolari: l'ingresso, all'inizio era di 80 centesimi, e dopo
quarant'anni si aggirava sulla lira, mentre si potevano acquistare con forti riduzioni
blocchetti di biglietti validi per tutti gli spettacoli della stagione. Il tarlo vorace
dell'inflazione cominciò a corrodere la moneta dopo la prima guerra mondiale.
Alla fine del secolo, come abbiamo rilevato dalla cronologia degli spettacoli del nostro
teatro, si andò sviluppando il fenomeno delle compagnie che, pur nel rispetto del sistema
dei ruoli, gravitavano attorno ad un'unica figura di interprete famoso: femminile (Emilia
Bertini, Luigia Severino, Clotilde Leoni, Amelia Soarez, Emma Vecla, Carmen Mariani, Gea
della Garisenda) o maschile (Giulio Marchetti, Aristide Gargano, Gino Vannutelli, Eduardo
Favi, Luigi Maresca) capace di attirare il pubblico con la garanzia rappresentata dal
nome. Questi era sovente anche il capocomico, cioè direttore o impresario, e l'intera
attività della compagnia - repertorio, arrangiamenti musicali e del testo, regia - era
funzionale alla valorizzazione della sua capacità artistica. Qualche anno dopo si nota
come alcune compagnie, pur continuando nell'attività di giro, ebbero la tendenza a
radicarsi alle maggiori piazze, delle quali sovente presero il nome: troviamo così attive
la Romana, Città di Milano, Città di Napoli, Città di Firenze e via dicendo, mentre,
specchio del tempo che andava evolvendo, furono gettate le basi di quella lega fra gli
artisti di operetta, che divenne benemerita per il miglioramento morale e materiale della
categoria. Nel 1911, per l'iniziativa di un ex corista, Gino Andrei, comparve al Reinach
un organismo proprio, la "Compagnia operettistica cooperativa n.1 sotto gli auspici
della Lega fra gli artisti d'operetta", che però fu travolta presto da problemi
interni.
Come abbiamo accennato, dall'apertura del teatro all'inizio della prima guerra mondiale,
le operette francesi prima, le austro-ungariche dopo, ebbero quasi il monopolio. Le altre
scuole nazionali di teatro leggero ebbero al Reinach una rappresentanza simbolica. Dalla
Gran Bretagna giunse il trionfo della Geisha di Sidney Jones, che ebbe il merito
di rendere celebre da un giorno all'altro il giovane autore della musica: al Reinach
ritornò un gran numero di volte e fu portata al successo da artisti quali la Gordini
Marchetti, una Mimosa San seducentissima, Pina Ciotti, una miss Molly indiavolata, e
Eduardo Favi, un Wun Hi passato alla storia del teatro operettistico. Dopo la prima
edizione, la Geisha lasciò la città - organini compresi - in balia della
romanza del pesciolino innamorato. Dalla Germania arrivò spesso La casta Susanna,
opera di quel Max Winterfeld, che aveva francesizzato il suo nome in Jean Gilbert; e anche
la Cecoslovacchia fu presente con Sangue polacco di Oscar Nedbal. Per
quest'ultimo paese, però, siamo in area danubiana, sotto l'influenza di quanto si era
andato sviluppando sotto l'Imperial Regio Governo di Sua Maestà Cattolica Francesco
Giuseppe. Se diverse zarzuelas - i portavoce spagnoli di questo genero chico o petit
genre, come preferite - furono presentate, una sola, quella di Chueca e Valverde, ebbe gli
onori del trionfo. I due autori videro la loro satirica Gran Via partire da
Madrid per fare il giro del mondo, fermandosi innumeri volte a Parma. Al Sior
Bornierba, rivista satirica cittadina, a conferma della popolarità raggiunta da
questa zarzuela, scrisse (n.4 del 1895), da cantarsi sulle sue arie, una lunga poesia
dedicata ai politici di "Monteciborio", dove il coro dei "deplorati",
diceva:
I cittadini attendono
Di noi l'operar
E noi passiamo il tempo
Invece a rubar.
Mentre l'operetta conquistava in Italia il favore popolare, e le produzioni
"d'Oltralpe grandinavano come un temporale d'agosto", erano sorti sempre nuovi
nuclei: oltre alla compagnia Bergonzoni Lupi (che, come abbiamo detto, fu la prima al
teatro Reinach di Parma), possiamo in un sommario elenco ricordare quella del romano
Eugenio Rotti, delle sorelle Tani, di Pietro Franceschini, di Odoardo Franzini (dove
iniziò la carriera Silvia Gordini Marchetti), di Raffaele Scognamiglio, di Crescenzio
Palombi (trasformatasi nella "operettistica Magnani"), di Gennaro Caracciolo
(poi amministratore della compagnia Maresca Garisenda Caracciolo), che annoverò tra i
suoi interpreti Maria Meyer, Angelica Landi, Giuseppina Gordini Marchetti, Orestino Grossi
e quel maestro Paolo Balsimelli, che si arricchì con questo genere artistico.
Degna di menzione particolare fu la compagnia di Luigi Maresca, che ebbe il merito di
mettere in scena la prima operetta veramente italiana, I granatieri (1889). Al
suo primo apparire era stata un fiasco, ma Maresca ritoccò, "rimpolpettò", il
libretto e riabilitò il lavoro. Il napoletano Vincenzo Valente fu l'autore della musica
di questi fortunati Granatieri, lavoro che, pur contenendo pagine ispirate alle
nostre più calde melodie meridionali, per grazia, dignità di forma e arguzia
impertinente, per il soggetto trattato e per la forma con cui il tema veniva svolto,
ricalcava modelli francesi. Quasi fosse una tradizione, spesso questi Granatieri
vennero rappresentati al Reinach in occasione delle feste nazionali o del genetliaco dei
sovrani.
Un altro lavoro italiano di innegabile qualità artistica fu un'operetta di Mario Costa,
quel compositore, come scrisse Salvatore Di Giacomo, "al quale si devono autentici
capolavori del genere ed esemplari di musica popolare d'un gusto e d'una genialità non
superate, nemmen, forse, superabili". La sua squisita Histoire d'un Pierrot (presentata
per la prima volta al Reinach nel 1897) trionfò in tutti i teatri e gli aprì la strada
negli anni seguenti ad altri lavori di grande successo, quali Il re di Chez Maxim,
e Scugnizza.
I primi del secolo concessero grandi favori all'epigono di quella famiglia di musicisti
parmigiani, Luigi Dall'Argine, di cui abbiamo già incontrato Costantino, il padre. Anche
se Luigi non era nativo di Parma, le cronache locali gli attribuivano la qualifica di
concittadino. Seguendo l'abitudine del genitore, anche lui, dopo aver guadagnato cifre
impressionanti con le sue operette, ebbe l'abilità di morire disperatamente povero.
Eppure fu anche direttore d'orchestra di primarie compagnie e la sua operetta Dall'ago
al milione (1904), con migliaia di repliche, fu oltremodo popolare. "Chi non
rammenta la patetica barcarola che ha dato al tenore Polisseni una specie di
celebrità?", scriveva un nostalgico di questo genere di spettacoli...
Circa gli altri autori italiani c'è poco da dire: come furono impietosamente definiti,
non erano che, "una pleiade di strimpellatori dilettanti (e i dilettanti in musica
hanno sempre un'audacia da far spavento) che sulle loro scarse battute adagiavano la
poesia dell'amico di ufficio, innalzato a librettista per l'occasione". Basta leggere
i commenti ai singoli spettacoli nella cronologia. Di una rappresentazione della Principessa
Riccardo di Teobaldo Belleville, data nel maggio 1885, il Presente
riportava: "Nel complesso una completa scipitaggine: di voce, di metodi di canto,
d'intonazione d'artisti non mette conto parlarne, che non ci si deve attendere nulla. Si
va a questo genere d'operetta, che non ha neppur pregi di musica, per vedere delle belle
donne e poco coperte cantanti con le gambe e coll'anche, e sotto questo punto di vista lo
spettacolo corrisponde anco alle maggiori esigenze". Eppure, a mettere in scena
l'operetta era una delle primarie compagnie italiane, che faceva capo a un'altra di quelle
famiglie del teatro di evasione, cui i membri si dedicavano in massa, i Gargano.
Dal 1890 al 1900 si può dire che sia stato il periodo di incubazione dell'operetta in
Italia, di quell'operetta considerata ancora non come arte, ma come "catalogo di
gambe ignude" e di lazzi pornografici. Vi erano però anche buoni cantanti, con belle
voci, discreta scuola, che sapevano recitare con dignità, al punto che nelle tournées
nelle Americhe queste compagnie poterono alternare Il duchino con la Cavalleria
rusticana, Fanfan la Tulipe con la Carmen: quello che sciupava il
tutto e toglieva la dignità dell'arte era ancora la comicità, intesa come esigenza di
fare ridere ad ogni costo. Questa, come abbiamo già accennato, faceva parte del
patrimonio genetico dell'operetta italiana: se quelle francese e danubiana erano una
derivazione dell'opera, nel nostro paese, cacciata proprio dall'opera nella suburra,
riconobbe i suoi natali nei vaudevilles (vedi anche le prime compagnie che agivano al
Teatro Reinach) in cui erano si presenti prosa, canto e ballo, ma dove predominante era il
buffo, in una veste molto più accentuata di quanto non fosse nell'opera settecentesca, di
comico con una recitazione brillante e una mimica vivace. Così, se l'operetta al di là
delle Alpi privilegiava sia ad ovest che ad est il tenore comico, il nostro buffo, l'eroe
dello spettacolo, fu influenzato dal retaggio di quei "buffi di sala" di origine
napoletana, che nella recitazione mettevano in primo piano i tratti fortemente
caricaturali.
Nel teatro d'operetta italiano, nel quale le parti cantate erano così sacrificate a
scapito dei ruoli brillanti, più che il grande tenore o baritono occorreva l'attore
brillante: fine dicitore, mimica facciale, comica, bella pronuncia, uso intelligente e
discreto della voce, truccatura, costumi, possibilmente un bel fisico, queste le
caratteristiche. Non doveva somigliare a nessun altro, né ricordare altri: doveva avere
una figura a sé, poeta o musicista per sapere adattarsi il suo repertorio, autodirettore,
in quanto non era diretto da nessuno: più si palesava nuovo, più sorprendeva, più il
suo successo era clamoroso. La tecnica non si poteva improvvisare: era il risultato di uno
studio lungo, abbinato a grande sensibilità, e con questa poteva supplire anche a
eventuali deficienze di estensione o di timbro della voce.
"Una pausa sottolineata da un'occhiata, da un atteggiamento, un passo che accennava
fugacemente a un motivo di danza, e che continuava il ritmo della strofa interrotta, una
improvvisa sospensione, una accentuazione a sorpresa, tutto concorreva al segreto della
tecnica. Rivelarla questione di un attimo: possederla questione di anni". Così, nei
suoi ricordi, una divetta del teatro leggero.
Come contraltare a questa descrizione dello sforzo per migliorarsi, vogliamo riportare la
critica di un benpensante, l'invettiva di uno di quei moralisti che nelle loro espressioni
risultano più volgari degli spettacoli stessi da loro esecrati. L'autore era Francesco
Giarelli, e l'articolo era intitolato al plurale, dedicato cioè a tutte Le divette
fin de siècle: "E' l'attrazione universale, il dadà di tutti i buongustai, il
soggetto ricercato da tutti gli specialisti della gioia di vivere. L'artista che manda
ogni sera in visibilio il pubblico che applaude, urla e bramisce di concupiscenza, come
una belva in amore. [..] Ma appena questo soprano da operetta comincia a cantare,
intonata, sicura, tempista, ci si sente la rivelazione. Essa dice le sue canzonette,
insuperabilmente. Le sue reticenze, i suoi doppii sensi, i suoi giuochi di parole salgono
e scendono per la scala pericolosissima che dalla lascivia s'alza all'epigramma. Essa non
soltanto dice: ma s'incorpora con i suoi couplet e dà a questi una espressione plastica
mai più veduta. Essa è monocorde: sgualdrina. Poco monta riferiscansi ad un fatto
qualunque. Essa li canta: e i versi diventano l'espressione d'una sensualità illimitata.
I vizi passano musicalmente dalla sua gola alle sue labbra, effondendosi come il rauco
grido delle meretrici in funzioni. E la manifestazione dell'arte spiega tutto, perfino il
cinismo delle signore oneste che si bevono cogli occhi e colle orecchie tutto quel
concimaio ritmico e cadenzato. Dopo il can-can delle gambe, il can-can dell'ugola".
L'aver citato poc'anzi la famiglia Gargano, ci dà agio di dare un'occhiata su quella che
era la struttura di queste compagnie che agirono fino a tutto il secolo XIX. In genere la
carriera degli interpreti fu quella tipica degli appartenenti a una dinastia minore del
palcoscenico: con genitori, zii, cugini, fratelli, dei quali è impossibile ricostruire
certi alberi genealogici. Se, infatti, visto a distanza e illuminato dalla ribalta, il
palcoscenico aveva delle attrattive irresistibili - sete, velluti, argenti, dorature: di
tutto per l'occhio - per restarci sopra senza esserne sbalzati fuori, bisognava possedere
una forte fibra: forte per l'attacco, fortissima per la difesa. Alle difficoltà proprie
della vita dell'ambiente, non si poteva opporre che il coraggio. Assieme la lotta poteva
sembrare più facile da sostenere: di qui il matrimonio tra colleghi e le numerose
presenze di familiari. E i bambini, nati si può dire dentro una valigia, cominciavano a
mangiare la polvere del palcoscenico, presentandosi di volta in volta come comparse,
membri di coretti, in piccoli numeri di ballo, in particine di due parole: il teatro
forniva apprendistato, scuola, formazione. Lo scambio fisico tra spettatore e attore era
diretto, e in quest'ultimo richiedeva fiuto della situazione e degli umori del pubblico,
intelligenza, gusto dell'improvvisazione. Per fare l'operetta bisognava saper fare tutto:
si cantava, si ballava, si recitava, si raccontavano freddure, e lo si doveva far bene.
L'attore, e in particolare il comico e la soubrette, la prima cosa che doveva avere era la
comunicativa: senza di questa non c'era modo di far strada. La prova del fuoco era
costantemente una, il pubblico. Se questo si agitava, rumoreggiava, non si divertiva, non
applaudiva o, peggio, fischiava, se qualcosa non funzionava, se qualche motivo musicale o
balletto non piaceva, bisognava saper correre ai ripari. E subito, dentro allo spettacolo
stesso. L'esame non ammetteva riparazioni tardive: era spietato e gli spettatori - in
particolare quelli ruspanti del Teatro Reinach - se potevano a volte perdonare, spesso
sembrava godessero nel distruggere nel momento stesso che si annoiavano. A questo punto
l'attore doveva essere in grado di cogliere l'occasione imprevista, insistendo
sull'effetto riuscito: doveva ad ogni costo evitare che gli spettatori giudicassero lo
spettacolo "da fischi". Così, chi era abile, non si perdeva per strada, aveva
fortuna, con gli anni affrontava parti sempre più impegnative, in compagnie sempre più
prestigiose, in un genere di teatro che non aveva alcun segreto per lui: e, alla sommità
della piramide, c'era l'arrivo al vertice di una compagnia propria, dove ancora si
circondava di fratelli, figli, nuore, nipoti...
Come per una coincidenza, ma è nella Gazzetta di Parma di uno stesso anno, il
1927, che abbiamo trovato la notizia di una di queste nascite "nella valigia" e
del debutto di due figlie d'arte. Il 2 dicembre si legge della festa del battesimo di
Amelia Enrichetta Corsi, figlia del direttore di scena della compagnia ISAPLIO, che in
quei giorni lavorava al Reinach: padrini due artisti, alla festicciola tutti gli artisti,
regali dagli artisti, brindisi pronunciato da un artista... A giugno, invece, il grande
Renato Trucchi aveva tenuto per mano al debutto la figlia Ninì nella Principessa
della csardas: la giovanissima artista venne giudicata promettente e incoraggiata dal
pubblico, tanto che dovette concedere il bis di un balletto assieme al padre. Ad aprile
sulle stesse pagine si era parlato di una giovanetta ormai soubrette: Lina Pietromarchi.
Il padre, il cav. Pietromarchi, l'aveva mandata a studiare ragioneria a Roma ma, dopo il
diploma, l'aveva "presa con sé a peregrinare pei teatri. Cominciò a recitare parti
secondarie, a supplire l'assenza di qualche artista, ad abituarsi al palcoscenico e alla
presenza del pubblico nereggiante e silenzioso...". Poi il volo. Ma succedeva anche
dell'altro: il Corriere emiliano del 17 novembre 1931 titolava un dettagliato
articolo Un romanzo d 'amore nato tra le quinte: la figlia del capocomico Achille
Maresca ed il suo rapitore arrestati a Milano. Nulla di nuovo sotto il sole: la
quindicenne Lidia era stata sedotta dall'amministratore della compagnia Giuseppe Ticozzi,
e questi, prima di fuggire con l'avvenente fanciulla, aveva fatto di tutto per lasciare
dietro di sè una scia di reati: abbandono del tetto coniugale, vuoto di cassa nella
compagnia, seduzione di minore, debiti insoluti...
Questa digressione ci impone altresì una doverosa rievocazione di alcuni di quei
personaggi, ormai dimenticati, che illuminarono quel mondo dell'operetta e calcarono le
tavole del nostro teatro.
Come non ricordare "la bionda ed opulenta bellezza" di Pina Ciotti,
che nella Statua di Venere (1898) suscitò applausi clamorosi ed entusiastici,
nonché richieste di bis, non appena si presentò vestita... da statua di Venere.
In proposito è bene ricordare che nel teatro leggero si distinguevano due generi
di consenso: l'applauso di bravura e l'applauso di bellezza... Pensiamo non
ci siano dubbi a quale categoria appartenesse quello che salutò l'esibizione
della bella Pina.
D'altronde al pubblico del Reinach, nell'esprimere sia il dissenso come il consenso, non
difettava certo la fantasia se, "acceso a fanatico entusiasmo" dalle procaci
forme e dalla caduta dei veli di Zaira Pier Tiozzi in una recita di Frine (1883)
"il loggione rigurgitante e più del solito disturbatore e screanzato" aveva
chiesto ad alte grida, e ottenuto, l'esecuzione della Marcia reale e dell'Inno
di Garibaldi! Quanta poesia! Come sono cambiati i tempi! Chi chiederebbe adesso l'Inno
di Mameli per onorare l'Italia, madre prolifica di tante grazie muliebri!
Per concludere sull'atmosfera calda del nostro teatro, vogliamo ricordare un'appartenente
a quella famiglia Tani che dette all'operetta tanti dei suoi membri: Adelaide, indicata a
volte come Adelina. In una recita della Pianella (1882), il sipario dovette
calare prima del termine dello spettacolo per il dissenso espresso sonoramente. La sera
dopo la signora in questione, alludendo alla contestazione, rivolta al pubblico,
pronunciò delle insolenze, ricevendo in cambio delle bordate di fischi: tutto finì lì.
Alla rappresentazione del giorno seguente, il "rispettabile" pubblico e l'
"inclita" guarnigione iniziarono la fischiata non appena si alzò il sipario. La
Tani, ottenuto un po' di silenzio, chiese cosa volessero: le fu risposto che si esigevano
delle scuse. Al diniego della donna successe un finimondo, che coinvolse gli spettatori
gli uni contro gli altri. Il delegato di P.S. dovette letteralmente trascinare via
l'artista dal palcoscenico, e fece calare il sipario. Fatta sgomberare la sala, il
pugilato generale continuò fuori del teatro. Per non compromettere l'esito della
stagione, il direttore, un altro Tani, Gaetano, chiese scusa e mise in scena spettacoli in
cui non compariva l'orgogliosa familiare: e la sera seguente lo spettacolo fu applaudito
cordialmente, come se nulla fosse avvenuto.
Procedendo a caso tra i nomi degli interpreti che fecero divertire il pubblico
dal palcoscenico del Reinach, non possiamo dimenticare quel brillante buffo,
tarchiato e un po' obeso, che fu Luigi Maresca: pimentava le sue interpretazioni,
davvero divertenti e spiritose, di così temerari doppisensi, da far arrossire
anche un mazzo di papaveri; e quando qualcuno gli chiedeva maggior moderazione,
rispondeva: "Perché? una ragazza veramente ingenua non li capisce
ed é come se io non avessi detto niente. Se invece ride perché ha capito, non
può offendersene ed é ancora come se io non avessi detto nulla".
E come ignorare il più famoso di quella sterminata famiglia dei Trucchi, quel
Renato, del quale abbiamo poch'anzi accennato, i cui duetti comici venivano
sempre, come minimo, bissati? i suoi falsetti e sgambetti mandavano il pubblico
letteralmente in visibilio... Ancora un buffo rimasto nei ricordi fu Cesare
Gravina, apparso sulle scene del Reinach in quel Flik e Flok, di cui
il gran galop, che porta il titolo dell'operetta ballo, è ancor oggi una delle
marce d'ordinanza dei bersaglieri: magro e allampanato, riusciva a imprimere
ai suoi personaggi un tono grottescamente caricaturale che portava alla richiesta
reiterata di bis da un pubblico mai sazio.
Abbiamo aperto questa carrellata assolutamente incompleta degli interpreti che
illuminarono le notti del Teatro Reinach con Pina Ciotti, per trattare anche
degli strettissimi legami e degli interscambi degli artisti dell'operetta con
l'opera lirica da una parte, con il café chantant dall'altra: anche in questo
caso l'elencazione è meramente indicativa, da considerarsi a mo' di esempio.
Se tra i direttori d'orchestra possiamo ricordare Umberto Berrettoni e Vincenzo
Bellezza, che salirono sul podio iniziando con l'operetta, tra i cantanti vi
furono Luisa Tetrazzini, Riccardo Stracciari, Florica Cristoforeanu e "la
donna più bella del mondo" Lina Cavalieri, mentre il percorso inverso -
dall'opera alla piccola lirica - fu quello di Guido Agnoletti ed Emma Vecla.
Avvenne in particolare in quell'epoca d'oro che precedette la prima guerra mondiale,
in cui la lirica annoverò un grande numero di diserzioni, anche per soddisfare
alle esigenze della produzione della scuola viennese che aveva bisogno di soprani
e tenori che, oltre ad essere piacevoli e briosi, disponessero di una voce bella
ed educata. Dall'altro lato, il legame più significativo dell'operetta con il
café chantant è rappresentato da Pina Ciotti: "bionda e bruciante",
proveniva da una famiglia di ottimi artisti d'operetta. "Intelligente,
simpatica e valorosa artista, con la sua civetteria birichina e affascinante"
era stata una stella del café chantant, abbandonato per l'operetta, cui dette
gli anni migliori della sua fortunata carriera di prima donna brillante. Ritornata
al varietà, i successi - da sola o con il fratello Arturo - restarono negli
annali dei Saloni Margherita di Roma e di Napoli, e dei locali più prestigiosi
di tutta Italia.
Un cenno merita la terminologia che indicava le artiste che si esibivano in questi locali
tipici della belle époque: se cantante "di voce" o "romanziera" era
quella che interpretava romanze, la "eccentrica" si esibiva in canzonette; la
"eccentrica a trasformazione", era colei che disponeva di una toletta da
cambiare a ogni numero, mentre "sicaliptica" non era altri che la ballerina che
danzava a piedi nudi... mentre, tutto intorno, ruotava a corona uno stuolo di prosperose
figlie del popolo che, nell'assai frequente caso di "incertezza dei mezzi vocali,
sopperiva con ricchezza di sorrisi affascinanti, di turgidi seni, di abbondanti
natiche".
A cavallo tra i due secoli, l'operetta vinse in Italia la sua battaglia: e questa
affermazione porta un nome, quello di Giulio Marchetti. Anche la rivista di
casa Ricordi, Musica e musicisti, nel 1903 e 1904 gli dedicò degli
articoli, riconoscendo che la sua compagnia era "indubbiamente quella che
con più assidue cure si studiava d'elevare la gaia scena al rango che le competeva,
cioè allo splendore, alla dignità dell'arte".
Di cognome Ascoli, ebreo, di educazione signorile, autodidatta ma artista nel
vero senso della parola, si era formato - tredicenne - alla scuola della compagnia
Grégoire, che suo fratello aveva scritturato al Teatro Goldoni di Ancona. Deciso
a continuare nella lirica leggera, aveva iniziato il tirocinio nella compagnia
di Bruto Bocci. Alto e slanciato, nella vita come sulla scena non abbandonava
mai il monocolo, che portava appeso a un cordoncino, e con il quale giocherellava
di continuo. La genialità con la quale creava i suoi tipi e le terribili freddure
che spesso inventava sul palcoscenico, lo fecero apparire uno degli artisti
più singolari del tempo e non soltanto nell'operetta. Pur avendo scremata l'operetta
delle volgarità, che tanto piacevano alla plebe, qualche volta doveva ardire
dei doppisensi, ma sempre in maniera velata, tra il dire e il non dire. A ogni
atto era solito mettere un garofano bianco all'occhiello e, quando doveva pronunciare
una battuta un po' scabrosa, lo sfilava e faceva le mosse di fiutarlo, soffocando
tra i petali le espressioni censurabili, per tornare poi a rimetterlo al posto.
Il fiore non durava molto a forza di essere messo e levato così doveva essere
cambiato ad ogni atto...
Postosi a capo di una compagnia, dismise dal repertorio le cose abusate, le
sostituì con meno note, ma non meno gustose, patrocinò l'adozione di uno spirito
scintillante, scevro di scurrilità, fu nel contempo direttore, attore, collaboratore
con gli autori, conseguendo da questa intensa attività lo scopo di conferire
all'operetta la dignità dell'arte. Questo generò una simpatia spoglia di diffidenza,
e dimostrò a poeti e musicisti, che avevano sempre sdegnato il genere, che anche
questa forma di spettacolo poteva riuscire un gioiello. Volle dare un senso
letterario, un soffio di poesia, un carattere di umanità alle operette del suo
repertorio e le fece tradurre nuovamente da colti uomini di teatro: La bella
Elena ebbe un nuovo libretto ad opera di Gustavo Macchi, La ducbessa
di Danzica da Renato Simoni, Il sire di Vergy da Ettore Moschino,
La granduchessa di Gérolstein da Augusto Novelli e rinnovò Boccaccio
collaborando con Augusto Novelli, dopo una attenta serie di letture sulla
vita, gli usi e costumi di quei tempi. Perchè gli stili fossero nel contempo
rispettati e regnasse l'armonia, commissionò i costumi a Caramba, formando un
insieme omogeneo ed equilibrato. Circondatosi dei migliori artisti, li rese
consci che erano attori e non buffoni, incoraggiandoli a comprendere le nuove
esigenze.
Nel timore di non poter reggere la concorrenza delle nuove compagnie del potente
gruppo milanese Suvini Zerboni, Marchetti nel 1907 vendette tutto alla Società
Teatrale Internazionale, la STIN di Roma, che faceva capo a Walter Mocchi, rimanendo
nella compagnia, che prese il nome di Caramba Scognamiglio, con mansioni direttive
e artistiche. Ebbe così come sfera d'azione i maggiori teatri italiani, specialmente
il Teatro dell'Opera di Roma e quelli sudamericani, che erano collegati alla
società. Nei 1915 si leggeva sulla Gazzetta di Parma che Giulio Marchetti,
non più sulle scene del Reinach dal 1907, sarebbe ritornato assieme alla moglie
Silvia Gordini, avendo accettato per un triennio la direzione della compagnia
Mauro. L'auspicio non ebbe il tempo di concretizzarsi, essendo il grande artista
deceduto il 21 aprile 1916 a Firenze.
Nel 1907 la società Suvini Zerboni, proprietaria di una catena di teatri di
Milano, tramite Francesco Ambrosini aveva creato due compagnie di operette stabili,
la Città di Genova e la Città di Milano, che stupirono per la ricchezza delle
scene (Rovescalli), dei costumi (Caramba) e la rilevanza artistica del cast.
Comprendendo di non poter competere, Marchetti aveva così messo al sicuro il
suo capitale con la cessione dell'impresa, ma le due nuove compagnie ebbero
una breve esistenza: dopo essere costate oltre un milione, nel 1913 vennero
vendute per 130.000 lire... Ebbero però il merito di aver portato a maturazione
i germi dell'operetta italiana piantati da Marchetti. Tra questi non si può
dimenticare di citare Turlupineide, la più gaia, perfetta, ingegnosa,
delle operette-révues italiane, che rese di Renato Simoni un maestro largamente
imitato, mai raggiunto.
Nella stagione 1909 la compagnia Città di Genova portò a Parma questo spettacolo, che
aveva tenuto le scene del Costanzi di Roma (così si chiamava il grande Teatro dell'Opera)
per due mesi di continui tutto esaurito. Pur essendo presentata sotto forma di operetta,
in questo caso si deve parlare di un pastiche satirico, antesignano delle grandi riviste
in voga fino a qualche anno fa. Renato Simoni, già acclamato autore di commedie, riversò
in quel copione tesori di spirito: non mancava nulla, dagli scandali romani nella
costruzione del palazzo di giustizia e del Vittoriale, alla politica della destra moderata
e cattolica, alle femministe agitate, da Gabriele D'Annunzio, che si faceva spolverare la
marsina dal suo cameriere e ammiratore Dante Alighieri, e che contendeva a Mascagni i
favori della Réclame, a Toscanini, a Filippo Turati, vate del socialismo e difensore dei
diritti della classi lavoratrici, che cantava:
Tutti i giorni a casa mia
Dalle dodici alle otto
Nel bel mezzo del salotto
Splende il sol dell'avvenir!
Nella musica c'era di tutto, ed era un brillante arrangiamento di brani delle operette
più famose, di canzonette da café chantant, fino alle arie da salotto, quali La mia
bandiera di Rotoli.
Circa l'esecuzione del Reinach, come si può leggere nella parte del libro riservata agli
spettacoli e alla loro cronaca, essa occupò a lungo gli spazi sulla Gazzetta,
per la diversità di opinioni che stimolò le penne dei parmigiani.
Un inciso: Giovacchino Forzano scrisse nelle sue memorie che al congresso socialista
di Imola di quell'anno certo Benito Mussolini attaccò violentemente i dirigenti,
accusandoli di aver ridotto il partito così in basso da permettere a due scrittori
- Simoni con Turlupineide e Forzano con Monopoleone - di far
ridere il pubblico alle spalle del partito e seguitò con violenti epiteti nei
riguardi di questi autori. Forzano, molto giovane, chiese a un collega giornalista
che seguiva il congresso di sfidare a duello, "chiedere soddisfazione a"
Mussolini. Ma la risposta dell'amico fu: "Ci sono stato, non é il caso,
si tratta di un esaltato senza seguito".
Spiace dover qui sottolineare che Forzano pubblicò queste memorie nel 1957, dopo che era
stato uno dei cantori ufficiali del regime fascista, dal quale aveva lucrato immeritati
fastigi, essendo grandemente stimato da Mussolini, con il quale aveva collaborato alla
realizzazione di due film e alla commedia Cesare. Riguardo a questa, Ciano
scrisse che era un lavoro francamente brutto "e poi anche l'adulazione è un'arte che
si deve praticare con misura. Forzano, invece, la misura l'ha dimenticata del tutto".
Essendosi fatte molte amicizie - di quelle buone - alla caduta del fascismo continuò a
vivere indisturbato, godendo dei frutti del suo mestiere. Un particolare: era nato nel
1883, lo stesso anno di Mussolini, e caso volle che, quando morì nel 1970, fosse il 28
ottobre.
In questi anni, anche se ancora era ben viva sulla nostra scena con i grandi autori della
generazione precedente, la nuova scuola operettistica francese fu relativamente poco
presente al Reinach: comparvero sì André Messager, Louis Ganne e Claude Terrasse, che
pur altrove mietevano successi: di quest'ultimo è da ricordare, quale rappresentante
delle operette della belle époque, quel Sire di Vergy, arguta operetta parodia,
tradotta in italiano da Moschino. La scuola danubiana regnava adesso incontrastata.
3. Nei paesi di lingua tedesca, e soprattutto in Austria, il gusto dell'operetta se per
alcuni si basa su di una tradizione finissima, che derivava dal Singspiel, e vantava
precedenti che si chiamavano nientemeno Il ratto del serraglio o Il flauto
magico, per altri è una derivazione dell'inesauribile repertorio di danze e marce,
creazione autoctona e collettiva, di cui Suppé e gli Strauss fecero arte: leggera,
piacevole, carezzevole. Comunque fosse, quello che è certo è che i cantanti studiavano
anche una vera e propria arte di recitazione, e nel passaggio dal canto alla prosa non si
riscontrava alcuna caduta di tono e di stile. Questa educazione alla melodia spontanea e
non stilizzata dell'operetta, fecero sì che La vedova allegra o Il
pipistrello (quest'ultimo mai eseguito a Parma) potevano essere presentati in quei
teatri nel cartellone a un livello di parità con le opere di Mozart ed erano interpretati
da esecutori e direttori d'orchestra di fama mondiale: basti dire che una ripresa del Pipistrello
venne diretta da Gustav Mahler (Amburgo, 1894). Se si suole considerare Der Pensionat dell'istriano
Franz von Suppé (1860) la prima operetta viennese, o quantomeno La bella Galatea dello
stesso autore (1865), che aveva trasferito a Vienna il divertissement dissacrante della
mitologia, tipico della parodia di Offenbach, lo scettro era stato però preso subito da
Johann Strauss jr, il già famoso re del valzer.
Per alcuni fustigatori di costumi, anche il valzer, imperante in queste operette, era da
considerarsi peccaminoso, e Scena illustrata del I dicembre 1894, per avvalorare
questa tesi, si rifece addirittura a quanto Thoinot Arbeau avrebbe scritto nel 1858 su
questo ballo nato in Francia: "Dopo aver girato per quante cadenze vi piacerà,
ricondurrete la dama al posto ove ella, per quanto si sappia contenere, sentirà il
cervello ardere, proverà vertigini e giracapo, e voi certo non meno di lei. Vi lascio
considerare se sia cosa conveniente per una giovanetta fare grandi passi, ed aprir tanto
le gambe, e se in questa danza l'onore e la salute non sieno azzardati e
pericolanti".
Bagnandosi nel bel Danubio, l'operetta aveva però cambiato fisionomia: il valzer,
girandola di morbidi motivi, non escludeva la comicità, ma la costringeva a sposare il
sentimento. La comicità era edulcorata, rinunciando alle frecciate ironiche e alle
furbizie allusive. L'imperial-regio cattolicissimo perbenismo non ammetteva riferimenti
diretti alle infedeltà coniugali, alle malefatte dei politici, alle meschinità dei
moralisti, agli eroi di cartapesta, a tutti quei tronfi personaggi, contro i quali Jacques
Offenbach e i suoi eredi avevano appuntato gli strali. "Nessuna traccia delle
raffigurazioni al cianuro, come dei risvolti acidi di Meilhac e Halévy: a Vienna i
libretti erano lampanti", - ha scritto Bortolotto - sempre gli stessi, al punto che
prese piede la leggenda che Strauss avesse composto Una notte a Venezia, senza
averne nemmeno letto il libretto.
Contribuirono al successo dell'operetta austriaca vari Strauss, fossero essi
con due s al termine del cognome, o con una sola. Tra i primi, con Johann jr,
autore fra l'altro dello Zingaro barone, si segnalò Joseph - l'anima
più delicata del valzer viennese - padre di quella Primavera scapigliata
dalle cinquecento repliche consecutive a Vienna, mentre, con una sola s, vi
fu Oscar Straus, compositore di quell'incantevole Sogno d'un valzer.
Nella stagione successiva a quella dell'arrivo della Vedova allegra,
Maurizio Parigi portò a Parma il Sogno d'un valzer (2 giugno
1910), un altro dei capolavori su cui questo genere di operetta fondò la sua
fortuna. La traduzione italiana del titolo non era esatta, in quanto avrebbe
dovuto essere La vita non è un sogno di valzer: era, però, molto più
accattivante dell'originale. La prima al Reinach, per quegli arcani motivi propri
della storia delle rappresentazioni teatrali, non raccolse quel successo che
aveva mietuto in tutti i palcoscenici del mondo. Dalla seconda, però, l'esito
fu strepitoso, e il pubblico ritornò ogni volta fosse possibile, per anni, a
riudire questo valzer: "Ma quale valzer? Quale? se l'operetta è tutto un
valzer da cima a fondo?", aveva scritto Il Messaggero di Roma
il 21 luglio 1909. La patetica e arcadica storia si snodava tutta sul morbido
ritmo di questa danza, e i suoi motivi divennero subito popolari...
Laggiù nel silente giardino...
La musica, fresca ed elegante, era amabile e divertente, e il pubblico di Parma,
ricredutosi della freddezza dimostrata nella prima, fu prodigo in applausi e richieste di
bis: se fosse stato per lui, tutta l'operetta sarebbe stata replicata.
Un inciso: sembra una nemesi, ma uno dei massimi campioni del nuovo stile sereno,
sorridente, ottimista, Carl Zeller, l'applaudito autore di quel gioiello che è Il
venditore di uccelli, finì tristemente i suoi giorni dopo una segregazione in
carcere per aver prestato falso giuramento in una causa di eredità. Al Reinach anche Il
venditore di uccelli ebbe notevole fortuna, e fu presente per una quindicina d'anni
in diversi allestimenti. 1l pubblico gradiva sempre quel dolce tema che cantava:
Usignol, usignol, usignol
canta ancor, canta ancor...
Della scuola viennese, tra gli autori delle operette rappresentate al Reinach,
vi fu anche Edmund Eysler, che ebbe tra i suoi successi quell'Amor di principi,
il cui titolo originale era Püfferl; Leo Ascher con Sua altezza
balla il valzer, Carl Weinberger con La signorina del cinematografo;
Carl Ziehrer con I vagabondi e Walzer d'amore, e Leo Fall
con La principessa dei dollari.
Dall'Ungheria, se venne Emmerich Kalman con La contessa Maritza, ricca
di estri felicissimi e di preziose ricerche armoniche, una vera rivoluzione
fu portata da Franz Lehar, con quella Vedova allegra, che si impose
fin dal primo apparire nel 1905, ottenendo subito migliaia di repliche in tutte
le lingue del mondo. Lehar era un compositore assai provveduto e, tra l'altro,
sapeva anche operare con discernimento sulla scelta dei soggetti da musicare.
Alla Vedova allegra così fecero corona gli altri successi di Donne
viennesi, Il conte di Lussemburgo, Eva, Frasquita,
Paganini.
Anche se nei walzer non si riscontra il brio straussiano, la melodia di Lehar possedeva un
fascino inconfondibile: e se mancava il potere di coinvolgimento ideale nella danza
sfrenata, vi era in suo luogo - scrive il Passeri - "la fascinosa malìa di un
avvicinamento più penetrante, di una suasività più avvolgente, di un affinamento
poetico più rilevante". Presentata al Teatro Dal Verme di Milano dalla compagnia
Città di Milano, venne stroncata dalla critica, ma dopo quindici giorni tutta Italia ne
cantava i motivi e tutti i teatri la chiedevano con insistenza. Attesa come fosse la più
famosa delle opere liriche, tanto che la Gazzetta le dedicò per giorni articoli
su articoli, la stagione autunnale del 1909 portò per la prima volta a Parma questa Vedova
allegra, che segnò la vetta più elevata raggiunta dalla scuola danubiana. Caramba,
"il mago dei costumi" dagli esordi goliardici di Torino ai fastigi della Scala,
in questa occasione si dimostrò anche fortunato impresario. Aveva rischiato molto - si
dice 35.000 lire - ma aveva acquistato i diritti per l'Italia di quest'operetta, che si
sarebbe trasformata in un fiume d'oro: oltre che proprietario della musica e del libretto,
impegnando tutti i suoi beni, aveva fornito i costumi e curato anche la regia. Il cronista
della Gazzetta scrisse che la fortuna, di cui l'operetta godeva, era paragonabile
soltanto a quella della Geisha. La Compagnia Città di Genova, che la
rappresentò al Reinach, era una delle migliori sulla piazza. La sera della prima (in
questa stagione anche i prezzi furono fuori dall'ordinario) segnò anche un successo
mondano: il pubblico, tra i più eleganti e ricchi, affollò il teatro in ogni ordine di
posti e tributò un trionfo allo spettacolo: la squisita veste musicale sollevò continui
mormorii di ammirazione e compiacimento, applausi scroscianti e infinita richiesta di bis
"dei brani più salienti, che farebbero ballare i morti, delle canzoni, dei duetti,
che molte opere serie potrebbero invidiare": pochi, però vennero concessi. Da allora
l'operetta ritornò a Parma in un gran numero di edizioni e con le compagnie più
svariate.
Anna Glavari giunse all'Edison di Parma in versione cinematografica nel 1927, messa in
scena dal più raffinato regista, Erich von Stronheim, con John Gilbert e Mae Murray. In
quel cinema si usava un proiettore con motorino monofase con una cinghia di cuoio e una
resistenza per regolare la velocità e l'operatore Zinelli, con non poca abilità, riusci
a regolare le immagini con il tempo del valzer, ottenendo gli applausi del pubblico e del
maestro Saccardi, che dirigeva l'orchestra in sala.
Tra le altre operette di Lehar, abbiamo teste ricordato Donne viennesi,
che fu presentata a Parma nel 1913 da Gea Della Garisenda. Il critico rilevò
il buon successo derivante dalla musica "combinata qua e là con
una certa abilità", come pure dall'azione che scorreva facile nell'alternanza
comica e sentimentale. Notava nel contempo la mancanza di novità del soggetto,
ma specialmente che "queste nuove operette viennesi per la veste musicale
avevano finito per assomigliarsi un po' tutte, e non erano più altro che uno
dei soliti mosaici di valzer languescenti, di polkette sguaiate, di romanzucce
sentimentali. E queste Donne viennesi non si elevavano fra
le molte del genere".
Nonostante queste riserve, le operette di Lehar e di Kalman rappresentarono la vetta: La
vedova allegra, con i suoi valzer alternati alle polche, fu la regina incontrastata e
ad essa si uniformò il nuovo gusto che, con la sua vena sentimentale, sembrava voler
rappresentare l'addio di un mondo spensierato, albergo illusorio di un'eterna giovinezza,
travolto nel 1914 dal suicidio dell'Europa a Sarajevo.
Dalle recensioni degli spettacoli apparse sui giornali locali, si rileva come
l'allestimento delle operette andò cambiando con il nuovo secolo. Se prima il pubblico
era stato poco propenso alle novità, che spesso ricevevano accoglienze assai poco
cordiali (si pensi alla Gran via, quasi un fiasco alla prima, successivamente
signora incontrastata di tutte le stagioni), la bontà delle compagnie - prima tra tutte
quella di Giulio Marchetti, applaudita dal pubblico e salutata con termini entusiastici
dai giornali cittadini - la preparazione degli interpreti nel canto, ballo e recitazione,
la serietà della programmazione, l'abolizione, o quantomeno la limitazione, delle
volgarità e dei doppi sensi, la ricchezza delle scene e dei costumi (adesso disegnati da
Edel, Caramba, Rovescalli), fecero invertire quella tendenza.
Se per le creazioni il teatro operettistico italiano continuava a essere tributario
dell'estero, le esecuzioni in questi anni ebbero un periodo di vivace affermazione e
brillarono di luce propria ad opera di capocomici che, per doti individuali, o per la
ricchezza e genialità con le quali formarono le compagnie e le diressero, lasciarono una
traccia luminosa in questo campo. Negli anni che dall'inizio del secolo compresero la
prima guerra mondiale, a detta del Romanelli, si ebbero così "compagnie che potevano
stare alla pari, e forse al di sopra, delle congeneri straniere, dove si formarono artisti
di vaglia, che raggiunsero una notorietà oltrepassante i confini della patria".
A favore dell'operetta giocava il fatto che i suoi spettacoli, ricchi, aggraziati,
eleganti, che portavano all'evasione, contrastavano con quell'opera verista, volgare, con
scene di miseria, piene di scoppi violenti, di masse scamiciate e vocianti - proprio in
un'epoca in cui più gravi erano i conflitti sociali - sempre più oggetto degli attacchi
dei critici, che anelavano alla rinascita di un sinfonismo italiano. Non che i critici
intendessero minimamente giocare in favore della squadra operettistica, ma le stroncature
dell'opera lirica, cioè di quello che fino allora era stato l'unico mito dei compositori
italiani, portò dei colpi all'asservimento a questa religione monoteista.
A propugnare e difendere la natura artistica dell'operetta, nel 1907 Alberto Andreini
fondò a Milano un periodico bimensile, L'opera comica, che si presentava come
"organo esclusivo dell'operetta". Qui si ribadiva quanto si era rilevato da
sempre - che la mancanza di buoni musicisti, dovuta all'idea tutta italiana che solo il
melodramma fosse arte, mentre l'operetta non era che un sottoprodotto umiliante per
l'autore - con un tema opposto: l'operetta era più logica, sia dell'opera buffa che dello
stesso melodramma. Le comprendeva, infatti, ambedue: accelerava l'azione con il parlato,
evitando alla musica le insulsaggini dovute a quest'esigenza e faceva attaccare
l'orchestra ogni volta lo richiedesse una ragione ritmica, di ambiente o di sentimenti.
Un'altra circostanza che favorì l'affermazione dell'operetta italiana è
da collegare alla lotta che, senza esclusioni di colpi, si facevano le due maggiori
case editrici musicali, Ricordi e Sonzogno: mentre il primo aveva curato esclusivamente
l'opera lirica, Edoardo Sonzogno, essendo chiuso il mercato italiano in quella
direzione, dal 1874 si era rivolto all'estero e, per quanto ci interessa in
questa sede, si era assicurato i diritti per le operette di Offenbach, Lecocq,
Varney, che pubblicava nella collana "Teatro musicale giocoso". L'anno
dopo aveva iniziato ad allestire al Teatro di Santa Radegonda le opere comiche
francesi, attività cui seguirono alla fine degli anni Ottanta alcune stagioni
portate all'estero. Per incrementare questa attività, Sonzogno costruì anche
dei teatri - il Mercadante a Napoli, il Lirico a Milano - e ricercò nuovi autori
istituendo un comitato di lettura per le opere dei musicisti. Nel 1910 un nipote
di Edoardo Sonzogno, Lorenzo, si staccò dalla casa editrice con il progetto
di dare largo spazio all'operetta, sia diventando l'editore di Leo Fall, Johann
Strauss jr, Franz Lehar, che lanciando autori italiani. Fecero parte della scuderia
Leoncavallo, Montanari, Pietri, Darclée, Cuscinà... Nel 1911 creò la compagnia
Caramba Scognamiglio e successivamente la Nuovissima. Sull'esempio di quanto
aveva fatto Edoardo, Lorenzo Sonzogno bandì nel 1913 un concorso per un'operetta
in tre atti di autore italiano, il cui primo premio era di 5.000 lire, più le
percentuali sulle rappresentazioni.
Se gli autori italiani, come abbiamo detto, erano stati pressocché assenti da queste
produzioni e la loro presenza un'eccezione, quando colui che manovrava le fortune della
musica nel nostro paese si accorse che l'atmosfera era cambiata, che le maggiori compagnie
stabili italiane di operetta erano una ventina (senza contare quelle che agivano nelle
sale di periferia e nei paesi), con centinaia di interpreti, che i teatri erano sempre
pieni, che l'odiato Sonzogno era attivo nel settore, volle dare anche lui l'assalto a
questa diligenza carica d'oro. Ed è sintomatico del costume dei compositori italiani che
questo atteggiamento di superiorità nei riguardi dell'operetta, derivante in ultima
analisi dal disinteresse del satrapo degli editori, svanì, coincidenza vuole, di colpo.
Tutti, ad un tratto, si trovarono attivi in questa forma quando Giulio Ricordi, che si
dilettava anche nello scrivere musica sotto lo pseudonimo di Jules Burgmein, "in
preda ad un capriccio senile", fu autore di un'ovviamente applaudita operetta, La
secchia rapita, tre atti di Renato Simoni dal poema di Tassoni (Torino,
Teatro Alfieri, 1910), seguita subito da un'altra, Le tapis d'orient.
Ricordi, comunque, non era nuovo a questo genere: nel giugno 1887, infatti, la sua
operetta, La principessa invisibile, su di una fiaba di Scalvini, era stata
rappresentata al Reinach: una stagione, poi l'oblio.
La secchia rapita aveva un libretto senza doppi sensi e grossolanità, ma la
musica, garbata, gaia, facile, non aveva la luce dell'originalità, essendo solo un
riecheggiare di Offenbach e Suppé. Tutti i critici teatrali, "che nel padrone
vedevano assicurata la zuppa", si sdilinquirono comunque in osanna: il successo
presso il pubblico non fu invece di eguale misura. A onore del gestore del Teatro Reinach,
possiamo dire che non fu mai richiesta per entrare in cartellone. La secchia
costituì un'autorizzazione a procedere in favore dell'operetta, dato che nessun
intelligente poteva dire che non l'aveva vista e apprezzata. Fu una prima che, per
l'importanza dei presenti, ricordava un grande debutto di un'opera lirica: quasi quello
che era avvenuto per l' Otello di Verdi. Ars et labor, la rivista di
casa Ricordi, (15 marzo 1910) raccontò che erano presenti Boito, Alfano, Puccini,
Giordano, Tosti, che pur non vivevano a Torino.
Tentarono allora l'esperimento Umberto Giordano e Alberto Franchetti con un Giove a
Pompei ma non riuscirono a piegare il loro ingegno alle forme spensierate, argute e
ironiche dell'operetta che, con spregiudicatezza, aveva sempre esibito pochi veli e molte
nudità muliebri alla contemplazione del colto e inclito pubblico con innegabili e
immediati risultati di successo, anche se ben lungi da ogni ragione artistica o teatrale. Giove
a Pompei brillava invece per la dotta miseria del libretto, la ricchezza di sapute
citazioni classiche, di ricordi solenni, nonché per la povertà di arguzia e di allegria:
in conclusione, una misera cosa che non poteva, nonostante l'incontestabile autorità
degli autori, sperare nella sorte su qualsiasi genere di scena. Anche Puccini, dopo
tergiversazioni, incertezze e timori, non seppe resistere al fascino di creare, con
spensieratezza e divertimento dello spirito, un'operetta: La rondine però ebbe
le ali deboli e il volo breve, pur dopo la metamorfosi da operetta in opera lirica.
Gli anni attorno alla prima guerra mondiale videro comunque nascere un'operetta
completamente italiana e il successo non fu determinato dal caso: fu come se il
suggerimento di Sauvage di trent'anni prima fosse stato finalmente recepito. Diversi buoni
musicisti, infatti, anziché intraprendere o continuare nell'erto sentiero di un'opera
lirica, ormai in piena crisi di identità, preferirono (se a malincuore o per sincera
vocazione non sappiamo) questo genere minore, ma di approccio più immediato con il
pubblico, con la gloria, con il benessere, quando non fu addirittura con la ricchezza.
Come abbiamo fatto per gli autori francesi e danubiani, anche questa carrellata su quelli
italiani è funzionale, non essendo nostro intendimento impegnarci in una storia
dell'operetta, bensì commentare la cronologia e quanto avvenne al Politeama Reinach, quel
caro teatro popolare di cui Parma sente ancora la mancanza a cinquant'anni dalla
distruzione.
Le prime tre novità italiane di sicuro, immediato e duraturo successo furono presto
lanciate, nel 1912, dal nuovo editore Renzo Sonzogno: Capriccio antico di Ivan de
Hartulary Darclée, La reginetta delle rose di Ruggero Leoncavallo e Il
birichino di Parigi di Alberto Montanari.
Se Capriccio antico di Darclée, rumeno italianizzato, figlio di quel famoso
soprano Hariclée Darclée, che nel 1905 aveva cantato anche al Teatro Reinach, non fu
rappresentato nel nostro teatro, La reginetta delle rose e Il birichino di
Parigi approdarono assieme a Parma nella stagione di carnevale 1913-14, sulle ali
della voce di Carmen Mariani, "la deliziosa", in quanto le sue interpretazioni
erano improntate ad una squisitezza eccezionale. Aveva "il dono di sapersi
differenziare da tutte le altre sia forse solo per un atteggiamento caratteristico o per
una linea estetica piena di un fascino profondo ed indimenticabile". Le doti di
questa bellissima soubrette soprano, doti eccezionali, l'avevano portata a occupare una
posizione invidiabile, essendo diventata capocomico di una grande compagnia, cui aveva
impresso il marchio della sua signorilità e buon gusto.
Giovacchino Forzano ricordò come era nata questa Reginetta: direttore del
settimanale di Montecatini, aveva scritto per la compagnia Maresca il libretto della
rivista Lo sciopero delle acque. La vide Leoncavallo, frequentatore delle terme,
si divertì moltissimo, e chiese al giovane che gli scrivesse il libretto di un'operetta.
Il compositore ai primi passi aveva fatto il pianista in un caffé concerto: adesso,
sfiduciato nel non riuscire a replicare il successo dei Pagliacci, si era
applicato in questo nuovo genere, che lo riportava alla frequentazione dei motivi leggeri
della giovinezza: era nata così La reginetta delle rose, che era stata
presentata a Roma il 24 giugno 1912.
La trama, tenue e graziosa, tra il sentimentale, il brioso e l'arguto, presentava buone
trovate umoristiche, di una certa attualità, che andavano dalla soluzione della crisi
balcanica, al trionfo della democrazia e del femminismo (una figlia del popolo che
ascendeva al trono di Portova). Leoncavallo aveva colorito le scene con una musica facile,
piacevole, di ampio respiro, anche quando peccava nell'originalità: nel primo atto aveva
offerto un delizioso valzer, ovviamente "delle rose"; elegante e
orecchiabilissimo fu sempre oggetto di richieste di bis, mentre applauditi erano anche la
scena d'insieme del secondo atto, graziosissima, il coro dei ministri leggermente asmatici
e il settimino dei congiurati. Il lavoro aveva tutto quello che doveva avere un'operetta
per apparire bella, piacere e anche trionfare. Alla prima assoluta Il teatro
illustrato rilevò che Leoncavallo era giunto all'operetta subendo l'influenza di
quella viennese, "dalla quale peraltro non era stata contaminata la pura italianità
del lavoro". Con questo discorso il giornale forse alludeva al fatto che si notava un
distacco sia dalla satira francese che dall'eccessivo e sdolcinato sentimentalismo
danubiano, mentre sussisteva un sottile filo con il teatro musicale verista, cui a volte
Leoncavallo faceva ricorso, senza però tradire la leggerezza e i toni sentimentali e
comici imposti da questo genere di teatro.
Secondo i canoni dell'operetta danubiana, nella Reginetta delle rose si trova
prioritaria la coppia lirico-sentimentale composta dal soprano e dal tenore, mentre già
dal Birichino di Parigi l'operetta italiana indicò la preferenza per
l'accoppiata comico-soubrette. Essendo in tema, ricordiamo che nell'operetta francese le
parti vocali erano distribuite sulle voci tipiche dell'opera buffa, cioè soprano,
mezzosoprano, tenore e buffo.
Conscio dell'indubbia qualità della merce che poteva offrire, Sonzogno volle
sfidare il leone nella sua tana e affermare che l'operetta italiana adesso era
degna delle sedi più prestigiose. ll 7 maggio 1913 aprì così al Teatro Rejane
di Parigi la prima stagione italiana di operette: e il lavoro di Forzano e Leoncavallo
fu quello inaugurale. Un successo entusiastico a teatro esaurito, confermato
da una lunga serie di repliche. E non fu tutto: il 18 marzo 1915 la Reginetta,
"tradotta in cinematografia dalla Musical Films Renzo Sonzogno & C.",
riempì ancora il Reinach. Una nutrita orchestra, diretta dal maestro Viscardini,
accompagnò la pellicola muta. La Gazzetta di Parma scrisse di questo
progenitore del film musicale che fu uno "spettacolo presentato con grande
dignità d'arte". In questa occasione ritornò ancora una volta a galla la
vecchia caratteristica del teatro leggero italiano: "L'azione briosissima
della bella operetta è stata sviluppata assai meglio pel cinematografo, perché
è stata corredata di nuovi motivi comici, arricchita di nuove visioni coreografiche".
Un film con lo stesso titolo uscì nel 1919, ma non fu rappresentato al Reinach,
in quanto dal 1916 al 1921 le rappresentazioni cinematografiche vennero quasi
totalmente abolite: doveva sicuramente esserci un contratto che vincolava il
gestore del teatro, Italo Lohengrin Campanini, con Carlo Lombardo. In un documento
del 15 ottobre 1921 si leggeva che "gli spettacoli cinematografici potranno
essere dati nelle stagioni dell'anno meno importanti, teatralmente parlando";
accordo questo che dette spazio a una valanga mai vista di spettacoli di operetta,
al punto da suscitare le proteste della stampa.
L'altra operetta dell'editore Renzo Sonzogno del 1912 fu quella nata dal fortunatissimo
incontro tra la favola del bolognese Carlo Vizzotto, giornalista, storico dell'arte,
nonché autore e revisore di un gran numero di libretti per il teatro leggero, (che pochi
anni dopo sarebbe caduto al fronte) con la musica del livornese Alberto Montanari. Questi,
con il successo del Birichino di Parigi, entrò nel novero dei migliori
componenti della nuova scuola operettistica italiana, anche se in seguito non seppe
ripetersi a egual livello.
La musica, elegante e spontanea, si adattava perfettamente alle vivaci vicende
del libretto, e il motivo gaio e brillante si alternava alla nota idilliaca
e appassionata, mentre la varietà di ritmi e l'abile e colorita struttura strumentale
erano riprova di buon gusto e di cultura. La presentazione al Teatro Duse di
Bologna ad opera della compagnia Città di Milano (30 novembre 1912) fu un trionfo,
che si ripeté anche sulle scene parigine, per non parlare della favorevolissima
impressione che destò anche al nostro Teatro Reinach. Il Birichino,
tradotto in tedesco, approdò anche al Carltheatre di Vienna e fu portato da
Sonzogno pure in Brasile e Argentina. Visto il successo che la riproduzione
cinematografica della Reginetta delle rose aveva incontrato, anche
quest'operetta divenne "una" film. Si può dire che con questo Birichino,
accantonando la coppia lirico-sentimentale, i cui campioni più rappresentativi
erano Anna Glavari e il conte Danilo, sia nata la soubrette italiana: e il ruolo
en travesti dinamico e sbarazzino dell'interprete Renato Leloir divenne appannaggio
e banco di prova per tutte le più grandi artiste brillanti che potessero vantare
brio, civetteria, grazia non disgiunta da una sottile sensualità, voce - anche
vocina - ben intonata (non occorreva essere dei soprani coloratura), ma soprattutto
abilità di ballerine indiavolate (pensate a una Delia Scala all'apice della
carriera). Il nuovo portato da questa divetta non piacque però a tutti: in una
critica in cui si parlava di Maria Braccony si leggeva: "Appartiene alla
vecchia scuola comica: il ruolo delle caratteriste usurpato dalle soubrettes,
nuovo ruolo di importazione viennese, che ha modificato in uno sgambettio la
vera e sana comicità". Ma torniamo al Birichino di Parigi, in
cui è interessante rilevare la presenza corale del popolo, in un'epoca in cui
questo aveva affermato di avere la coscienza dei suoi diritti. Un caso, una
involontaria influenza verista, o anche lo spettacolo leggero risentiva dell'atmosfera
che si respirava in quell'Italia che cercava di scuotersi da un torpore secolare?
Se i successivi lavori di Alberto Montanari non sfiorarono il successo di questo Birichino,
pari sorte, o quasi, toccò a un altro compositore livornese: trionfo alla prima operetta,
"stima" o poco più per le altre. Con Addio giovinezza, tratta da una
fortunata commedia presentata il 27 marzo 1911 al Teatro Manzoni di Milano, la casa
editrice Sonzogno inanellò un'altra perla: è un titolo, però, che a noi dà un senso di
angoscia, come se fosse stato il viatico con cui tanti giovani si avviarono all'estremo
viaggio. Dopo pochi giorni dalla prima milanese, sarebbero infatti iniziate quelle
"radiose giornate di maggio" del 1915 che dal 24 segnarono per l'Italia l'inizio
di quel terribile massacro, che travolse anche il sopravvissuto coautore del libretto,
Nino Oxilia, ai piedi del monte Tomba il 18 novembre 1917. L'altro, Franco Camasio,
giovanissimo anche lui, lo aveva preceduto all'aldilà il 25 maggio 1913 per malattia: e
quando l'operetta venne presentata per la prima volta al Teatro Reinach nell'ottobre 1915,
la critica dello spettacolo sulla Gazzetta era circondata dai necrologi di quei
giovani che avevano immolato le verdi esistenze "per la grandezza della Patria".
Addio giovinezza divenne la punta di diamante di quel filone che, accontonati i
temi vanesi dell'operetta, si rifece a personaggi e situazioni del quotidiano: fu
l'operetta che - come scrive Oppicelli - dimenticò le cocottes, i viveurs, le paillettes,
i lustrini e si mise a parlare di sartine, studenti, giovani pieni di vita, madri robuste
e genuine, padri dal cuore gonfio di bontà e che sostituì i luoghi fumosi con i cieli
limpidi, lo champagne con il fiasco di Chianti, il lusso dei saloni, con le strade di
periferia. Da allora le vicende di Mario, di Dorina, di Leone, entrarono nel bagaglio
delle dolci melanconie del pubblico: il tema degli anni verdi perduti, dei piccoli
tenerissimi amori, della non dimenticata spensieratezza, rimaneva - ha scritto Carlo Maria
Pensa - un tema segreto del cuore. Derivata dall'omonima commedia, aveva un libretto con
le carte in regola per diventare un'opera lirica, ma Sonzogno, pur non presentando un
lieto fine, ebbe l'accortezza di farla convergere nel genere operettistico. Era nato così
un lavoro con brani di prosa e parti cantate, imbevuto di calore umano e malinconico: la
musica, poi, che si manifestò come una delle più originali dell'operetta italiana,
ispirata alla melodia mediterranea, denotò freschezza di ispirazione, innegabile
singolarità ed eleganza di forma, senza cedimenti alla moda danubiana. Si trattò, in
conclusione, di un innesto nello spettacolo leggero di quel genere verista tanto alla moda
nel campo letterario, delle arti figurative e del melodramma: certo ingentilito, sfrondato
dalle crudezze che altrove ci si crogiolava a spargere a larghe mani, ma lo scenario non
era che quello. Nel genere, questa operetta fu capofila di una miniserie che, oltre a uno
stuolo delle solite mosche cocchiere che non meritano citazione, vide ancora Pietri
impegnato in Acqua cheta (1920), La donna perduta (1923), Primarosa
(1926), per concludersi definitivamente con L'isola verde. A questo
genere si accostò con Scugnizza (1922) anche Mario Costa, ma fu tutto qui.
La gentile operetta del Pietri ispirò la realizzazione di diverse opere cinematografiche:
la seconda fu quella di Augusto Genina, per la sceneggiatura dello stesso Oxilia,
che venne rappresentata nel gennaio 1919 al cinema Edison di Parma con Maria
Jacobins ed Elena Makowska, in contemporanea con l'esecuzione riproposta dalla
compagnia di Gino Vannutelli. Anche il più famoso dei compositori livornesi,
Pietro Mascagni, si dedicò a questo genere, e fu autore di un'operetta, Sì,
la regina delle Folies Bergère (1919), che non aggiunse nulla
alla fama dell'autore della Cavalleria, in quanto aveva avuto il torto
di poggiarsi su di un libretto dall'incredibile melensaggine. A Mascagni, è
da ricollegare invece un episodio che lo aveva portato sul podio del Teatro
Reinach. Era il 1885, uno degli anni della sua magra giovinezza, ed era secondo
direttore d'orchestra di una compagnia di operette: una sera era in cartellone
Cuore e mano di Lecocq, ed era il suo turno di dirigere. Debuttava
nel ruolo di Micaela la giovane parmigiana Severina Bazzi. Non si sa se per
l'emozione o l'impreparazione, ma fece un tonfo tale da coinvolgere l'esito
della serata, pur essendo una costante del nostro teatro di applaudire smodatamente
gli interpreti locali. Su questi entusiasmi per i concittadini, oltre alla natura
calorosa di quel pubblico spontaneo, va ricordato che assai spesso il debuttante
veniva retribuito con biglietti d'ingresso...
Abbiamo voluto ricordare Mascagni, (che nell'Amico Fritz aveva nel 1891
anticipato lo stile di Pietri con la spontaneità melodica del duetto "delle
ciliege", che presenta la fresca armonia di uno stornello toscano), malgrado la
modestia della sua partecipazione alla creazione operettistica, per introdurre l'autore
del libretto di Sì, un vero personaggio di questo ambiente, forse il più
significativo che agì in Italia, Carlo Lombardo. Aveva diciannove anni, era il 1884,
quando ci siamo imbattuti in lui per la prima volta: al Reinach come direttore
d'orchestra. Se non impersonò l'operetta italiana in tutte le sue componenti, ci manca
poco: forse non fu né cantante né ballerino, ma - barcamenandosi e vendendo anche fumo -
in tutta una vita dedicata a quest'arte di evasione, fu direttore d'orchestra, editore,
compositore, impresario di compagnie d'operetta, con le quali dette vita a spettacoli
famosi. Scrisse, arrangiò, portandole o riportandole al successo, operette che avevano
bisogno di essere adattate alle scene italiane e, a parte la considerazione che
"desumeva" da lavori altrui alcune operette che firmò come sue, usò anche lo
pseudonimo di Léon Bard, ricorrente innumeri volte sui cartelloni del Teatro Reinach. Da
solo o in società con altri (vallo a sapere!) scrisse anche un gran numero di ottimi
libretti, e coinvolse nelle sue produzioni illustri letterati (tra questi Aldo Fraccaroli
e Renato Simoni) o famosi musicisti (Franz Lehar e Mario Costa), sempre con il fine di
assecondare al massimo le esigenze del pubblico.
Questa attività frenetica non sempre andò bene: infatti, a seguito della
denuncia della Società degli Autori francesi, che lo accusò di plagio (il libretto
della Danza delle libellule per la musica di Lehar era stato preso
integralmente dal Regéle di Sardou e da L'aimé des fammes
di Hennequin) nel marzo 1923 fu obbligato a versare agli eredi degli autori
220.000 franchi, quale transazione per i diritti passati, presenti e futuri.
Ma anche questi non furono che incidenti di percorso ed egli restò sempre l'arbitro
e il referente del teatro operettistico italiano: da una statistica delle operette
più rappresentate (Gazzetta di Parma, 8 marzo 1924), risulta che egli
era, direttamente o indirettamente, sempre presente. Anche nel tristissimo periodo
della seconda guerra mondiale e della occupazione nazista il nostro non si smentì:
se per tutti gli anni del conflitto riuscì a ottenere delle sovvenzioni ministeriali
- come l'unico degno complesso operettistico che attualmente agisce in Italia.
nel 1944, in pieno furore razzista, ebbe l'abilità di mettere in scena un'operetta
dell'ebreo Abraham. Come? rimettendo in uso il già collaudato trucco di presentarla
sotto il nome di un immaginario compositore ungherese, Haios. Esisteva sì un
Hajos, ma non era quello.
In Carlo Lombardo, "nel cui vorace pragmatismo vennero a fondersi, in misura
singolarissima, mediocrità e talento", come ha sottolineato Bruno Traversetti, nel
bene e nel male si sintetizzò la vita dell'operetta italiana. Nato nel 1869, cioè con
lei, contribuì a darle il suo splendore, combatté contro la sua decadenza... Morì in
questo secondo dopoguerra, il 19 dicembre 1959, novantenne, essendo rimasto sulla breccia
fino all'ultimo, dopo aver assistito alla fine dello spettacolo cui aveva dedicato tutto
se stesso.
4. Contrariamente alle previsioni pessimistiche, durante la prima guerra mondiale
il circolante aumentò giorno per giorno. Mentre il bilancio dello Stato passava
dai milioni ai miliardi, la frenesia del divertimento era aumentata dai rapidi
arricchimenti dei "pescecani". Le enormi spese, anziché miseria, portavano
un benessere materiale, che in certo qual modo contribuiva a tener alto il morale
e a lenire le naturali apprensioni per i richiamati. C'erano sì le famiglie
dolenti in lutto, quelle che si vedevano restituire un giovane ancora vivo ma
ridotto un Cristo, quelle che stentavano per l'assenza di chi in tempo di pace
aveva provveduto al sostentamento: ma erano quelle che non si vedevano in giro
e che non entravano nel bilancio di chi guardava solo all'esteriorità.
Gli "imboscati", coloro che non facevano il militare perché riformati
o non chiamati, furono però tassati dal 1916 con un nuovo tributo: un'imposta
fissa di 6 lire all'anno. L'equivalente di cinque biglietti d'ingresso (poltrona
esclusa) al Teatro Reinach, per non rischiare per un anno la pelle! Parma era
la sede di molti reparti, e soldati e ufficiali erano dappertutto: "qualora
fossero in divisa", godevano al Teatro Reinach della riduzione sul biglietto
d'ingresso mentre, per i feriti ricoverati negli ospedali cittadini, erano disponibili
posti gratuiti riservati.
Mentre l'opera lirica versava in una crisi drammatica, il cinema, che faceva scorrere
lagrime di commozione con la Bertini e la Borelli, e gli spettacoli teatrali leggeri
presentavano stagioni lunghe e affollate. Da un articolo dell'11 febbraio 1917 sulla Gazzetta
di Parma, se pur il tono è farneticante, traspare la ragione del successo degli
spettacoli d'evasione: si protestava, infatti, per il modo con cui il comico Alfredo Bambi
si era qualificato sulla locandina che annunciava la sua serata d'onore, viveur: "Di
viveurs ora non ce ne sono più in circolazione. Essi, o sono sotto le armi o sono
divenuti uomini seri. Poiché quando la Patria è in armi, ed al fronte si muore e si
compiono fulgidi atti di eroismo, non è più lecito pensare che vi possano essere ancora
attorno dei viveurs: vi possono essere solamente dei cittadini che, dopo una giornata di
lavoro e di gravi pensieri, si ritrovano alla sera a teatro per passare un'ora un po'
serenamente. E null'altro. [...] In quanto poi all'annuncio del "repertorio
libero" Bambi ha appreso quanto vigile sia la locale e benemerita censura".
Se La reginetta delle rose, Il birichino di Parigi e Addio
giovinezza avevano segnato un periodo d'oro per la produzione dell'operetta italiana,
e avevano fatto sperare nella nascita di una nostra scuola, quanto avvenne dopo l'entrata
in guerra è dimostrazione che in realtà mancava l'humus culturale perché questo genere
di spettacolo potesse essere creato in forma originale, dato che non poggiava su di una
base ben radicata.
La guerra (non fu una disposizione di legge, ma un'autocensura non sempre applicata
pienamente dai teatri) aveva suggerito, per una estensione del concetto di patriottismo,
di radiare dai cartelloni ogni lavoro di marca viennese e tedesca e, dato che erano i
dominanti, molte compagnie erano restate senza repertorio. I programmi eseguiti al Teatro
Reinach ci mostrano come fu affrontata la contingenza, e si vede come si misero in campo
tutti gli artifici che potessero far ovviare a questa gravissima carestia. Per prima cosa
vennero distribuiti (come avvenne una ventina di anni dopo per i calciatori
"oriundi") assolutori certificati di "italianità": e se sui
manifesti, accanto al nome di Alberto Randegger, comparve tra virgolette l'attributo di
"triestino", accanto a quello di Franz von Suppé, fece addirittura capolino
quello di "dalmata".
In queste circostanze brillò lo spirito intraprendente di Carlo Lombardo, e
Falconi e Frattini hanno scritto che a Milano, nella notte tra il 24 e il 25
maggio 1915, avvenne una storica metamorfosi. Da quanto leggiamo sulla Gazzetta
di Parma, possiamo affermare che i sintomi stavano già, con ammirevolissima
preveggenza, maturando da almeno un paio di mesi. Ci spieghiamo: il 3 aprile
la Compagnia Lombardo n. 2 aprì la stagione al Reinach con la novità di successo
La signorina del cinematografo. Mentre la locandina riportava che l'autore
era Carlo Weinberger, nella recensione del giorno dopo la Gazzetta
scriveva "che alcuni attribuivano [la musica] a Carlo Lombardo".
Ebbene, meno di due mesi dopo, il giorno della dichiarazione di guerra, si stava
eseguendo l'operetta a Milano: Lombardo, preoccupato che gli rompessero le vetrine
del teatro e che le autorità, per ragioni di ordine pubblico, gli radiassero
questa produzione, nella notte sostituì sui cartelloni il nome di Weinberger
con il suo. Incredibile poi la spiegazione, e chi la fornisce è ancora la Gazzetta
di Parma: il primo novembre l'operetta era ritornata al Reinach, e leggiamo
che "Carlo Lombardo aveva accettato pubblicamente la paternità"!
Ci chiediamo ancora come si faccia ad accettare la paternità di una composizione...
Pari metamorfosi il Lombardo fece fare a La duchessa del Bal Tabarin (una
elaborazione all'italiana, cioè con qualche sciroppo zuccheroso in meno e qualche battuta
brillante in più, della Majestät Mimi di Bruno Grainichstaedten) e fu un
successo strepitoso sull'onda dell'orecchiabilissimo valzer di Frou Frou:
Frou Frou del tabarin
t'impongon la virtu
però sei sempre tu...
Frou Frou!
Anche questa Duchessa, impersonata dalle grazie di Olga Paradisi,
vide la versione cinematografica, che fu presentata al cinema Edison della nostra
città il 29 novembre 1918, in contemporanea con l'esecuzione datane al Reinach
dalla compagnia Angelini.
Sulla prima dell'operetta a Parma nel 1916, vale la pena di soffermarsi un attimo,
in quanto se ne trae la morale che presiedeva sull'allestimento di questi spettacoli.
Appena l'orchestra attaccò la prima battuta, il pubblico ricordò che si trattava
della stessa cosa della Signorina del telefono, musicata da Gaston
Serpette, e che era caduta "or fan quattro anni meno un mese" allo
stesso Reinach, "per quanto revisionata da Vizzotto, adesso ufficiale al
fronte, e da Arturo Franci nonché rivestita di non molta musica dal maestro
Lombardo, il quale, assumendo quello di Léon Bard, ha dato quello di La
duchessa del Bal Tabarin all'operetta. Per la parte musicale il pubblico
ha ricordato poi tutte le operette del più puro sangue viennese, sentite e risentite
ultimamente, tanto che tutte le volte che l'orchestra accennava un motivo, veniva
subito completato, fischiettando e canterellando, anche nella sala. E questo
il pubblico lo faceva divertendosi immensamente, perché gli è sempre piaciuta
l'abilità che ha il Léon Bard nel carezzare i gusti del pubblico, formando dei
garbati mosaici musicali [...] delle nuove e vecchie operette del nemico, ma
però con tutti quei brani che, in ogni tempo, più son riusciti graditi al pubblico
italiano. E fin qui nulla di male ... poiché non vanno diritti d'autore al nemico"...
Ma la variabilità del nome del compositore era evidentemente all'ordine del
giorno: se Carlo Lombardo era diventato sinonimo di Weinberger o di Grainichstaedten,
la compagnia Maresca fece diventare Lehar un Monckton. Il 3 novembre 1915 si
rappresentò al Reinach La chiave del paradiso, "operetta inglese
di Lionel Monckton": il pubblico la apprezzò e applaudì. Solo alcuni, pochi,
protestarono, ma senza costrutto. Il giorno dopo dal giornale la spiegazione
del dissenso e conseguente impossibilità di ripetere il giochetto: Donne
viennesi (di Franz Lehar) erano, per ragioni patriottiche, diventate inglesi,
cioè alleate, e, per salire sulle nostre scene, avevano trovato "la chiave
del paradiso". Era stata sufficiente una semplice correzione del nome dell'autore
e del titolo a che l'operetta non fosse mai stata eseguita in città... E nel
1916, sempre al Reinach, Il soldato valoroso, austriaco, di
Johann Strauss jr divenne un Soldato di cioccolata della marca francese
Suppé: così almeno credette di ravvisare il critico della Gazzetta.
E potremmo continuare a lungo.
Furono escogitate altre vie: riprendere le vecchie gloriose operette del repertorio
francese, che erano state soppiantate da quello danubiano, e ormai dimenticate;
dar spazio alla produzione nazionale; sfruttare, infine, la corda del patriottismo.
La prima di queste soluzioni fu la più fortunata: fece rivivere le ariette birichine
e le graziose melodie del secolo scorso, che vennero accolte con successo. Per
le altre due, invece, si evidenziò l'incommensurabile pochezza degli autori:
le diecine e diecine di titoli nuovi ebbero tutto lo spazio che volevano, ma
non seppero approfittarne, sparendo per sempre, dopo soltanto qualche rappresentazione,
mentre anche dai paesi alleati non giunse niente di buono in fatto di novità.
La Gazzetta di Parma mise in evidenza le tristi caratteristiche di
alcune di queste "novità": per Il bagno di Venere, per il
quale si era messa in campo una compositrice, Lydia Testore, fu rilevato come
fosse stato seguito pedissequamente sia nella trama che nella musica l'unico
stile corrente: il recensore non lo dice, ma il riferimento a Lehar è evidente.
Questo stile, che non riusciva a mascherare la povertà dell'idea musicale, veniva
considerato "esasperatamente uniforme in un ripetersi di atteggiamenti
che per quanto insulsi ed illogici vediamo assurgere a dignità di caratteristiche".
Di Una notte al Moulin Rouge, altra novità, se il libretto aveva "imbastito
sciocchezze con sciocchezze", l'autore della musica, "esistendone
già tanta", aveva reputato essere "inutile lavorare per conferire
un'impronta personale" alle marcette e ai valzerini.
L'altro genere che tentò di fiorire per l'occasione fu quello delle opportunistiche
e commerciali operette patriottiche di cui, ad esempio, ricordiamo al Teatro
Reinach Oltre l'Isonzo, Alla frontiera, Al confine,
La signorina del Tricolore: lavori ingenui, pesanti, volgari, con una
musica meschina. L'applauso, però, non mancava mai. Meraviglia del teatro leggero!
Il pubblico voleva evadere dall'angoscia, ma apparire nel contempo patriottico:
e impresari, autori, capocomici lo avevano accontentato, mescolando Isonzo a
gambe, Trieste a seni, patria a sesso, esibendo il tutto in succinti costumini
di foggia militare, paillettes grigiovedi, su economici scenari fatti di bandiere
tricolore. Pensare a un cantante imboscato che in divisa e decorazioni declamava
nobili parole inneggianti al sacrificio supremo, a ballerinette con il cappello
da bersagliere, a opime divette avvolte nel tricolore che cantavano della redenzione
di Trieste, ci dà però un senso di tristezza.
Sulla situazione venutasi a creare, è degno di attenzione quanto scriveva la
Gazzetta di Parma il 19 aprile 1917: "In nome del patriottismo
si pretende di escludere ogni attività intellettuale che venga dall'estero e
soprattutto dai paesi nemici sotto pretesto di tutelare la produzione italiana.
Questa specie di protezionismo artistico assurdo rappresenta un arresto o un
regresso della cultura, in quanto finisce per mettere in valore opere artisticamente
inferiori. Ma è altrettanto deplorevole che per pigrizia mentale o per vanità
snobistica ci assoggettiamo a occhi chiusi a tutte le stramberie che ci vengono
rifilate dai commercianti di musica straniera. Il modo utile ed efficace di
protezione dell'ingegno italiano è quello di scrivere della buona musica e delle
buone commedie, che denotino la delicata superiorità dei nostri autori".
Così - siamo sempre nel drammatico 1917 - essendo impossibile reggere in piedi
il cartellone con simili insulsaggini, alcune compagnie si risolsero a rappresentare
egualmente qualche meno nota operetta "nemica", omettendo dal manifesto
il nome dell'autore.
L'ultima delle operette sopra citate, La signorina del Tricolore, ci
consente di ricordare un poliedrico parmigiano, Edmondo Corradi: giornalista,
poeta, critico, romanziere e fecondo autore di libretti di operette, ebbe ben
più di un momento di successo, in quanto questo si protrasse per anni, essendo
stato prescelto per collaborare con i maggiori autori: Ruggero Leoncavallo (Prestami
tua moglie, A chi la giarrettiera), Pietro Sassoli (Gustavo
Buonalana), Ettore Bellini (Amami Alfredo, Selvaggia,
Rossini, E' arrivato l'ambasciatore), e via dicendo per circa
venticinque produzioni. Venne così descritto nel volume che Cimone dedicò ai
giornalisti italiani: "Scrive in versi con la facilità con la quale gli
altri... non scrivono in prosa. Traduce venti romanzi al mese, e, nei momenti
di riposo, annerisce con l'inchiostro cento cartelle, al giorno, di letteratura".
Aldo Emanuelli precisò poi che gli unici suoi nemici giurati furono gli osti
che adulteravano il vino.
A conclusione di questo excursus sulle operette italiane nate durante quegli
anni di guerra, anche se vi fu una vera e propria ressa di aspiranti, non ci
resta che riscontrare un vuoto quasi pneumatico. Gli Annali del teatro italiano
del 1921 riportano un elenco - e nemmeno completo - delle operette scritte
in Italia in quegli anni, elenco che occupa pagine e pagine: una vera pletora
di nomi, che non abbiamo nemmeno contato, e di titoli che, brillando per la
miseria dei libretti e della musica, quando andò bene, vissero lo spazio di
una stagione, per svanire subito nel nulla.
5. Come abbiamo detto, salvo minime eccezioni che però non giustificano l'affermazione
dell'esistenza di una scuola, di operette italiane non era carente la quantità
nella produzione, bensì la qualità, caratteristica che restò una costante anche
nel primo dopoguerra. Le novità, se pur denotavano nei titoli una linfa feconda
- atti a suscitare la curiosità per tutti i gusti, essendo suggestivi, bislacchi,
volgari, insipidi, a effetto - non corrispondevano nei testi, in buona parte
tutt'altro che intelligenti, brillanti e vivaci, ed erano accoppiati a musiche
sempre meno ispirate e sempre più banali: in conclusione, non presentavano uno
stile proprio ed erano pedisseque nello scimmiottare la scuola danubiana, imbastite
tutte su balletti e duettini tra le stereotipate coppie d'obbligo. La coppia
lirica, la coppia comica, la coppia anziana, che erano le quantità fisse e indispensabili:
sei personaggi principali dovevano intrecciare e svolgere le fila dell'azione.
Luigi Passerini ha descritto sulla Gazzetta di Parrna il "ricettario"
con cui si fabbricava un'operetta italiana: la coppia sentimentale, formata
dal tenore e dalla prima donna soprano, "svolgevano l'azione in grazia
dei loro spasimi amorosi"; la coppia allegra, costituita dal buffo e dalla
soubrette, "i quali seccheranno un po' tutti: loro stessi, l'altra coppia,
il pubblico"; la coppia vecchia, caratterista maschio e femmina, "i
quali saranno o il madro della coppia sentimentale, o un brutto modello di satiriasi
senile o i capri espiatorii delle beffe altrui". Il coro e qualche astro
vagante potevano assistere passivamente al fatto o fattaccio che avveniva tra
quei signori.
Se l'azione mimo-lirica-danzante nella forma che era stata intrecciata fin dagli
albori su di un fatto mitologico o storico non interessava più, prendendo esempio
da un tema fortunato importato da Carlo Lombardo, uno dei filoni divenne l'emanazione
di fattacci di cronaca con costumi "da strada", con una coreografia
che sapeva di bettola. Un ballo, che fu modello per tutti quelli che seguirono
a partire dal 1910, fu La danza degli Apaches, tutto uno sfoggio di
"gesti brutali, attitudini balorde e lascive; tutta una ferocia dei sensi,
una contemporaneità perfettamente degradante". Tema analogo fu Ma gosse,
ambientato in una taverna di ladri, giocato tra un mariuolo e una "perduta"
dei bassifondi parigini che intrecciavano "un baccanale indiavolato, chiuso
da un attacco di bestiali carezze e non meno bestiali busse, e suggellato da
una corrispondente pugnalata".
Sulla nostra affermazione che non esiste una scuola italiana, siamo confortati
da quanto fu scritto in varie occasioni nel 1919 dalla Gazzetta di Parma.
Vi furono sì alcuni autori, sciolti, ma essi non poterono costituire certo quello
che intendiamo per scuola: le scuole rappresentano infatti tendenze, metodi,
forme e ... riforme. Se il miracolo della scuola francese che aveva dato vita
alla Bella Elena e alla Figlia di madama Angot col tempo si
era esaurito, la scuola danubiana aveva trasformato - per Edmondo Corradi "snaturato",
- l'operetta nella sua intima essenza, nelle sue forme caratteristiche, sino
a perderle tutte o quasi, soprattutto a causa dell'abbandono di ogni elemento
satirico, che signoreggiava nelle immortali operette francesi. "Arte è
per me la satira, nell'operetta e fuori: non è arte invece la svenevolezza morbosa
che caratterizza le ultime e più celebrate operette". I librettisti e i
compositori italiani avevano avuto il torto di abbandonare la sana comicità
di quelle arguzie, di quelle satire, facendosi sedurre invece - è sempre Corradi
sulla Gazzetta - "dagli sdilinquimenti della Vedova allegra,
dalla imbecillità della Principessa dei dollari, dalle svenevolezze
critico-musicali di Franzi, cocotte espertissima e cattiva suonatrice di violino".
Bisognava adesso fare in modo che l'operetta tornasse ad essere l'operetta.
"Siate degni dei maestri, purificate l'atmosfera, cacciate i mercanti dal
tempio dell'arte! E mandate a quel paese da dove sono venute con tanta boria
anche tutte le false italiane: le quali di italiano non hanno neppure l'abbigliamento:
e sotto panni sono del "più puro croato" e sentono d'austriaco lontano
mille miglia".
A queste osservazioni sulla produzione italiana seguirono quelle che Luigi Passerini
pubblicò nel 1919, sempre sulla Gazzetta di Parma. La produzione
"nostrale", abbondantissima, era composta da "rifacimenti di
vecchio orpello: musica dimenticata onde furono rivestiti libretti moderni;
quindi, roba straniera. Scalvini ha fatto scuola ancora una volta. Mettiamo
da parte tali petulanti creature truffaldine e andiamo oltre. Oltre? Ahimé,
troviamo sì un numero e non esiguo di operette nostrane; ma nostrane solo nella
firma e non nella forma e non nella sostanza. Son esse pallidi riflessi di luci
molto ben conosciute! Eppure a volte recano il nome d'un musicista di fama indiscussa.
E allora? E allora balza viva questa verità: il libretto e la musica sono banali
o viete ricalcature di orme straniere. L'operetta, oggi, si fa mediante un comodo
ricettario di carattere prettamente esotico. Ed è vietato di uscire da tal campo
chiuso: perciò... Perciò l'operetta italiana non esiste".
Per la cronaca vogliamo ricordare che a Parma vi furono due ignorati tentativi
per elevare il livello dell'operetta, ambedue purtroppo falliti: un concorso
di composizione, e l'apertura del Teatro Regio a questi spettacoli con l'esecuzione
affidata a grandi cantanti d'opera.
Emilio Usiglio, parmigiano, presente nel nostro Reinach nel 1873 con quel suo
gioiello d'opera comica che erano Le educande di Sorrento,
morendo nel 1910, aveva espresso alla moglie, il soprano Clementina Brusa, il
desiderio che fosse istituito un fondo presso il Conservatorio di musica di
Parma, affinché ogni triennio venisse istituito un premio da attribuire a un
italiano autore di un'opera o un'operetta di stile gioioso, stile che aveva
caratterizzato tutta la sua produzione. Con questo lascito il Conservatorio
poté bandire un premio che ammontava a 5.000 lire: alla prima edizione, espletata
nel 1914, parteciparono otto concorrenti, ma nessuno fu giudicato meritevole
della palma. Stessa sorte toccò nei concorsi successivi banditi ogni triennio,
fino a quando nel 1938, su diciannove concorrenti, fu proclamato vincitore Renzo
Bossi con la commedia lirica in tre atti su libretto di Giuseppe Adami, I
commedianti alla corte di Francia, composta nel 1930. Anche se il lavoro
fu edito da Carisch, non ricevette mai l'onore del palcoscenico: la stagione
dell'operetta era allora già finita.
Anche l'altro tentativo fu un fallimento. Nel 1913, come viene indicato nella
parte cronologica di questa ricerca, il Teatro Reinach venne ceduto dal Comune
al maestro Cleofonte Campanini, e l'affittuario Ugo Montanari, che lo aveva
gestito con saggia abilità per vent'anni, continuò nella sua attività di impresario.
In questa veste tentò anche di portare l'operetta nel tempio parmigiano della
lirica, al Teatro Regio. Nel settembre 1920, infatti, al Teatro Malibran di
Venezia era stata presentata un'edizione storica della Figlia di madama
Angot, una vera festa dell'arte per un pubblico strabocchevole. Sotto la
direzione di Arturo Vigna, si erano esibiti Elvira De Hidalgo, Giulia Tess,
Marcello Govoni, Gaetano Pini Corsi, e altri nomi di primo piano dell'opera
lirica. Ugo Montanari aveva scritturato la compagnia per portarla al Teatro
Regio il 12 e 13 ottobre: un esito favorevole, con l'accoglienza nel salotto
buono di famiglia, avrebbe probabilmente nobilitato l'operetta, aprendole maggiori
possibilità dal punto di vista dell'esecuzione artistica. Il tentativo andò
però a vuoto, essendosi sciolta la compagnia prima ancora di venire a Parma.
Anche il teatro d'evasione ebbe le sue metamorfosi: cambiava il gusto e questo
portò gli autori a cercare di rinnovare gli spettacoli: l'operetta, un po' logora,
venne snellita e resa più appetibile. Questa modifica non fu però legata ai
momenti creativi legati a movimenti artistici del tempo: come non risulta, infatti,
che il nuovo modo di vivere proposto dai Futuristi, e che li aveva portati a
stilare un Manifesto per un nuovo teatro futurista, "cioé assolutamente
opposto al teatro passatista", avesse minimamente influito sull'operetta,
parimenti ininfluenti furono il "teatro dell'avvenire" del tedesco
Fuchs (ipotizzava di strappare l'Occidente all'abitudine al teatro come diversivo)
o il teatro "degli Indipendenti" del romano Anton Giulio Bragaglia,
che vagheggiava un "teatro teatrale", o il "Manifesto del Costruttivismo",
o tutta la vivacità della cultura postbellica: assolutamente nulla di tutto
questo.
Fu soltanto il tempo, brutale come la Rivoluzione francese, a decapitare tutti
i nobili in frac, i brillanti ufficiali in pennacchi ed alamari, le dame con
lustrini e ventagli, che avevano popolato i palcoscenici del mondo fantastico
dell'operetta. E come in tutti i casi di sopravvivenza, quello che continuò
a nascere fu opaco, per non dire orribile: anche Lehar, quello che aveva portato
con La vedova allegra, Il conte di Lussemburgo, Eva,
l'operetta al suo vertice, al livello dell'arte vera, il compositore che aveva
fatto sospirare tutto il mondo, tentando di aggiornarsi, diventò supinamente
condiscendente nei riguardi dei cake walk, ragtime, charleston, boston, fox
trot e shimmy, i ritmi portati dal nuovo mondo, cui il dissanguamento di tutta
Europa con la prima guerra mondiale aveva conferito quella linfa e quel primato
che non è stato più nemmeno messo in discussione: e, forse più che negli altri
campi, in quello dello spettacolo musicale d'evasione. D'altra parte il jazz,
arrivato nella povera Europa con le ricche truppe del generale Pershing, era
entrato nel gusto e nel sangue, mentre le orchestre dovettero accogliere, accanto
al flauto e al clarinetto, la famiglia dei sassofoni, strumenti che perfettamente
si prestavano alla sonorità di quei nuovi ritmi.
Come erano stati gli ultimi a interessarsi dell'operetta, attendendo la conferma
del successo, così i grandi editori italiani furono i primi ad abbandonare il
campo, quando questo genere di spettacolo.cominciò ad accusare manifesti indici
di stanchezza. La situazione del mercato editoriale musicale, con il trascorrere
degli anni Venti, stava infatti diventando sempre più pesante: il grammofono
prima, la radio poi, avevano fatto sgombrare il pianoforte dai salotti, con
la conseguente caduta del mercato degli spartiti; il cinema aveva quasi distrutto
quei punti di aggregazione popolare che erano state le bande musicali, grandi
clienti di partiture dei motivi più orecchiabili; i maggiori politeama si erano
attrezzati per la diffusione "delle films", la nuova passione, e gli
spettacoli d'operetta, infine, erano sempre meno seguiti.
La tentazione di mettere in programmazione spettacoli cinematografici era stata
troppo forte perché gli affittuari del Teatro Reinach, Filippo Tioli e Cesare
Ghirardi - alias Watry - potessero resistere a lungo e dal 27 agosto 1922 anche
il nostro teatro si allineò ai gusti del pubblico: avere in cartellone "le
films". assicurava costi di gestione assai bassi, nonché un folto pubblico.
A detta dei conservatori, però, questa tendenza ad alternare sempre più il cinema
con gli altri spettacoli, si era andata esasperando "fino alla nausea",
mentre la Gazzetta di Parma. si faceva portavoce di questo malcontento.
Nel gennaio 1924 fu pubblicata una lettera firmata da decine di persone, in
cui si accusavano i gestori del teatro di aver ammannito in pieno carnevale
un mese e mezzo di cinema: a questo, dopo che nel 1922 aveva campeggiato per
i tre mesi estivi, nel 1923 per quattro e mezzo, a adesso, per il 1924, se ne
prevedevano sei mesi e forse più. I gestori, inoltre, avevano elevato l'affitto
annuo delle barcacce da 2 a 5000 lire, dopo che avevano promesso invece per
il carnevale "grandi spettacoli d'attrazione". La Gazzetta,
ancora quattro mesi dopo, si chiedeva se era questo che il Comune voleva quando,
nel settembre 1912, "la lungimirante amministrazione Mariotti-Isola, malgrado
i vari lai, costrinse il comune ad evirarsi della proprietà del Teatro perché
il compianto maestro Campanini ne facesse un tempio dell'arte". L'aver
abolito dopo una consuetudine più che trentennale lo spettacolo di carnevale
- quasi sempre di operetta - costituiva una "grave mutazione delle norme
del contratto", in quanto suffragate da una lunga tradizione, e gli utenti
avevano un diritto specifico, avendo il sindaco Mariotti dichiarato nella discussione
del 1912 che il cinematografo "era rigorosamente escluso".
Gli affittuari risposero sullo stesso foglio che durante il carnevale la concorrenza
del teatro Regio era troppo forte e, a supporto di tale affermazione, facevano
presente che la compagnia di operette Novissima nel gennaio 1923, oltre ad alcune
compagnie di prosa, per la scarsezza di utili, si erano dovute sciogliere sulla
piazza, restando troncate a metà le relative stagioni; per i prezzi facevano
presente che l'aumento dei costi delle compagnie, le nuove tasse erariali e
l'accresciuta aliquota del diritto d'autore avevano fatto lievitare i prezzi
e, infine, per quel che concerneva la qualità artistica degli spettacoli cinematografici,
l'importanza del teatro non si doveva sentire menomata, "poiché le films
che si stanno proiettando sono di tale importanza da non potersi dare in cinematografi
comuni". Il giornale ribatté ancora che, proprio in quei giorni, in un
convegno di capocomici si erano udite le più roventi proteste contro il "dilagare
deleterio del Cinematografo", per cui molte compagnie, e non delle ultime,
non trovavano in Italia teatri che le ospitassero, "e a Parma, città d'oltre
50.000 abitanti, amanti tutti dei buoni spettacoli, vi é un teatro che in pieno
carnevale offre solo agli spettatori dei films cinematografici, americani per
giunta!". Contro le tesi della Gazzetta, la rivista Medusa,
voce dei giovani intellettuali e dei futuristi, il 7 febbraio 1923 difendeva
invece il cinema "un'arte che riunisce e congloba tutte le altre - letteratura,
scultura, pittura, danza, mimica, ecc. - in una sintesi felice, volgarizzandole
- per così dire - e mettendole alla portata del pubblico di tutte le classi
e di tutti i gradi di cultura".
La questione cinematografo o teatro esplose nuovamente alla fine del luglio
1926, quando la rivista L'arte drammatica di Milano pubblicò che Lohengrin
Campanini aveva venduto il Reinach all'Unione Cinematografica: "Ecco un
altro importante teatro che si può considerare perduto per le nostre compagnie,
perché è naturale che l'Unione, sui dodici mesi dell'annata, per nove o dieci
almeno darà spettacoli cinematografici". La Gazzetta ritornò allora
sulla vendita del teatro da parte del Comune a Cleofonte Campanini, esprimendo
il rammarico che dell'impegno preso di farne esclusivamente un centro per l'arte
non risultava traccia nel rogito. Concludeva auspicando la costruzione di un
nuovo teatro da parte degli attuali affittuari Tioli e Watry. Questi, chiamati
gratuitamente in causa, comunicarono che il loro contratto scadeva il 30 ottobre
1930 e che, conservando fino a quella data i loro diritti, non intendevano rinunciare
ad essi: quindi per anni 4, mesi 3 e giorni 5, gli impresari restavano ancora
e solo loro.
Col tempo la marcia del cinema si fece sempre più trionfale, e un gran numero
di compagnie d'operetta si trovarono nella necessità di convertirsi a un genere
più richiesto dalle masse. E non poteva essere altrimenti: Anton Giulio Bragaglia
- che abbiamo trovato al Teatro Reinach con uno spettacolo teatrale d'avanguardia:
Kurt Weill nel 1930! - aveva scritto: " Il pubblico al cinema si è abituato
alle grandi sensazioni rappresentative e non può accontentarsi più di quelle
del teatro. Come andare in diligenza al tempo dell'aeroplano?". La minor
richiesta indebolì la produzione, e si giunse al punto che furono i capocomici
che, per avere nuovi titoli da mettere in cartellone, li commissionarono direttamente
agli autori. Si era così tornati a una situazione simile a quella dei tempi
dell'opera impresariale, in cui i melodrammi venivano composti su misura degli
interpreti che sarebbero dovuti salire sul palcoscenico. Se i primi esempi di
questo sistema - che peraltro non era nuovo, essendo, come abbiamo già avuto
modo di dire, una delle caratteristiche dell'operetta che i direttori d'orchestra
delle compagnie fossero anche compositori, oltre che adattatori dei lavori altrui
- conseguirono ottimi risultati, dando vita a una vera e propria fiammata dell'operetta
italiana, e fornendo uno stimolo in questa direzione, ciò sarebbe avvenuto egualmente,
dato che alcuni di questi lavori sono ancora famosi e amati. Non fu però frutto
di una vera e propria scuola, e non sappiamo quanti altri, scritti con questo
sistema, si siano perduti nel nulla per la loro intrinseca debolezza. Se di
queste operette su misura possiamo ricordare Selvaggia di Ettore Bellini
per Dirce Marella (1924) e Colibrì di Montanari per Guido Riccioli
e Nanda Primavera (1928), i veri campioni si ritrovano ancora una volta dove
mise lo zampino Carlo Lombardo.
Il paese dei campanelli (Milano: Teatro Lirico, 23 novembre 1923) fortunatissimo
capostipite, fu composto per la compagnia che annoverava i nomi dell'elegante
e brava soubrette Nella Regini, che poteva vantare anche una voce di soprano
gentile e piena di sentimento, del buffo Renato Trucchi, del quale abbiamo già
steso le lodi, dell'ottimo tenore Angelo Ferrini, del soprano Amelia Sanipoli,
di Renata Altieri... Dirigeva il compositore, Attilio Ranzato, un musicista
"con le carte in regola": diplomato in composizione, era già stato
primo violino nell'orchestra dell'irascibile Arturo Toscanini che, in questo
caso a ragione, si imbestialiva con lui quando, durante le prove, a un tratto
poggiava l'archetto per prendere degli appunti, che poi riversava o in un austero
quartetto, o in un valzer brillante.
Luna tu,
non sai dirmi perché...
Nello spazio di pochi giorni tutta Milano fischiettava i motivi dell'operetta, che
doveva toccare un incalcolabile numero di repliche in Italia e all'estero, aprendo al
compositore le porte della celebrità e della ricchezza.
All'accoppiata Carlo Lombardo (sempre lui) per il libretto e Virgilio Ranzato
per la musica, il successo arrise anche due anni dopo con Cin-ci-là
per la stessa compagnia Regini-Trucchi. A queste due, fortunatissime, ne seguirono
altre, senza ottenere pari esito, in quanto si rifacevano, ripetitivamente,
alla stessa formula: i copioni erano sì calibrati sui gusti del pubblico, ricchi
di trovate comiche e di effetto, fantasiosi nell'ambientazione, assurdi nelle
situazioni, ricchi di colpi di scena, nei quali non mancava il grasso: prendevano
sempre più piede i ruoli comici, mettendo in secondo piano quelli lirici, anche
per la difficoltà di disporre di buone voci; i motivi sentimentali, romantici
e orecchiabili erano adesso sorretti da un'orchestrazione vivace, impostata
sui ritmi alla moda, c'era però un ma: peccavano nell'originalità.
Attizzatore della fiammata dei successi dell'operetta italiana fu ancora Carlo Lombardo,
presente in tutte o quasi queste nuove produzioni: se aveva lavorato con Lehar, operando
il rifacimento per il mercato italiano, cioè adattando al gusto (più salaci le battute)
e al livello esecutivo (tessitura meno ardua) La danza delle libellule (1922), fu
autore con Renato Simoni di Primarosa (1927) e fece entrare in questo campo Mario
Costa. Questi, dopo aver composto la fortunata pantomima di Pierrot, aveva
continuato a essere un signore nel campo delle romanze da salotto, dei ballabili, delle
canzonette per lo più di genere napoletano. Lombardo acquistò tramite Ricordi i diritti
e, con un'operazione che gli era quanto mai congeniale e ancora una volta fortunata,
appiccicò il tutto su di un vecchio spunto molto usato nel teatro di prosa e lo battezzò
Il re di Chez Maxim (1919), giunto al successo al Reinach nel gennaio 1920 con
una splendida Ines Lidelba. La collaborazione fortunata dette vita tre anni dopo a Scugnizza,
della quale tutti - pur ignorandone probabilmente la fonte - ancora ricordano
l'orecchiabile motivo del primo atto, del quale noi saremmo curiosi che qualcuno ci
spiegasse il significato:
Salomé,
una rondine non fa primavera,
e di sera,
Salomé,
tutti i gatti sono bigi, lo sai...
Chi sa mai...
Dopo il "grande" Lehar, dopo la vampata dalla breve luce accesa da alcuni
autori italiani, giunse la decadenza, la fine di tutto. E avvenne quando, venuti meno i
creatori, per sopravvivere, l'operetta cercò nuove formule. Era tutt'altro che vecchia -
l'abbiamo rivisitata tutta in poche pagine - ma, per dirla con Falconi e Frattini, era
insidiata da un terribile male, "l'imbecillità progressiva". Alla conclamata
insegna della filosofia che " la vita è nel piacer e nulla più", il
personaggio maschile, adesso un pallido viveur in frac, corteggiava la solita languida
donna fatale, che lo respingeva bizzosa per cedergli nel gran finale, il tutto contornato
da grotteschi coretti di gaudenti e donnine che, levando i calici colmi di champagne,
lanciavano grida del genere di quei "viva gli sposi" dei matrimoni di campagna.
Una limpida visione l'aveva avuta il critico della Gazzetta, quando
il 25 marzo 1928 aveva notato: "Non è affatto il libretto che giustifica
il lavoro. Via via che ci si incammina verso la trasformazione dell'operetta
in rivista, questo libretto comincia ad essere di troppo, e mentre oggi le sue
esigenze sottostanno a quelle musicali e coreografiche, domani si finirà per
abolirlo". Concetto questo ribadito il 24 maggio: "l'operetta è in
decadenza, se non la si rinnova, avvicinandola per quanto è possibile alla rivista
che consente più ampie esperienze, variazioni e amenità".
Si salvava in questo quadro deprimente la cornice: le scenografie (scaloni con i gradini
che si illuminavano uno alla volta), la ricchezza delle luci, gli sfavillanti costumi, i
balletti, le donnine, sempre più belle, sempre meno vestite. Dirce Marella, famosa
soubrette, nel 1928 al Teatro Alfieri di Torino giunse a recitare a seno nudo una scena
della Voglia color rosa di Cuscinà, fino a che la questura, per le proteste dei
soliti benpensanti, che però non si erano perduti lo spettacolo, non intervenne per far
cessare "lo scandalo"; ma, per prendere questa decisione ci impiegò quattordici
giorni di tutto esaurito. Si trattava, però, di tentativi di aggiornamento, dai costi
peraltro proibitivi, per mascherare l'ingenuità di tutto un genere che aveva perduto il
mordente sul pubblico. Per dirla con la Gazzetta, le nuove partiture, dopo un
paio di spettacoli, le compagnie dovevano metterle "in biblioteca, perché le stesse
panche minacciavano di lasciare il teatro".
La formula salvatrice fu vista anche nel cosiddetto genere "trepidante",
nell'operetta-jazz: No, no, Nanette (con le canzoni Tea for
two e I want to be happy) di Youmans, Ballo al Savoy
di Abraham, Phi-Phi di Christiné, portarono per qualche tempo nuova
linfa con il caloroso successo con cui vennero accolte: arrivò poi un nuovo
periodo luminoso con Al cavallino bianco, ma fu l'ultimo sprazzo di
vita, in quanto segnò lo spartiacque tra operetta e rivista, possedendo una
spigliatezza diversa, da passerella, da night club. Lo spettacolo restò in piedi
tre anni, girando l'Italia e riscuotendo ovunque successo. Gli stessi impresari,
Arthur ed Emil Schwarz, austriaci, furono i re del teatro leggero in Italia:
nei dieci anni di permanenza nel nostro paese (1929-1938, quando fuggirono per
le leggi razziali) presentarono dieci spettacoli di quadri coreografici grandiosi,
scenografie pompose, corpi di ballo di bionde, alte e snelle creature del Nord,
sketch recitati in italiano da interpreti viennesi: al grande successo del Cavallino
bianco (1931), fecero seguito Wunder Bar (1933), Ballo al
Savoy (1934), Casanova (1934).
Seguendo gli eventi di questo spettacolo attraverso le cronache del Teatro Reinach, nel
dicembre 1927 abbiamo trovato l'inizio della fine dell'operetta: un nuovo genere, la
rivista, stava inferendo un altro colpo alla piccola lirica, costringendo le compagnie a
convertire il repertorio per adeguarsi al gusto espresso dal padrone: il pubblico. La
rivista era già comparsa nei programmi delle compagnie d'operetta (ricordiamo Turlupineide
del 1909 e Tripolineide del 1912), ma si era trattato di presenze sporadiche e di
spettacoli nei quali la parte musicale conservava il suo peso. Adesso, invece, la
compagnia Maresca aveva apertamente assunto il nome di "compagnia italiana di riviste
e operette" e, su dodici spettacoli, ne aveva riservati dieci al primo genere e solo
due al secondo: questi scomparvero poi del tutto l'anno seguente, quando la compagnia si
presentò con un repertorio aperto solo alle riviste. Anche le altre seguirono l'esempio,
tra cui quella di Riccioli e della Primavera, che avevano cercato di resistere, anche con
un contributo statale. Si vennero formando allora nuove compagnie, nelle quali i divi
portavano quei nomi - ancora ben conosciuti - di Totò, Rascel, Wanda Osiris. Tra queste,
molte facevano capo alla prestigiosa impresa di Za-bum, una sigla inventata da Luciano
Ramo e Mario Mattòli.
Se il cinema aveva già corroso la posizione di potere che l'operetta aveva ricoperto in
tempi non lontani - tanto che, dopo alcuni spettacoli dal prezzo elevato e poco
divertenti, la cronaca aveva scritto che "sarebbe stato meglio recarsi al cinema"
- si era ancora al muto. Alla fine degli anni Venti arrivò quel sonoro che accelerò
l'opera di smantellamento dell'operetta già in corso. Come se non bastasse, come si
rileva dalle programmazioni del Reinach, ai film adesso si andò unendo assai spesso il
varietà, presentando attrazioni di comici, vedettes e ballerine di ogni parte del mondo
(o sedicenti tali). Contro questa nuova formula di spettacolo, che si dimostrò subito
graditissima a larghi strati di pubblico, se le ultime compagnie di operette non ebbero il
fiato per opporsi, ci pensò qualche altro ad alzare la voce: "Un tempo, il varietà
era limitato a determinate sale. Ora esso è entrato anche in quelle cinematografiche,
abbassando il livello della pubblica moralità", così, a nome dei vescovi italiani,
scrisse al Duce il cardinale Lavitrano, chiedendo la soppressione dell'avanspettacolo.
Infatti "si distraevano i giovani dalle chiese [e si favoriva] la promiscuità di
giovani e giovinette".
6. Pur avendo letto sull'operetta in Italia il leggibile, non ci siamo imbattuti in
casi di rivalità artistica, tali da provocare il sorgere di un'aneddotica sul tema, come
per la lirica. Il fatto di essere considerati interpreti di serie B, la formazione delle
compagnie in complessi semi stabili, i numerosi nuclei familiari che ne costituivano
l'ossatura, spinsero probabilmente alla solidarietà, anziché all'invidia. Falconi e
Frattini narrano di un gentile episodio di fratellanza artistica tra due grandi dive che,
nella logica del teatro musicale, avrebbero dovuto essere concorrenti: le soubrettes Nella
Regini e Ines Lidelba: questa (nata a Forlì contessa Ines Fronticelli Baldelli: Lidelba
era l'anagramma di quest'ultimo cognome) aveva debuttato al Teatro Centrale di Parma nel
1918, e trionfato al Reinach nel 1920.
"Le serate d'onore di Nella Regini costituivano da sole un avvenimento: la celebrata
soubrette, al finale del secondo atto, usciva alla ribalta in mezzo a una mareggiata di
fiori, tra applausi che scuotevano il teatro. Coloro che erano addentro alle segrete cose
accennavano poi a un nuovo stupendo gioiello che scintillava sull'anulare o sul petto
della diva. Si vide una sera al Dal Verme, spiccare fra le altre innumerevoli un'enorme
corbeille di rose scarlatte e di tuberose: in un angolo, un minuscolo biglietto da visita:
"Ines Lidelba a Nella Regini". Simpatico omaggio di una rivale cavalleresca che,
come lei, otteneva l'ammirazione del pubblico non solo per le sue doti d'artista, ma per
lo straripante sfarzo con cui allestiva gli spettacoli".
Malgrado le limitatissime notizie che la stampa - anche quella locale - ha sempre dedicato
al mondo dell'operetta, abbiamo cercato di seguire gli interpreti di questo spettacolo
nella loro vita a Parma, fuori dalle luci del teatro. Questo itinerario ci ha portato a
visitare alcune osterie, quei locali con cucina che, per poche decine di centesimi,
consentivano abbondanti pasti a mezzogiorno e dopo teatro. A quei tempi non occorreva
invocare la limitazione dei consumi: se i prodotti erano abbondanti, scarso era invece il
denaro, perché difficilissimo.
I locali parmigiani nei quali per tradizione maggiore fu la presenza degli artisti
di teatro furono Fortunato a borgo Bandiola, Stiliano a l'Osteria del Teatro.
Stiliano, rinomato e ricercato ritrovo di artisti, da borgo Guazzo si era trasferito
a ridosso del Teatro Reinach, tanto che ne seguì la sorte il 13 maggio 1944,
quando furono distrutti entrambi nello stesso tragico bombardamento: era detto
anche da "Baran", dal nome del proprietario Stiliano Barani, un comprimario
che aveva calcato un infinito numero di palcoscenici lirici. Fu richiamo irresistibile
e immancabile luogo di ritrovo per tutti gli artisti del Teatro Regio e del
Reinach che, disertando i ristoranti degli alberghi dove alloggiavano, preferivano
gustare i piatti raffinati che la signora Innocenza sapeva ammannire, assieme
al buon vino e all'amichevole trattamento, in un ambiente che era tutto musica,
per la presenza costante anche di professori d'orchestra e di semplici ma competentissimi
melomani, che erano soliti lì tirare l'alba.
Più antica era l'Osteria del Teatro in borgo del Teatro che, benché piccola e modesta,
aveva una numerosissima clientela, tra cui si affollavano gli artisti e coristi delle
compagnie di operette, con quell'appetito insaziabile che a Parma si soleva classificare
"appetito da suonatori". Verso la mezzanotte, e anche dopo, fra sonore risate
entrava l'allegra, rumorosa brigata femminile: quella delle artiste, accompagnate dagli
amici d'occasione. "Ove sarete ora, o bellissime fra le belle [...] Tina D'Arco,
sorelle Tani, Pina Ciotti, allora all'inizio della celebrità ma provocantissima, vera
gamine, che imitava il buffo Navarrini mentre suonava l'ocarina, lo strumento da lui messo
di moda onde divenne, come.pel canto, famoso? Fra gli altri ricordiamo i proprietari di
compagnie di operette, quali il Maresca, lo Scognamiglio, il Fioravanti", così
rimpiangeva nel 1931 Aldo Emanuelli. Qui convenivano letterati, scrittori, giornalisti,
attrattivi da quell'allegra bohème. E capitava spesso che, preso dal fascino di
quell'allegra giovinezza, nonché dai vapori alcolici, certo Beghi, portiere di scuola,
intonasse a piena voce, come fosse nella Lucrezia Borgia:
Non curiamo l'incerto domani
se quest'oggi è dato goder...
Sulle condizioni di vita degli artisti d'operetta, si può dire che, se le stelle
non avevano ragione di lamentarsi, in quanto percepivano un cachet di tutto
rispetto -mai comunque nemmeno paragonabile a quello delle ugole d'oro della
lirica - e il trattamento degli scritturati dalle maggiori compagnie, oltre
a essere coperti da contratti di lunga durata, era discreto, assai precarie
erano quelle dei meno fortunati, che tiravano con i denti una vera esistenza
di stenti. Una rievocazione che mette un senso di angoscia è quella pubblicata
da Maria Bianchi su Sipario. Quando non si trovava la scrittura in una
compagnia, alcune famiglie di attori e strumentisti si mettevano insieme, e
portavano per i teatrini dei paesi più sperduti quello che potevano: commedie,
farse, sceneggiate, varietà, trascinando a mano la carretta sulla quale avevano
caricato i miseri averi. Poteva capitare anche di fare contento qualche commediografo
o compositore dilettante locale, che poteva così assistere davanti ai compaesani
alla prima rappresentazione assoluta del frutto delle lunghissime serate senza
distrazioni...
Circa i locali dove questi anonimi forzati dell'arte minore vivevano nelle loro
peregrinazioni, ci sembra si attagli alla perfezione, in tutta la sua crudezza, quanto nel
1665 scrisse Tommaso Guerzoni in La piazza universale di tutte le professioni del
mondo. Sulle osterie - che peraltro nell'epoca che stiamo narrando non dovevano
essere mutate di molto - possiamo leggere: "Come tu entri tu ritrovi un Osteria tutta
sgessa e smantellata, una camera sbucata e rovinata, sostenuta per forza da puntelli,
ricetto di topi. Un solaro nero, come le caligini dei camini, un lastricato di quadrelli
mobili, mura spegazzate da mille disoneste sporcizie che i forastieri per dispetto vi
hanno lasciate scritte da pertutto. Le tavole più unte di quelle dei beccari, tarlate
dentro e fuori per la vecchiezza, [...] i lenzuoli rappezzati e carichi di brutture; i
letti duri, i cuscini puzzolenti: i cappezzali pieni di cimici; insomma tutta l'Osteria
urla da ogni parte pidocchieria estrema ed infinita!".
Gli impresari delle "compagnie di ventura" erano spesso dei malviventi, dei
quali, però, ci si doveva per forza fidare: e, se la stagione o la tournée finiva male,
non c'era modo di farsi pagare. Quando si aveva la fortuna di trovare una scrittura, la
paga veniva poi decurtata di quella percentuale, spesso del 10%, spettante all'agente, a
volte uomo di paglia dell'impresario. Ancora una forma di sfruttamento, cui era quasi
obbligo sottostare, era la pubblicazione del nome in grassetto nella rubrica degli
indirizzi sui giornaletti specializzati, che non oltrepassavano la cerchia dell'ambiente,
e che facevano capo alle varie agenzie, come pure l'abbonamento da
"sostenitore", per non parlare della riproduzione della fotografia e del
curriculum: e per le pulzelle c'erano ancora altre forme di pedaggio... Come conclusione,
non mancavano i necessari "sottomano" a quei cronisti mal retribuiti che
sbarcavano il lunario affidandosi alle lodi o alle semplici citazioni dei nomi degli
interpreti sui loro giornali. Nello scorrere la Gazzetta di Parma in parallelo
con gli spettacoli musicali del Teatro Reinach, ci siamo imbattuti in un solo articolo che
tratta della vita di questi artisti. Si trova nel numero del 12 agosto 1924, e il titolo
non ha bisogno di commento: "Le peripezie d'una divetta: dolori, busse, fame,
freddo". Tutto per appagare un sogno: il successo personale, un applauso tutto per sé.
Non per nulla gli antichi interpreti del teatro comico, come ricordavano Falconi e
Frattini, nel loro gergo scenico, chiamavano "panetto" l'applauso a scena
aperta, a indicare che era necessario e indispensabile quasi quanto il pane.
La concorrenza del cinematografo si faceva col tempo sempre più forte e, da una
statistica riportata dal massimo quotidiano cittadino, Parma risultava una delle città
con il più alto numero di sale: cinque, contro due a Piacenza, tre a Padova, quattro a
Brescia e, ogni giorno, non meno di cinquemila persone si recavano a godersi gli
spettacoli. Il processo tecnologico incrementò il successo: con il 1929 cominciò a
prendere piede l'adesso maschile "film sonorizzato e cantato". Non è che una
coincidenza, ma il nostro giornale, che adesso aveva unito la testata a quella del Corriere
emiliano, pubblicava in quegli stessi giorni che, alla fine della stagione di
carnevale 1930 si sarebbe sciolta la compagnia Lidelba "con una perdita di un milione
da parte del cav. uff. Giuseppe Paradossi" e che i resti della compagnia avrebbero
tentato di costituirne una nuova attorno al maestro Pancani.
Una statistica della SIAE per il 1932 confermava che, benché il numero delle recite fosse
aumentato, gli incassi totali dei teatri di prosa, rivista e operette - con esclusione
della lirica e del teatrino cattolico - non raggiunsero i 45 milioni, mentre il solo
cinematografo ne aveva guadagnati 315. Un altro pericolo si andava poi affacciando: lo
sport, il calcio in specie, con più di 30. In particolare l'operetta era passata da un
incasso di 22 milioni nel 1924 ai soltanto 6 del 1933.
Ebbene, proprio in questo 1933, anno in cui l'operetta non comparve nemmeno una volta sul
palcoscenico del Teatro Reinach, il Corriere emiliano del 20 settembre riportò
che un gruppo di giovani dilettanti, unitamente a elementi residenti in città che avevano
già fatto parte di compagnie di operette, avevano dato vita alla Compagnia Città di
Parma, al fine di allestire opere comiche e operette. Dopo aver aderito al Gruppo
Corridoni dell'Opera Nazionale Dopolavoro, unica via percorribile se si voleva lavorare
senza intralci, fu messa in scena Addio giovinezza. Fu un insuccesso e la
compagnia rimase inattiva fino al 1939, quando si costituì nuovamente, dando vita ad
alcuni spettacoli eseguiti nella Casa della Gioventù Italiana del Littorio.
In uno splendido articolo del 1937, Pietro Bianchi descrisse l'atmosfera che
regnava al Teatro Reinach nei primi anni Trenta e concludeva: "Il teatro
era un fatto sociale. In un paese di scarso commercio civile, di scarsa sociabilità
come il nostro, le luci false della ribalta erano l'ultima eredità della felicità
ottocentesca, di quella cordialità dei rapporti che l'età della macchina e della
guerra aveva sommerso e resa inafferrabile come un sogno. Pochi anni, e una
rivoluzione radicale è avvenuta nel gusto, nella società, nel costume ..."
L'operetta non aveva mai ottenuto contributi di sorta, e l'unica "dote" delle
compagnie era stato solo il pubblico: per ridare prestigio a questo genere di spettacolo
ormai in crisi, nel 1932 il Ministero della Cultura Popolare concesse una sovvenzione,
attraverso una grande Compagnia dell'Arte Italiana, diretta da Guido Riccioli. I fondi a
favore della Corporazione dello Spettacolo furono reperiti assegnando a questo Ente gli
introiti derivanti da un aumento di cinque lire del canone dell'abbonamento radiofonico.
A questo punto non si può non proporre una riflessione: se è innegabile che in un paese
civile debba essere assicurata un'esistenza dignitosa a chi si dedica all'arte e allo
spettacolo, è però un errore credere che il teatro sia fatto dagli autori o dagli
attori: esso è fatto dal pubblico. E' da lui che nascono le idee ispiratrici dell'opera:
i suoi gusti, i suoi desideri, le sue aspirazioni sono - come peraltro sono sempre state -
leggi inesorabili. Fino a quando il padrone è stato il pubblico, il teatro è stato vivo:
sicuro nelle sovvenzioni, per mancanza di stimoli, la creatività è morta. E, nel caso
dell'operetta, il pubblico sovrano aveva orientato altrove i suoi interessi, vanificando
la finalità dell'intervento pubblico.
Il decreto 23 giugno 1934, in esecuzione della Carta del Lavoro del 21 aprile
1927, che prevedeva l'istituzione del contratto collettivo, dette vita alla
Corporazione dello Spettacolo, nel cui consiglio sedevano rappresentanti dei
datori di lavoro e dei lavoratori. Il 19 ottobre 1935 venne firmata tra le federazioni
degli industriali e quella dei lavoratori dello spettacolo il contratto nazionale
collettivo di lavoro, che prevedeva anche la categoria degli scritturati dalle
compagnie di commedie musicali. Le "aziende capocomicali" si suddivisero
in compagnie primarie e secondarie: vennero stabilite garanzie per la protesta,
i minimi di paga giornaliera, il numero delle prestazioni normali giornaliere
(prove e spettacolo), il lavoro straordinario, la doppia rappresentazione, il
riposo settimanale, i viaggi (in seconda classe per gli artisti, in terza per
i tecnici), i doveri dello scritturato, le recite all'estero, le penali, le
norme disciplinari, le malattie, l'iscrizione alla cassa nazionale di assistenza
(istituita e resa obbligatoria nel 1934), la chiamata alle armi, le ferie...
Il decreto del 3 febbraio 1936 si occupò del contributo statale anche all'operetta
e alla rivista, escludendo i generi minori, quali "la varietà" e l'avanspettacolo,
considerate di scarso interesse culturale. Per il nostro genere di spettacolo
queste provvidenze e garanzie però non servirono, non potendosi far rinascere
con una legge un morto.
Anche il Carro di Tespi lirico, l'autocarovana dell'Opera Nazionale Dopolavoro
che, dall'estate 1930, portava nei paesi rappresentazioni di buon livello a
prezzi assai contenuti, mise in scena qualche operetta, come pure esse continuarono
a comparire nei teatri, anche se sempre più raramente. Scorrendo varie annate
dell'Annuario Musicale Italiano degli anni Trenta, si recepisce tutta
la decadenza. In quello del 1932 si legge che Carlo Lombardo - sempre lui sulla
breccia - aveva "tentato di avvicinarsi all'operetta italiana con la Casa
innamorata; che Giuseppe Pietri con L'isola verde aveva ripreso
un genere operettistico che a suo tempo aveva dato buoni frutti: poesia, comicità
e caratteri caricaturali formavano questa nuova composizione che, inoltre, presentava
qualche lato folkloristico degno di nota; che Virgilio Ranzato aveva incontrato
ancora una volta con Lady Lido, come pure che Tito Schipa, tramutatosi
da divo del melodramma in compositore, con Principessa Liana aveva
tentato invano la nuova sorte.
L'Annuario del 1933 rilevava che il malato aveva dato qualche segno
di vita: con Bellini di Carlo Lombardo e Francisco Alonzo, e con Il
regno delle favole del "compianto" Italo Azzoni, quello stesso
che abbiamo incontrato tante volte negli ultimi trent'anni dell'Ottocento al
Teatro Reinach come direttore nelle stagioni d'opera. Il commento era però amaro:
"tutte condannate a facile oblio". L'Annuario del 1935, infine,
segnalava in tutto l'anno una sola operetta nuova: Arsura di certo
Polzinetti, ma rilevava "in compenso il risveglio della commedia musicale".
L'operetta era finita, e l'interesse del pubblico era adesso concentrato sulla commedia
musicale o rivista, alla quale la nostra creatura, prematuramente deceduta, aveva ceduto
campo e interpreti. Questo erede era nato dalla degradazione del modello operettistico, e
la differenza tra i due generi poggiava non nell'assetto formale, ma esclusivamente in
quel crollo qualitativo della prima, cui varie volte abbiamo accennato: testi sciatti,
inconsistenti, invadenza massiccia della licenziosità, appiattimento dello spirito comico
e satirico nella semplicistica macchietta e battuta volgare, ispirazione musicale succube
del più gretto gusto popolare e canzonettistico, parti di canto sempre più piatte anche
per le sempre più modeste possibilità vocali degli artisti che, rilevandone la crisi, si
dedicavano al genere.
Sopravvisse la rivista, spettacolo leggero, vario, scorrevole, fatto di nonnulla e pur di
gradevoli attrazioni: piacevoli canzonette, graziosi balletti, scenette di sicura seppur
spregiudicata efficacia comica, musiche che avevano il pregio di non aver pretese, di non
essere originali, ma di ripetere facili motivi conosciuti. Il Corriere emiliano
del I aprile 1938 scriveva con enfasi che questo nuovo genere di spettacolo di varietà
era "tipico dell'età moderna rispondeva infatti benissimo a quelle che sembravano le
caratteristiche più evidenti del tempo: il dinamismo, l'impeto, l'insofferenza di ogni
costrizione, di ogni lungaggine". Tre ore di allegria e risate più o meno grasse per
le quali non abbisognava impianto musicale, elevarono sugli altari il comico e la
soubrette, avendo abolito le parti liriche. Il riferimento musicale non poteva più essere
l'opera lirica - dato che era morta anch'essa - bensì la canzonetta.
7. Per terminare questa carrellata sull'operetta, spettacolo che ha illuminato per più
di mezzo secolo le serate del nostro Teatro Reinach, vogliamo offrire una passerella
ideale: una passerella sulla quale vediamo sfilare in un momento magico, col sottofondo di
quelle arie immortali, tutte le splendide cantanti, soubrettes e ballerine che fecero
battere tanti cuori virili, seguite da quei tenorini, quei danzatori, quei comici, alle
cui battute salaci le signore e le signorine nascondevano dietro ai ventagli lo sfavillio
degli occhi e il luminoso sorriso del volto.
Qualche pedante obietterà che la passerella fu montata al Teatro Reinach per la rivista
dal cav. Achille Maresca solo nel 1928, "per la passeggiata finale del corpo di ballo
e dei principali artisti", ma consentiteci la licenza, in quanto rappresentava il
momento più felice per concludere la serata e offriva allo spettatore l'occasione per
avere un incontro ravvicinato con i suoi idoli. Quando c'era nell'aria odor di finale, i
più intraprendenti si affollavano alle spalle del direttore d'orchestra "come una
giovane mandria all'abbeverata della fontana della bellezza e della giovinezza. - Sono
parole di Orio Vergani. - Le attrici le soubrettine avanzavano a passi cadenzati sul
ponte, la cipria, la felicità, il rossetto, e qualche ombelico graziosamente intagliato,
passavano a un metro dagli occhi dei più lesti a farsi avanti. Cominciava la mezz'ora
degli assetati, si aprivano le porte del paradiso degli entusiasti della coscia tornita,
del seno velato, dei capelli biondo cenere, dell'occhio bistrato...".
Era il rito finale di una cerimonia dedicata al divertimento, e come ogni rito non c'era
nulla di improvvisato: tutto era inquadrato da regole ben precise, ad impedire anche che
qualcuno bluffasse per occuparla per qualche secondo in più, per catturare un applauso in
esclusiva.
E, come sulla passerella, tutti i sorridenti personaggi dell'operetta del Teatro Reinach
hanno diritto in egual misura al nostro ricordo e applauso.