"Il Presente" del 26 dicembre 1884

MIGNON
Amiamo dirlo francamente: ieri sera in teatro un po' più di tranquillità non avrebbe fatto male. Il dubbio che la Mignon fosse un vaudeville e nulla più, accortamente insinuato nel pubblico da qualcuno non favorevole allo spettacolo, aveva creato in seno allo uditorio una minoranza di oppositori, i quali però non l'ebbero vinta. E fu buona ventura, perché avremmo avuto senza dubbio a pentircene, quando a questa stupenda creazione di Thomas avessimo fatto una mala accoglienza. È in un grave, madornale errore chi chiama vaudeville questa bella Mignon che ovunque fu rappresentata ha tratto i pubblici agli entusiasmi più veri: e di questo si persuaderà il pubblico nelle future audizioni, se vorrà - come minimamente non dubitiamo - ascoltare e giudicare calmo e spassionato, indipendentemente dalle provocazioni a disapprovare degli oppositori quand même. La Mignon era destinata a piacere la prima sera: ma se il successo - pur non lasciando di esser vero e meritato fu tuttavia osteggiato, ciò è imputabile alle prevenzioni, che come abbiam detto non mancarono di apertamente manifestarsi. Alcuni sollevano la questione, se la Mignon sia o no uno spartito adatto alle grandi scene. Comunque si possa pensare su questo argomento, sul quale avremo occasione di ritornare in seguito, noi sosteniamo - e ci è grato sperare che i fatti lo proveranno - noi sosteniamo adunque, che la Mignon quale ci è data qui è destinata ad incontrare assai. Egli è che tutto questo ricamo - poichè un vero e finissimo ricamo è lo spartito della Mignon - tutto questo bello musicale in gran copia versatovi dal genio immortale di Thomas, non è totalmente di primo acchito comprensibile. La Mignon fa d'uopo ascoltarla: e se poi non si capisce, è un castigo del cielo! Veniamo alla esecuzione. La signora Frandin, la somma interprete di Mignon, merita tutti gli applausi che il pubblico le ha dato iersera: ne merita anzi molti di più, ma ciò verrà in seguito, quando il pubblico, smesso quel po' di broncio, sentirà levarsi da questa incantatrice sulle regioni più pure della vera arte, della vera poesia. È raro trovare una intelligenza si grande, accoppiata ad una voce gentile, limpida, delicata, di gradevole suono e ad una magistrale scuola di canto: e tutti questi pregi troviamo riuniti nella signora Frandin, la quale farà senza dubbio le delizie del pubblico Parmense. Un giovane di molto ingegno e che ha una voce incantevole di basso centrale è il signor Wulman. Egli fu applauditissimo sin dalle prime note e proseguì di bene in meglio durante tutto il corso dello spettacolo. La signora Giuseppina Butti è una buona Filina: il signor Carlo Butti un baritono di primissimo ordine: il tenore Moretti colto un po' dal panico nel primo atto, canta assai bene ed è un artista educato a buona scuola. Bene, l'orchestra, diretta dal maestro Furlotti, e i cori, diretti dal Gerbella. Speriamo che gli artisti tutti, riavuti dal panico, possano mettere in rilievo le loro doti, e che il pubblico, lasciando alla porta d'ingresso ogni mala intenzione, non vorrà porsi contro a questo spettacolo, che non è indegno di Parma.


" Gazzetta di Parma" del 16 gennaio 1885

Comincio col constatare che la Bella fanciulla di Perth ha avuto iersera un esito non molto brillante. Sia che la musica abbia prodotto sul pubblico l'effetto che ha fatto a me - se mi è dato giudicare da una sola audizione - cioè che è apparsa scucita, varia di stile, con molte lungherie; insomma: il tentativo - quafè realmente - di un giovine maestro che non è riuscito ad esplicare, ad onta di un innegabile talento, la propria personalità; sia che (esecuzione apparisse nel complesso deficente; fatto è che il pubblico si mostrò scontento dal principio fino alla fine meno che in qualche punto, che, da fedele cronista, accennerò più innanzi - ed anzi, al calar della tela appalesò in modo non equivoco la propria disapprovazione. Le sorti della Bella fanciulla potranno raddrizzarsi nelle venture rappresentazioni? Su ciò non oso fare alcun prognostico. Il pubblico è tanto variabile! Starei tuttavia a scommettere che se, in avvenire, lo spartito del m. Bizet, sarà tollerato, esso non riescirà mai a riscaldare il pubblico ed a piacergli senza contrasto, perché manca degli elementi necessari a stabilire un vero successo. Aggiungo, però, che certi pezzi - cito tra gli altri il terzettino tra tenore, soprano e baritono nel primo atto avrebbero potuto piacere se l'esecuzione fosse stata quale si sarebbe dovuto desiderare. Altri - come i ballabili del second'atto - pregievoli come fattura, sono disaddatti pel palco scenico ed il pubblico che quando s'annoia non bada a tanti rispetti umani e diventa inesorabile, ne ha fatto una giustizia sommaria. Anche l'esecuzione è deficente. La stessa signora Varesi, che è quell'artista che tutti sanno - ed il pubblico le ha dimostrato tutta la sua simpatia, salutandola al suo apparire con un bell'applauso - m'e sembrata, ed è sembrata ai più, spostata nell'opera di Bizet. Quell'egregia artista è nata ed educata per le opere prettamente italiane; essa ha bisogno di sbìzzarirsi, con quella sua gola da canarino, nelle più astruse difficoltà del canto; ma allorquando le tocca eseguire musica d'altro genere, quell'artista scende di alcuni gradini dal piedistallo, su cui poggia, quando veste le spoglie di Rosina o di Lucia. Ed, infatti, la signora Varesi, eccetto che nel primo e nell'ultimo atto, in cui ha potuto far sfoggio della sua invidiabile agilità di gola, non è stata capace - ad onta della grande simpatia che ispira di strappare il menomo applauso. Il baritono Buti è artista coscienzioso e accurato; mala sua voce di timbro tenorile non lo fa spiccare molto e nei pezzi d'assieme si lamenta l'assenza delle note decisivamente baritonali. Bisogna, tuttavia, notare che la sua parte non si presta molto a cavare degli affetti, cosicché considerata anche l'aria che spirava iersera - il Buti si può stimar contento di non aver dato pretesto al pubblico di prendersela con lui. Anche la signora Buti - nella sua particina di Mab - la quale, credo, dovrebb'essere per un mezzo soprano - se l'è cavata alla meglio. Si fece applaudire il basso Wulmann nella sua aria dell'ubbriaco - un pezzo che farebbe venir le paturnie al Carnevale istesso, sicché un mio amico, molto intelligente e che ha una lingua di seta, disse che Raft aveva le vin larmoyant - che cantò non da esordiente qual'è. Il tenore Moretti ottenne un completo successo. Quest'artista non è molto felice in quanto a timbro di voce; ma, in compenso ha mostrato di saper cantare con anima ed intelligenza. Fu applaudito alla romanza del second'atto "Vieni o bella, non tardar"; altri applausi riscosse nel duetto con Caterina - duetto che fu, forse, il solo pezzo che piacque di più - e in qualche altro punto. In sostanza il sig. Moretti deve esser soddisfatto assai dell'esito di ieri sera. Bene molto i cori; così così l'orchestra, dove si lamentano le solite stonazioni. Questa è l'esposizione fedele delle impressioni e dei giudizi del pubblico, assai più che dei miei. Ed ora cosa succederà? Mah!
Z.


"Gazzetta di Parma" del 25 gennaio 1885

Quel gran mago che è il Rigoletto ha rinnovato il miracolo di attirare al Regio un pubblico numerosissimo, una vera folla e la musica di Verdi inspirata, affascinante, sublime gli ha fatto di bel nuovo provare le più dolci sensazioni. Ieri sera s'è avuto la conferma che il vero bello - non quello che ora si cerca di gabellare per tale furia di astruserie - non invecchia e che è eterno come il genio di cui è la più pura emanazione. E non è a dirsi che l'esecuzione del Rigoletto possa dirsi perfetta: le manca, anzi, molto alla perfezione - e il pubblico,. in più d'un punto, ha mostrato d'accorgersi di tale deficenza - purtuttavia il fascino di quella musica è tanto, che si passa sopra volentieri alle deficenze e si perdonano le pecche. Gli artisti, quando devono cimentarsi in siffatti colossi, non possono a meno, per quanto provetti sieno, di provare un forte panico e forse il panico ha fatto mancare a certuni la dovuta sicurezza, la quale, però, spero andranno acquistando nelle venture rappresentazioni. La signorina Varesi, ha cantato da quella artista che è. Se l'esiguità de' suoi mezzi vocali non le permette di mettersi all'altezza di talune posizioni ultradrammatiche, nei pezzi di grazia essa si rivela cantante perfetta. Nella frase "Signor né principe" nella romanza "Caro nome che il mio cor" essa ottenne un successo completo e meritato. Il baritono Pantaleoni, che noi abbiamo tanto festeggiato in tutta la pienezza de' suoi mezzi vocali sotto le spoglie di Amonasro la prima volta che si diede a Parma l'Aida - ha dato alla difficilissima parte del protagonista una interpretazione veramente ammirabile. La sua scena non si potrebbe desiderare più perfetta e certi brani egli li ha cantati in modo da rivelare che l'arte del canto non ha segreti per lui. Applauditissimo nel famoso declamato del second'atto, riscosse, poi, in unione alla signora Varesi, una vera ovazione in fine del duetto del terz'atto, di cui si ripeté la stretta. Anche il tenore Moretti s'è mostrato artista coscienzioso e d'essere stato educato a buona scuola. Egli lotta con la sua voce non molto pieghevole e piuttosto ingrata nel registro acuto; ma lotta da valoroso e il pubblico lo ha ricompensato con frequenti segni di approvazione. Tuttavia debbo dire, da cronista imparziale, che quelle appoggiature che fa nella proposta del famoso quartetto, proprio non gli stanno, sicché questo pezzo colosso, che manda infallantemente il pubblico in visibilio, lo ha lasciato, invece, iersera, freddino freddino. Una parola d'elogio debbo alla signorina Desvignes ed al Wulman. Anche il Lepri, nella parte di Monterone, e quantunque indisposto, se l'è cavata benino. Questa sera speriamo che le cose andranno meglio e che il mezzo successo di ieri si convertirà in un successo completo.
Z.


"Il Presente" del 5 febbraio 1885

Non è mia abitudine fermarmi lungamente a discorrere in uno spettacolo dopo la sola prima rappresentazione e nemmeno lo farò oggi per la Favorita. Le prime rappresentazioni portano sempre l'impronta di inevitabili incertezze, di titubanze, di panico, e rarissime volte lasciano campo a tutti gli artisti di farsi valere per quello che valgono. Convien dire però, che la prima rappresentazione della Favorita ha seguito un vero e splendido successo per la maggior parte degli artisti che vi prendono parte. Gli applausi furono molti, si ebbero chiamate e si volle anche la replica di qualche pezzo. L'andata in iscena della Favorita ha portato un secondo e meritato trionfo al merito altissimo della signora Frandin, che ha mostrato attitudini addirittura singolari alla interpretazione dell'opera melodrammatica italiana. Cantatrice delle più eminenti, ella eseguisce quella sua parte in modo inappuntabile: colorisce il canto, lo accentua, lo fiorisce ch'è una meraviglia: attrice che non ha nulla da invidiare a molte dive del teatro drammatico, ci ha presentato la Favorita qual'è, quale dev'essere, quale l'aveva creata il suo autore. Se non che la Frandin, con quella sua profonda sensibilità, con quella intelligenza, con quell'arte grandissima, mercé la quale si atteggia alla interpretazione di qualsiasi personaggio, ha trovato in questa parte delle bellezze nuove che ha posto in rilievo, dei nuovi effetti ch'ella ha strappato all'arte colla potenza del proprio impegno. Un ottimo Fernando si è rivelato il bravissimo tenore Moretti, alla cui valentia di cantante e d'attore il pubblico nostro ha reso largo e meritato tributo d'applausi e di ammirazione. Il tenore Moretti è artista di grazia e di sentimento e ben si atteggia alla interpretazione di questo appassionato Fernando: canta bene, fraseggia con eleganza, accentua egregiamente e si muove sulla scena con disinvoltura. Fu applauditissimo durante tutto il corso dello spettacolo e dovette ripetere la romanza: Spirto 'gentil, che dice superlativamente bene. Benissimo il basso Wulman, la cui voce, il cui ingegno, la cui diligenza gli valgono a mostrarsi artista pregevole. Chi, contro il suo solito, non poté iersera emergere gran fatto, fu il bravissimo Pantaleoni, il quale evidentemente indisposto non poté spiegare bene la sua bella voce né convenientemente attendere alla interpretazione drammatica, per la quale altra volta si dimostrò artista valentissimo. Forse avrebbe fatto bene a far preavvisare il pubblico di questa sua indisposizione. Speriamo che questa sera si sarà ristabilito e si mostrerà quale è veramente e quale lo conosciamo. Bene la signorina Desvignes, la quale per essere andata in iscena senza prove ha fatto prodigi: bene i cori, l'orchestra, egregiamente diretta dal bravo maestro Furlotti, nella quale però si nota - e ciò non dovrebbe accadere - qualche svogliatezza. La messa in scena è addirittura splendida le due stupende scene del primo e dell'ultimo atto, opera di quelle fulgidissima gloria Parmense che è il Prof. Magnani, suscitarono nel pubblico il più profondo entusiasmo. Questa sera ha luogo la seconda rappresetazione: a domani adunque più diffusi dettagli.


"Gazzetta di Parma" del 3 dicembre 1884

Iersera il Consiglio comunale adunavasi in seduta segreta per deliberare su le proposte della Commissione teatrale in ordine allo spettacolo al Regio dell'imminente carnevale. La Giunta, che, in questo caso, non era che il portavoce della Commissione, sottopose al Consiglio due distinti progetti, i quali, tanto sotto l'aspetto economico, quanto sotto quello tecnico, non presentando seria garanzia di riuscita e molto meno legittimando un aumento della dote teatrale già stanziata; vennero ambedue respinti a grande maggioranza. Venne proposto pure che lo spettacolo fosse condotto ad economia dal Municipio, ma anche siffatto partito venne scartato. Si concluse, infine, di tener chiuso il Teatro Regio nel prossimo carnevale, per riaprirlo nella ventura primavera od in autunno con uno spettacolo d'opera, per quanto sarà possibile migliore. Fino a che pendevano le trattative e la speranza di mettere assieme, per questo carnevale uno spettacolo buono o cattivo che fosse - non era ancora perduta, mi son trattenuto perfino dal parlare di siffatto argomento, a fine di non essere accusato di mettere i bastoni tra le ruote del carro - molto sconnesso e sgangherato - della Commissione teatrale. Ma dappoichè ad una risoluzione si è pur venuti, credo che non sia inopportuno trattare la questione teatrale un po' a fondo. E questo mi riserbo di fare domani, oggi non avrei nè tempo, nè spazio disponibile.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 4 dicembre 1884

Il partito preso l'altra sera, dal nostro Consiglio comunale, di tener chiuso il nostro R. Teatro durante il prossimo carnevale, per riaprirlo in primavera, è stato veramente il più serio che si potesse sperare da quell'assemblea. La forza delle cose ha finalmente forzato il Consiglio a prendere quel temperamento che la Gazzetta, da parecchi anni, non cessa dal propugnare, come il più ragionevole di fronte alle condizioni tutt'altro che liete in cui versano i teatri in generale ed il nostro in particolare. I sostenitori dello spettacolo carnevalesco hanno fatto il possibile per prolungare una situazione disastrosa. Una volta avevamo lo spettacolo con dignità - direbbe il fu lord Disraeli - poi abbiamo avuto la dignità senza lo spettacolo, finalmente - in questi tre ultimi anni - lo spettacolo senza dignità. Procedendo di questo passo, doveva pur venire il giorno, in cui non avremmo avuto né l'uno, nè l'altra: e questo è venuto. La decisione del Consiglio è riuscita amara per parecchi; ma come potevasi fare altrimenti? Doveva il Consiglio aumentare di dieci mila lire la dote, accettando imprese che non davano nessunissima garanzia di adempiere ai patti stipulanti e che volevano che il Municipio concorresse, oltre che con la dote, nei rischi stessi dell'impresa? Dove si sarebbe andati a finire? Di questa situazione di cose non ha colpa nessuno. Non il Municipio che ha votato in tempo la solita dotazione pel teatro; non la commissione teatrale, che, fin dallo scorso maggio, si è data attorno per mettere assieme questo benedetto spettacolo e che in queste ultime settimane ha sieduto, si può dire, in permanenza ed è corsa in su e in giù per la linea Parma-Milano, con una abnegazione, stata superata soltanto dalla sfortuna. La colpa è degli artisti; i quali hanno delle pretese, che rasentano il fantastico; dei signori editori musicali, che si permettono delle abitudini di pascià; degl'impresari, che, quasi tutti, non hanno il becco d'un quattrino. La commissione, però, un po' di colpa l'ha. Ed è di aver sperato in un nuovo miracolo che le permettesse di aprire il teatro, senza domandare al Municipio un aumento di sussidio; e di non aver compreso che, con le solite trentamila lire, è impossibile mettere assieme uno spettacolo, capace di accontentare le esigenze del pubblico. Mi si dice che se, un mese fa, la dote teatrale fosse stata di quarantamila lire, lo spettacolo si sarebbe potuto combinare. Può essere, e in questo caso la commissione ha fatto male a non parlar subito chiaro e a correr, invece, dietro all'illusione di trovare qualche editore che qui venisse a fare i suoi esperimenti in corpore vili, o qualche anima benefica, che per amor dell'arte o del patrio loco, acconsentisse a buttar nel baratro una ventina di mila lire. Per me, tanto, ritengo che, neppure con le quarantamila di dote, si sarebbe riusciti ad ammanire uno spettacolo degno delle tradizioni artistiche del nostro massimo teatro. Quando si pensa a quello che spendono i grandi teatri, la nostra doterella non può a meno di non sembrare un goccia rispetto al mare. Se il Municipio vorrà mantenere le tradizioni artistiche del nostro teatro, anche facendo spettacolo in primavera, dovrà spendere di più delle solite trenta mila lire; ma sobbarcandosi questo sacrifizio - imposto da una quantità di ragioni o d'interessi - sarà almeno sicuro di avere spettacoli, che possano servire di vero ammaestramento al vivaio d'artisti, che annualmente ci dà la nostra Scuola di musica, ed appagare il gusto artistico della nostra popolazione, il quale, appunto, perché, da una sequela d'anni, non si hanno buoni spettacoli, tende a vista d'occhio a pervertirli. Quindi, in cambio di rammaricarmi perché, nel carnevale, i battenti del nostro massimo teatro rimangono chiusi, ho motivo di compiacermene.
Z.


"Il Presente" del 18 gennaio 1885

Dopo l'articolo da me scritto sull'andata in iscena della Bella Fanciulla di Perth, perché non ho creduto giusto scagliarmi - seguendo l'esempio di qualcun altro - contro questo spartito, mi son sentito dire le più strane cose da quelli che per una ragione o per l'altra non sono favorevoli allo spettacolo. Ciò mi ha fatto venire voglia di scartabellare nel mio archivio giornalistico per riportare qualche brano delle sapienti critiche che sino ad ora furono scritte sul lavoro di Bizet. Uno fra i più dotti critici d'Italia, il D'Arcais, scriveva il giorno susseguente all'andata in scena della Bella Fanciulla di Perth all'Argentina di Roma: "Il giudizio sulla Bella Fanciulla di Perth del maestro Bizet, rappresentata ieri per la prima volta in Italia, si potrebbe riassumere in poche parole: tutti coloro che l'udirono ieri sera uscirono dal teatro col fermo proponimento di tornarvi a riudirla. E siamo certi che vi ritorneranno non una, ma parecchie sere. È una delle opere più interessanti e simpatiche che da gran tempo sieno state rappresentate sui nostri teatri. Il successo della musica è stato, a Roma, immediato, pieno, incontrastato anche in quei punti nei quali l'esecuzione, per parte di qualche artista, parve insufficiente. Vi furono chiamate ad ogni atto, applausi, si può dire, ad ogni pezzo; ma, quel ch'è assai più, si leggeva sul volto degli spettatori la sincera soddisfazione di udire una musica bella, spesso inspirata, chiara, melodica e scritta con rara eleganza." E qui l'illustre critico prosegue ponendo in luce le maggiori bellezze della creazione del Bizet. Fa poi seguire a questo articolo un'appendice, che finisce con queste parole: "Solo darò un consiglio all'impresario dell'Argentina, ed è di riprodurre quest'opera nella prossima stagione di carnevale-quaresima." E l'esimio critico Primo Levi, scriveva su questo spartito uno splendido articolo nella Riforma, da cui tolgo il seguente brano: "Giorgio Bizet è, in molte parti, nel complesso indirizzo di quest'opera, classico; scolastico anzi. Con la più pura soddisfazione, con una gioia serena e squisita, ci si rifanno, con quest'opera, all'orecchio, al pensiero, quella semplicità chiara, delineata e precisa, quella ingenuità della vita, quella spontaneità elegante e delicata, efficace e robusta, per cui oggi ancora Porpora, Scarlatti, Haydn riescono, al buon gusto, incantevoli. Ma non è uno studente affogato nell'erudizione, non è un imitatore pedestre, non è un ladro volgare, che ricorre a quei tesori: è un ammiratore convinto e intelligente; è un ingegno originale, personale; è un ricco a milioni. Epperò partito da quelle fonti sincere, l'autore trae profitto da tutto il progresso raggiunto nell'arte con le forme più pure del melodramma italiano, e su quelle forme innesta la novità dei proprii intenti, delle proprie inspirazioni.
La Bella Fanciulla di Perth, se riesce dunque pel pubblico un'opera delle più interessanti, perché fresca, viva, mossa, veloce, potrebbe anche essere nello stesso tempo considerata dai maestri di musica come un vero trattato pratico sul melodramma. E non poco profitto ne avrebbero tratto i maestri francesi se avessero avuto il coraggio e la potenza di seguire il Bizet; i maestri italiani, se quest'opera, prima conosciuta e rappresentata in Italia, avesse loro fatto comprendere come si possa riuscire nuovi, senza rinnegare le tradizioni della grand'arte, e come una tale novità non stenti ad essere accettata ed acclamata dal pubblico."
Il Capitan Fracassa così incominciava la sua rassegna: "La Bella Fanciulla di Perth è uno dei più audaci e fortunati esperimenti dell'autore della Carmen." E dopo aver detto minutamente di tutto il lavoro, così concludeva: "Fu un successo completo. Comunque la critica possa sottilizzare nel dare il suo giudizio sulla Bella Fanciulla di Perth, è certo che essa è tale opera da incontrare dovunque il favore del pubblico." Il Diritto, in un articolo entusiastico per questo spartito, dice: "Essa (l'opera) dimostra tutta l'anima dell'artista, quell'anima gaia, nervosa, entusiasta. La chiarezza, la ispirazione franca, il sentimento, sono il carattere dominante della musica, così riccamente, così pittorescamente colorita, così essenzialmente melodiosa e cantabile, da rivelare subito la prima sera il cuore, il genio, tutta la scienza del grande maestro. Ma le bellezze sono tante che mi sarà difficile riferirle tutte e giudicarne, dopo averla udita soltanto una volta. Citerò a caso: il quartetto che è sul finire del primo atto, di un effetto e di una armonia grandissima. La danza delle zingare, suonata per ouverture dell'atto secondo, un portento di bellezza e di un effetto sorprendentissimo, tanto che se ne domandò ed ottenne la replica con grida fragorose." E qui l'articolista prosegue esaminando minutamente tutte le principali parti dell'opera: e dopo aver accennato alla esecuzione conclude: "In conclusione dunque, quello di ieri sera fu un successo per l'opera, fu un tributo di gloria che Roma decretò al disgraziato maestro francese - una vera solennità artistica che farà rifulgere la tomba del povero maestro di un nuovo raggio d'immortalità e metterà definitivamente al suo posto di rinomanza Giorgio Bizet - di cui si può dire che fu grande artista quanto un grande cuore." Riporterò da ultimo la conclusione d'un articolo dell'Italie: "La Bella Fanciulla di Perth aura plusieurs raprèsentations et le succès d'hier ira sans doúte en grandissant. Tous ceux qui ont assistè à la soirèe d'hier ont emportè la meilleure impression de cette partition charmante, dont quelques morceaux deviendront bientót populaires, et qui va faire probablement une tournèe triomphale dans tous les theàtres de la pèninsule." Altri articoli potrei riportare e del Fanfulla e della Rassegna e della Stampa e di molti altri giornali d'Italia e dell'estero, se lo spazio me lo permettesse: ma i giudizi qui sopra riferiti basteranno a far comprendere come l'articoletto da me scritto dopo la prima rappresentazione fra noi di quest'opera del Bizet non fosse proprio tale da suscitare tanto biasimo al mio indirizzo. A meno che D'Arcais, Primo Levi e tanti altri insigni, non si ritengano essi pure una manica di ignoranti e di cretini: nel qual caso mi ascrivo a sommo onore esser posto in sì buona compagnia.

 

 

"Gazzetta di Parma" del 27 dicembre 1885

Sono ben lieto di constatare il successo pieno, incontrastato dello spettacolo andato in scena al nostro Regio. Successo pel maestro, per gli artisti, per le masse corali ed orchestrali. Senza tema d'essere tacciato di parzialità e di campanilismo, mi arrischio volentieri a dire che questo di Parma è uno dei migliori spettacoli dell'odierna stagione in Italia. Non farò una rassegna particolareggiata della musica. Quantunque Parma abbia avuto il torto di udire soltanto ora la Gioconda, questa è oramai un'opera conosciuta da tutti i principali pubblici italiani e per poco che un parmigiano abbia oltrepassato i limiti della cinta daziaria, potrà averla intesa più d'una volta e interpretata da egregi artisti. Il m. Ponchielli, con questo suo spartito, ha potuto ben presto conquistare un posto eminente nell'arte, ch'egli ha, poi, conservato con altri pregiati lavori, i quali se, per avventura, non hanno saputo ispirare ne' pubblici tutte le simpatie che s'è guadagnata la Gioconda, dinotano, tuttavia, pur sempre in lui un eletto ingegno ed una coscienza somma d'artista, tanto più pregievole, in quanto che, anche in arte, la coscienze tendono a farsi di una elasticità desolante. La musica della Gioconda è commendevolissima sotto più d'un rapporto: principalissimo, tra gli altri, l'assenza di volgarità, della smaniosa ricerca dell'effetto, che, allorquanto non è raggiunto con un vivido sprazzo di genio, genera immancabilmente il fastidio e la ripulsione nei pubblici di buon gusto. La melodia - che per me è parte sostanziale d'un'opera melodrammatica - senza essere sovrabbondante e sempre chiara e di getto - non manca in nessuno degli atti; nel terzo e nel quarto, poi, essa si eleva all'altezza della vera ispirazione, mantenendo pure le tradizioni del soave canto italiano. Altro pregio dello spartito è un istrumentale delizioso, zeppo di mirabili particolari, nutrito, sonoro, senza essere farraginoso ed assordante. Ho menzionato i due ultimi atti, come quelli che contengono maggior copia d'ispirazione. Ed è vero. Questo non implica che i due primi ne siano privi. Basterebbe la romanza del tenore, soavissima melodia, tanto bene cantata, direi quasi: sospirata dal Figner, il duetto delle due donne, l'aria. della Cieca che la signorina Guarnieri ha eseguito mirabilmente, riscuotendo fragorosissimi applausi, e, come originalità di fattura, la marinaresca e la barcarola del baritono, per mostrare che i pregi, che il pubblico gusta e giustamente pretende nei melodrammi, non mancano. Dove la musica acquista un alto valore drammatico e la frase melodica si annunzia e si svolge con vigore e maestria, è certamente ne' due ultimi atti. La danza delle ore è un vero preziosissimo gioiello, che basterebbe, quasi da solo ad assicurare la fortuna di uno spartito. Il grandioso finale del terzo atto, poi, per potenza drammatica, per magistero di condotta, per novità di effetti, è una pagina musicale che onorerebbe qualsiasi grande maestro; ed il pubblico che seppe comprenderne di botto la bellezza e ne fu scosso, proruppe in entusiastici applausi e chiamò il maestro - il quale aveva voluto improvvisamente onorare il nostro teatro - replicata, al proscenio. L'ultimo atto è delizioso da cima a fondo. Il maestro non viene mai meno all'altezza del terribile dramma vittorughiano, che Arrigo Boito seppe ridurre a forma italiana, con versi d'insigne bellezza. L'aria di Gioconda, parecchie frasi nel duetto tra Enzo e Gioconda, il terzetto che segue, il duetto finale tra Gioconda e Barnaba - che, a mio gusto, è il pezzo culminante dell'opera - racchiudono bellezze veramente insigni. E quante non saranno quelle che si scopriranno man mano! Ho parlato della musica ora dirò degli artisti. Il complesso di essi non si poteva sperare migliore nel nostro teatro e in questa stagione. Son persuaso che altri teatri, altri pubblici ce l'invidieranno. La signorina Cattaneo, che veste le spoglie della protagonista, ci è venuta da Roma preceduta da bella per quanta recente fama. I più reputati critici della capitale non ebbero per lei che parole di caldo elogio. Con tutto ciò, il pubblico l'ha accolta con quella certa diffidenza che usa con tutti gli artisti che non conosce, anche se celebri. La signorina Cattaneo ha tuttavia finito per vincere ogni diffidenza e gli applausi vivi, insistenti, incessanti, calorosissimi non le sono mancati, specialmente in ultimo. E tali applausi sono stati ben meritati. Essa si è dimostrata artista intelligente, che sa investirsi assai bene nel personaggio che rappresenta. Ha voce intonatissima, calda, bellissima nel registro acuto; un po' debole e di metallo disuguale ne' bassi. Il di lei successo fu pieno e son persuaso che crescerà nelle prossime rappresentazioni. Un altro artista che, quantunque applauditissimo, non è stato giudicato secondo il suo merito, è, a mio avviso, il baritono Menotti. Artista nella più eletta espressione della parola, ogni suo atto, ogni suo sguardo sono quadri della maggiore efficacia drammatica. Cantante, sebbene non abbia grandi mezzi vocali, è degno della fama che qui lo ha preceduto. Quando nel duetto finale egli canta: Ebbrezza! Delirio! Mio sogno supremo! nella sua voce si sente il fremito della passione e della voluttà ed essa vi ricerca e vi commuove le più intime fibre del cuore. Il Menotti non è di quegli artisti che sbalordiscono il pubblico, egli invece ama conquistarlo e soggiogarlo poco per volta. Iersera ha fatto già un immenso cammino. Son certo che stasera farà il resto. Il tenore Figner ha invece toccato subito la riva e meritatamente. Egli ha una voce bianca, gradevolissima, che monta con estrema facilità negli acuti. Canta di eccellente scuola, fraseggia benissimo; insomma: è un artista veramente prezioso. Ho già accennato agli applausi toccatigli, terminato ch'ebbe la romanza. Agiungerò, ora, che ebbe applausi anche in tutti gli altri pezzi, in cui ha parte. Al solo mostrarsi, la signora Medea Mey si è guadagnato le generali simpatie. Ma essa non è soltanto una bellissima donna. Come artista ha mostrato di possedere una bella voce di mezzo soprano e di cantare con molto gusto. Nell'opera attuale essa è piuttosto sacrificata; ma nell'Aida avrà campo di sfoggiare e sono persuaso che in detta opera l'aspetta un trionfo. Della signorina Guarnieri ho già parlato in principio. Ripeterò ch'essa ha ottenuto un successo completo e nel quale la sua qualità di concittadina proprio ci ha nulla a che fare per la sua bella voce e pel suo modo eletto di cantare. Il basso Contini possiede sempre la sua bellissima voce e mi sembra, anche, abbia guadagnato assai anche circa il modo di cantare. Esso, infatti possiede una qualità ben rara ne' bassi: è intonatissimo. Ciò che lo rende artista gradito assai. Ed ora chiuderà questa affrettata rassegna con una parola del più vivo e sincero encomio al cav. Bassi, direttore di orchestra. Raramente ho sentito l'orchestra andar così bene. Precisione, colorito, slancio, nulla le è mancato. Il pubblico ha fatto benissimo a non lesinargli gli applausi. Questi gli spettavano in tutta giustizia. Benissimo pure i cori, istruiti dal m. Gerbella. Noto con piacere, che i cori, da noi, hanno fatto da qualche tempo progressi rimarchevolissimi. Finalmente registrerò parecchie chiamate al comm. Magnani per le sue scene. In quanto al teatro, pubblico affollatissimo ovunque, Palchi quasi tutti pieni. Ma - debbo dirlo? - sia effetto della mia vista indebolita od altro, le signore mi hanno fatto l'effetto - salvo lodevoli eccezioni - di essere assai mal vestite. Possibile che le parmigiane vogliano rinunciare a mantenere l'antica loro reputazione di eleganza? No, non lo voglio credere. Preferisco dire che ho visto male.
Z.


"Gazzetta di Panna" del 15 gennaio 1886

Sono ben contento di non aver ieri, a causa della vacanza, dovuto render conto della prima rappresentazione dell'Aida senza quella benedetta vacanza avrei dovuto registrare un semi insuccesso: invece, siccome alla seconda rappresentazione, le sorti dello spettacolo si sono grandemente rialzate, con tutto il piacere constato un successo, se non di entusiasmo, almeno molto lieto e che promette di aumentare per l'avvenire. Perché la causa del semi insuccesso della prima sera è derivata oltre che dal panico degli artisti, che ne paralizzava le forze, dal non essersi fatte prove a sufficenza. Se lo spartito fosse stato messo in scena più maturo, certi squilibrii, certe oscillazioni nelle masse sarebbero state evitate; certe stonazioni, certe note disaggradevoli per parte degli artisti si sarebbero potuto benissimo evitare. Senza questi inconvenienti, emendati, in gran parte, della seconda rappresentazione, l'Aida sarebbe apparsa al pubblico spettacolo accettevolissimo, dacché alle bellezze sublimi della musica si avrebbe avuto una esecuzione commendevole, una messa in scena più che decente, perché se gli abiti non sono tutti bellisimi, almeno sono nuovi e le sole tre scene nuove dipinte dal Magnani - massime quelle che rappresentano le rive del Nilo e il tempio con il sotterraneo - sono di quei soliti portenti che tutto il mondo applaude e c'invidia. Non è dunque più il caso di occuparsi della prima rappresentazione, ma soltanto di constatare il successo della seconda. Successo che fu incontrastato, completo fin dalla prima sera per parte del baritono Menotti, un Amonasro pieno di slancio e di selvaggia passione e della signorina Cattaneo, la quale guadagna assai a vestire le spoglie d'Aida, dove può sfoggiare i suoi magnifici acuti. Essa ha cantato deliziosamente la sua romanza nel terz'atto, ha diviso in giusta metà col baritono gli applausi calorosissimi coi quali il pubblico li salutò dopo il celebre duetto, e si dimostrò dal principio alla fine, non solo un'artista che sa cantare, ma che interpreta con grande intelligenza la parte che rappresenta. Il tenore signor Figner, che alla prima rappresentazione, smarritosi di coraggio era andato giù di carreggiata parecchio, ha, ottenuto alla seconda una bella rivincita. Egli fu applauditissimo nella sua romanza, dove Tobia Bertini ha avuto il tatto di eliminare una poco felice nota di testa e in molti altri punti dell'opera, ma specialmente nel duetto del terz'atto, nel susseguente terzettino e nel duetto finale. Io, soltanto, azzardo di dargli un suggerimento: non sforzi troppo la voce, non tenga di soverchio la nota per smania di ricavarne effetto; anche senza sgolarsi si può essere efficaci e drammatici. In ogni caso, il Figner, che si è già dimostrato artista lodevolissimo, sono persuaso che farà ancora meglio nelle prossime rappresentazioni. La signora Mey, fu una bellissima Amneris intelligente e piena di slancio. Peccato che la relativa debolezza del suo registro basso le tolga il modo di ricavare, in certi punti, quegli effetti, che altre artiste, meno di lei dotate in fatto a voce ed intelligenza, non mancavano mai di ottenre. Essa ebbe grandi applausi nel duetto con Aida nel second'atto e nella sublime scena del giudizio. Il basso Contini, fu un eccellente Ranfis. Questa parte gli si attaglia benissimo. Il Re si appalesò molto costituzionale in fatto ad intonazione; ma, in questi tempi, come trovare un re assoluto e che non transiga in fatto di bemolli e di diesis? In quanto all'orchestra ed alla direzione debbo dire che mercoledì sera le cose non andarono assolutamente bene. Certi tempi - e lo dico con somma peritanza, trattandosi d'un esimio artista qual'è il cav. Bassi - mi sono sembrati ben diversi da quelli che dovevano essere, secondo l'interpretazione classica voluta dal sommo Verdi; ma anche in ciò ci è stato un sensibilissimo miglioramento ieri e non esito a credere che alla terza rappresentazione non ci sarà più assolutamente a ridire. Tutto sommato, dunque, ritengo che il pubblico continuerà a mostrarsi pago dello spettacolo e che esso attirerà sempre un grande concorso con legittima soddisfazione dell'Impresa.
Z.


"Il Presente" del 17 gennaio 1886

Abbiam dato promessa ai lettori di riparlare dello spettacolo dell'Aida, e la manteniamo, tanto più che il succedere così repentino d'una recita applaudita ad un fiasco (la parola è dura, ma giusta) come quello di Mercoledì sera è un fatto veramente impreveduto, e non sarà fuor di luogo dirne qui qualche parola. Lo spettacolo di Mercoledì sera non fu certo decoroso: stonate, mancanza di preparazione e d'affiatamento, panico stragrande negli artisti: ma è debito di giustizia notare anche che nel pubblico c'era molto malumore e molta diffidenza, malumore e diffidenza cagionato dal mistero di cui, ben poco saggiamente, non sappiamo se la commissione teatrale o l'impresa volle circondare, contro ogni consuetudine le prove generali. Il pubblico messo in sospetto era Mercoledì sera freddo, inflessibilmente severo: gli artisti spaventati fin dal principio da quell'aspetto glaciale, fecero molto peggio di quello che avrebbero potuto fare in condizioni normali: l'unico forse che non si lasciò vincere affatto dal panico fu il bravo Menotti, che riscosse maggior numero d'applausi dei colleghi suoi in quella sera d'insuccesso, e che trascinò Giovedì all'entusiasmo, insieme colla Signorina Cattaneo, nel duetto dell'atto terzo. Il Figner specialmente si lasciò vincere troppo dal panico Mercoledì, e la seconda sera, in cui egli seppe dominarsi riuscì un buono, se non ottimo Radamès. E veramente non credevamo che il Figner applaudito nei teatri principali in opere difficilissime come gli Ugonotti non potesse anche riscuotere applausi nell'Aida. Certo è che, nuovo dell'opera, non ha ancora quel grado di preparazione che gli può dare un possesso sicuro della parte sua: ma crediamo che dopo alcune rappresentazioni e dopo un po' di studio più diligente potrà sostenere benissimo la parte sua ed essere, come fu nella Gioconda, all'altezza della sua fama. Il discorso ci ha portato a parlar subito del Figner prima che delle signore, alle quali chiediamo scusa. Ma quanto a loro c'è poco a dire. La Signorina Cattaneo è una brava, una intelligentissima Aida e se le fan difetto le note medie, sa far sfoggio di quando in quando d'acuti bellissimi. Anche la Signora Mey sostiene degnamente la parte sua e il pubblico ha fatto bene ad applaudirla Giovedì sera nel duetto e nella scena del giudizio dell'atto quarto. Contini è sempre quel cantante inappuntabile che conosciamo, e siccome nell'Aida non ha bisogno spigliatezza in sulla scena, ci pare che qui sia più a posto che nella Gioconda. I cori che nella prima sera andarono un po' malaccio fecero molto meglio Giovedì. L'orchestra non va ancora così bene come nella Gioconda. La messa in scena dicemmo fin dalla prima sera che lascia un po' a desiderare: ad esempio le scene del primo e second'atto non soddisfano il pubblico avvezzo ai magnifici scenari del Magnani: e poi c'è qua e là qualche diffettuccio che verremo man mano notando nel corso delle rappresentazioni, se pure l'impresa vorrà tenerne conto e non farà come nella Gioconda, in cui, non ostante le nostre proteste ripetute s'è ostinata a mandare a ballar i cavalieri in assetto da guerra. In complesso speriamo che nelle recite successive s'andrà anche meglio e si toglieranno i difetti che potevano ancor notarsi Giovedì, e ché se non avremo un'Aida inappuntabile, non ci sarà nemmeno un balzo così brusco tra l'esecuzione del capolavoro di Verdi e quella inappuntabile della Gioconda.
c.c.


"Il Presente" del 27 gennaio 1886

L'Aida ebbe ier l'altra sera esito tutt'altro che felice; il pubblico ha zittito parecchie volte durante la recita, ha zittito e ha anche fischiato a spettacolo finito, e, in verità, non so come si potrebbe dargli torto. Francamente le esecuzioni dell'Aida parve al pubblico e parve a noi che progrediscano a modo dei gamberi: certo l'esecuzione di ier l'altra sera fu più infelice della seconda e della terza. Tante incertezze delle prime recite avremmo sperato non fossero più nelle successive: abbiam sperato invano. L'Aida di domenica sera ha fatto ancora a tutti l'effetto d'una prova. È un vero peccato vedervi sacrificati artisti di meriti indiscutibili, di meriti, che in altre opere potrebber essere degnamente apparezzati. Certo è che, l'Aida come è ora il pubblico non è disposto a tollerarla, ed ha ragione.
c.c.


"Gazzetta di Parma" del 16 febbraio 1886

L'Impresa del R. Teatro ha già fatto distribuire agli artisti ed ai coristi le parti della nuova opera del maestro Bandini, Fausta. Tutti coloro che hanno simpatia pel giovane maestro nostro concittadino - e sono molti - e quelli che s'interessano per l'incremento dell'arte in questa nostra città, alla quale, ormai, più altro non rimane che l'antica sua riputazione artistica, ne andranno oltremodo lieti e ringrazieranno l'Impresa, per questa sua determinazione e gli artisti che hanno accondisceso ad accettare la nuova parte. Questi, in special modo, meritano lodi e ringraziamenti. Quando si pensi che essi hanno finito, giusto ora, di mettersi in gola uno spartito nuovo e che taluni, come la signorina Cattaneo ed il tenore Figner, in questa stessa stagione, oltre la Marion Delorme, hanno dovuto imparare di sana pianta anche la Gioconda e l'Aida, mai prima cantante; l'accettare una parte in un'altra opera nuova, di un maestro giovane, poco noto, è un'azione veramente meritoria e di rara solidarietà artistica, della quale, voglio credere, il pubblico terrà loro il debito conto. Venuta dopo tre spartiti di autori famosi eseguita da artisti e da masse necessariamente stanchi e svogliate, questa Fausta, in condizioni normali, non avrebbe avuto grandi probabilità di successo; ed io - lo confesso - in addietro, non sapeva neppur in se augurare al maestro Bandini che gliela rappresentassero. Ma doppoiché gli egregi artisti del Regio hanno accettato di buon grado di cantare la Fausta e conoscendo per prova, quanto zelo, quanto amore, quanta intelligenza artistica mettano nel disimpegno della loro parte; non posso a meno di congratularmi col giovine maestro, il quale può avere fin d'ora la sicurezza che la sua opera sarà eseguita con talento e coscienza. Considerati i tanti ostacoli che su la sua via incontra sempre un giovane compositore questo di trovare artisti coscienziosi e valorosi è già una grande fortuna ed avrà, per meta, il successo.
Z.


"Il Presente" del 18 febbraio 1886

Nemmeno domenica sera il pubblico nostro s'è pronunciato intorno a questa discussa Marion. Ma per quanto non ancora ben definito e ben certo il giudizio dei Parmigiani, a noi pare di vederlo inchinevole a favore dell'opera del Ponchielli. Noi crediamo che le non poche bellezze dello spartito non tarderanno ad essere gustate a dovere e più che un'accoglienza di tolleranza la Marion avrà un'accoglienza di favore. Domenica sera ad esempio fu gustato il terzettino finale, mirabilmente originale, e fu applaudito, mentre sabato è passato sotto un silenzio glaciale. E scommettiamo che fra qualche sera piacerà il preludio, che noi quasi oseremmo dire ancor migliore di quello della Gioconda; la nostra brava orchestra lo eseguisce assai bene ed è un vero peccato che una così bella musica e così ben eseguita, passi sotto silenzio. Del second'atto piacque domenica la scena della sfida e il coro finale; nel terzo si principiò a gustare il duetto d'amore ricco di melodia veramente italiana. Il preludio del quarto atto fu, tanto sabato, che l'altra sera, bissato ed entusiasticamente applaudito. L'esecuzione non potrebbe esserne migliore. Bravissimo l'esimio Maestro Bassi: - Egli ha concertato e dirige l'opera del povero Ponchielli con affetto scrupoloso d'amico: è il miglior omaggio che poteva rendere alla sua memoria. Ma a noi nessuno leva di capo che tante bellezze rimaste fino ad ora inosservate pei più, come la mirabile romanza di Marion nell'atto primo, come il duetto fra Marion e Didier: "La in quel nido a profumi di rosa" riusciranno a destare l'entusiasmo, come, non v'ha dubbio, l'ha destato fra noi e dovunque la Gioconda. La finezza del lavoro orchestrale, la potenza dei recitativi sarà ammirata col tempo. Dell'esecuzione non potremmo dire tanto bene che non ne pensiamo anche meglio. È degna del nostro teatro, e degna del Ponchielli. La signorina Cattaneo è una intelligentissima Marion: il Fignier è un bravissimo Didier, Menotti è insuperabile. Bene la spigliata e graziosissima Signorina Guarneri, e il nostro Contini (1) . I cori, che han parte difficile assai, van sempre benissimo, in grazia delle intelligenti e amorose fatiche del loro bravo Maestro Gerbella.

(1) Benché stia orribilmente in iscena. Ed è un vero peccato perché i mezzi vocali del Sig. Contini che non sono comuni, non possono essere gustati come dovrebbero per la nessuna sua spigliatezza sulla scena. Nota della Direzione.


"Gazzetta di Parma" del 20 febbraio 1886

Dunque niente Fausta; ma invece si darà per quart'opera al Regio il Faust. Le cose sono state condotte in modo e con tant'arte, che il povero maestro Bandini ha dovuto riconoscere essere meglio per lui ritirare le parti giù distribuite. Mi pareva fino impossibile che un concittadino dovess'essere, non dirò protetto - la mia sarebbe troppa pretesa - ma neppure osteggiato, che, allorquando mi si disse, che la Fausta sarebbe rappresentata, quasi non voleva credere. Ho creduto quando seppi che le parti erano già state distribuite; ma come si vede ho avuto torto marcio. Me ne dispiace pel bravo maestro Bandini; ma il torto è un po' suo. Un artista d'ingegno e di valore dovrebbe avere il buon senso di nascere altrove e soprattutto, di non credere che Parma, che pure si vanta città eminentemente musicale, sia il luogo dove un giovane possa sperare aiuto e protezione. Ma che parlo di aiuto e di protezione? Dovrei dire: dove possa sperare di non essere avversato in ogni modo. Si consoli però il maestro Bandini: egli non è il primo che riceva siffatto trattamento e, se Dio vuole, non sarà nemmeno l'ultimo.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 4 marzo 1886

Ricevo dall'Impresa al momento d'andare in macchina la seguente comunicazione:
Egregio Signor Direttore
L'Impresa, disposta a sottostare ai più gravi sacrifici, pur di poter offrire il quarto spettacolo in modo da dire: "Tutto è, perduto, tranne l'onore" nulla lasciò d'intentato onde riuscirvi. Ma le sue cure, la sua buona volontà dovette capitolare davanti ad un cumulo fatale di contrarietà che resero inutili tutti i suoi tentativi. In tale frangente non gli rimane che di rivolgersi, per mezzo del pregiato suo giornale, a suoi abbonati, onde vogliano riconoscere nell'Impresa, più disgraziata che colpevole, il buon intendimento di corrispondere degnamente alla fiducia delle competenti autorità che le affidarono l'allestimento degli spettacoli in corso. L'Impresa è disposta di restituire l'importo dell'abbonamento a quei Signori Abbonati che intendessero rinunciare a queste ultime recite, nelle quali spera però di potere adempiere l'obbligo della quarta opera in modo degno delle tradizioni di questo Regio Teatro. Voglia Esso pure Egregio Signor direttore patrocinare presso il pubblico la nostra causa, facendo vedere, quanto sia difficile oggi giorno riescire a condurre senza inciampi una stagione teatrale. Colla massima stima
Per l'Impresa Luigi Cesari e Comp.
CARLO SUPERTI


"Gazzetta di Parma" del 11 marzo 1886

Sarò brevissimo perché ho lo spazio misurato. Il Faust ebbe, iersera, un esito trionfale, con un teatro bellissimo e quale non avrei sperato mai in primo giorno di quaresima e dopo un veglione. Tutti gli artisti hanno avuto replicatamente applausi fragorosi ed unanimi. Il Vecchioni ha bella voce e si atteggia benissimo. Specialmente nella ballata e nella serenata, riscosse applausi calorosi. La signorina Cattaneo è una Margherita deliziosa. L'aria dei gioielli e la stupenda frase del terzetto finale, ha detto con un sentimento artistico ed una potenza tale di voce da strappar gli applausi dello spettatore il più freddo di questo mondo. Un buon Faust si appalesò pure l'egregio Figner, che disse assai bene la divina romanza ed il soave duetto con Margherita. Della piccola parte di Valentino, il bravissimo Menotti ha saputo ricavare tanto effetto da parere quasi la parte principale. Direi, anzi, senza far torto agli altri valenti suoi compagni, ch'egli fu l'eroe della serata. La sua aria nel secondo atto - che per la maggior parte del pubblico è riuscita cosa, nuova, essendo che gli altri baritoni, per solito, l'omettono - la proposta dello stupendo corale e, particolarmente, la scena della morte, egli disse da grande artista, dopo la quale il pubblico gli fece una vera ovazione. Buonine anche la signora Sans, un Sibel grazioso, e la Marta. Orchestra e cori meritano pure sinceri encomi. Così, dopo tante peripezie, si è sicuri di terminare la stagione nel modo istesso con cui la si è iniziata, cioè, benissimo.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 12 gennaio 1886

Ieri sera ha avuto luogo la prova generale dell'Aida. Non potrei dire, anche se lo volessi, come sia andata, perché non c'ero. Ieri sera al teatro avevano dato tanto di chiavistello e non passava nemmeno una mosca. Per me, che non sono uso a bazzicare pel teatro fuori delle sere di rappresentazione, posso dire liberamente, sul proposito, l'avviso mio, senza tema d'essere sospettato di parlare per dispetto. Ebbene, dirò che queste continue alternative di rigori eccessivi e di larghe indulgenze, circa al permesso d'assistere alle prove, non mi sembrano ragionevoli e giustificate. Non so da chi provenga questo: se dalla Commissione o dall'Impresa. Chiunque sia, ha torto, perché in tal modo si fanno molti scontenti. Gli appassionati pel teatro non si sanno capacitare, infatti, per qual ragione sia permesso a tanti d'assistere alle diverse prove e, poi, ad un tratto, siano esclusi dalla prova generale, anche coloro ai quali la consuetudine concede una specie di privilegio d'assistervi. Per lo passato, abbonati e palchettisti avevano libero accesso in teatro per la prova generale d'ogni opera che andava in scena. Poi questo diritto consuetudinario è stato saltuariamente disconosciuto, sicché, ora gli abbonati non sanno più come regolarsi e a taluni di essi è capitato di vedersi respinti dai portieri, mentre credevano di poter entrare liberamente. Ciò che secca assai. Credo, dunque, che si dovrebbero stabilire, relativamente alle prove, alle regole fisse, invariabili, a scanso di equivoci e di malumori per l'avvenire. E se la Commissione teatrale, messa lì per la tutela dei diritti del pubblico, crede che non si debbano più conservare le consuetudini antiche, almeno che lo dica una volta tanto.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 6 marzo 1886

La situazione dell'Impresario del Regio e della Commissione - l'ho già detto - è grave. La stagione carnevalesca, incominciata egregiamente con la Gioconda, è andata man mano peggiorando. Si è dato un'Aida che non ha molto soddisfatto; la Marion Delorme, venuta terza, non ha piaciuto niente affatto. Questo insuccesso impreveduto ha scombussolato affatto il piano dell'Impresa. S'era già perduto un tempo enorme per mettere in scena la Marion Delorme, e, questa essendo caduta, l'Impresa s'è trovata arenata e nell'impossibilità di presentare al pubblico il quarto spartito promesso, od un'opera di ripiego. Ci fu per parte dell'Impresa un soverchio ottimismo, che ha degenerato in imprevidenza; ma ci fu anche della disgrazia parecchia. Fu imprevidente sperando che una sola compagnia di canto potesse arrivare fino al termine della corrente stagione senza contrattempi; fu imprevidente nel non ammanire una di quelle solite opere di ripiego che le permettesse di guadagnar tempo, intanto che accudiva all'andata in scena degli spartiti d'obbligo; ma bisogna pur dire che fu disgraziata, nel non aver potuto trovare un buon basso per la parte di Mefistofele nel Faust. Senza questo contrattempo, la stagione si sarebbe potuta chiudere brillantemente, come era stata incominciata. Ma, oramai, quello che è fatto è fatto, né giova riandar sul passato. Occupiamoci, invece, del presente. Ora, cosa si fa? Si deve chiudere il teatro e terminare la stagione in sì mal modo? Ho inteso dire che si conta ridare la Gioconda, domenica sera a benefizio dei poveri, quindi mettere in scena, il più presto possibile, il Faust, con un eccellente basso, che viene ad assere tra poco disponibile. Io non posso che lodare la determinazione di non chiudere il teatro. Tale misura, se si pensa anche al numero di persone che, in questi giorni, convengono dal di fuori in città, appunto per passare lietamente una sera all'opera, sarebbe stata assai pregiudizievole agl'interessi della città. Avrei, però, preferito che la serata dei poveri avesse luogo questa sera con la Gioconda e domani fosse ridata la Marion Delorme non contandola in abbonamento, perché non sono pochi coloro che desidererebbero riudire questo spartito ancora una volta. In tal modo si sarebbero potuti conciliare gl'interessi giustissimi degli abbonati, e quelli dell'Impresa, la quale, se ha fallato, non merita però, d'essere osteggiata dal pubblico. Temo che questo mio consiglio arrivi troppo tardivo e, quindi, non si possa mettere in atto. In ogni caso spero che i signori abbonati non vorranno tradurre il loro giusto risentimento in una opposizione accanita, che non gioverebbe ad alcuno.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 18 gennaio 1886

MORTE DI AMILCARE PONCHIELLI
Muore Ponchielli il 16 gennaio: scrive, tra l'altro, Z. della Gazzetta di Parma:
"...Il pubblico comprese che il Ponchielli era un maestro in tutta la larga estensione della parola. Con la rappresentazione della "Gioconda" Ponchielli raggiunse il culmine della fama. Questo spartito corse, non solo in tutti i principali teatri d'Italia, ma ottenne successi grandissimi all'estero. Il "Figliuol Prodigo" datosi nel 1880 e la "Manon Delorme" ebbero piuttosto un successo di stima se non ebbero la facoltà di commuovere le masse, gl'intelligenti vi riscontrarono sempre nuovi progressi nello stile e nell'arte dell'istromentare."
"...Perché il maestro Ponchielli, istrumentatore elaborato, stilista severo, abborritore delle platealità, non rinnegò l'ispirazione, caratteristica dell'arte italiana. Nelle sue opere, la melodia scorre limpida, ritmica, serena. Ed è questo, un titolo di gratitudine che gli serberà la nostra grand'arte; tanto più ch'egli visse in un'epoca, dove il farnetico per l'arte d'oltralpe, tanto contraria ai gusti ed alle tradizioni italiane, cerca imporsi e dar lo sfratto alla nostra, mercè la complicità dei cervelli eunuchi che cercano supplire, con le astruserie, la deficenza dell'estro.
Se il maestro fu degno seguace dei grandi che hanno immortalato l'arte italiana; l'uomo meritò la stima e l'affetto profondo di quanti lo conobbero. Di gusti semplici, bonario, alla mano, gioviale, persino nelle sventure - e n'ebbe parecchie - non cambiò natura con la buona fortuna. Gli antichi amici ebbe sempre carissimi; fu compassionevole cogli sventurati: non smentì mai l'antica modestia. I suoi tratti di spirito - spirito bonario e non decorticatore - le sue innumerevoli distrazioni hanno dato argomento a mille aneddoti giocosi; ma tutti dimostrano in lui l'uomo buono, onesto, affezionato, cui neppure la sorte caso ben raro! - poté guastare. E questi aneddoti si ripeteranno, ora che il dolore per la morte di lui è cocente in tutti, ed altri inediti - perché il numero n'è infinito - si racconteranno. Il mesto e dolce sorriso che provocheranno, sarà per la bella anima sua, il più gradito tributo alla memoria di chi visse col sorriso su le labbra e la sventura rintuzzò inalterabilmente con la più festosa giocondità."
Z.

 

 

"Gazzetta di Parma" del 18 dicembre 1886

Persistendo l'indisposizione dell'egregia signora Singer, che la metteva nell'impossibilità di prender parte alle rappresentazioni del Mefistofele all'epoca stabilita l'Impresa è venuta nella determinazione di scritturare per otto rappresentazioni la signorina Nadina Boulitcioff. Scelta migliore non poteva esser fatta. La signorina Boulitcioff non è sconosciuta ad una parte del pubblico parmense, avendo ella preso parte ad uno dei concerti data dalla nostra Società del Quartetto, in cui fu applauditissima. D'allora in poi, la signorina Boulitcioff ha fatto una invidiabile carriera artistica, ed ha sempre calcato le maggiori scene d'Italia. Terminato il corso delle rappresentazioni con la signorina Boulitcioff, verrà messa in scena la Dinorah per poi riprendersi le rappresentazioni del Mefistofele con la signora Singer. L'Impresa, per dire la verità, ha fatto le cose da gran signore e voglio sperare che il pubblico assecondarà i suoi sforzi per dare uno spettacolo, senza esagerazione, degno proprio di un teatro di prim'ordine.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 26 dicembre 1886

Non mi aspettavo un successo entusiastico; nè entusiasmo ci fu. Conosco i miei concittadini e so che essi non si lasciano imporre, in fatto di spettacoli, dai giudizi altrui. Il Mefistofele ha un bel aver ricevuto il battesimo e la cresima dai principali teatri del mondo; ma se al pubblico parmigiano non fosse piaciuto, gli avrebbero amministrato essi il sacramento dell'estrema unzione, con la più grande disinvoltura, fischiandolo di santa ragione. Per me questo è il lato bello dei parmigiani. Il giudizio dato, iersera, di questo colossale spartito, fu quale doveva essere da un pubblico non prevenuto nè in bene nè in male, dopo una prima audizione. Gli entusiasmi non li avrei capiti nè creduti spontanei, frutto d'un'impressione non artificiale. Il Mefistofele, che pur racchiude pagine di impareggiabile bellezza e che impressionano d'acchito l'uditorio, è un'opera che vuol essere ascoltata con raccoglimento, meditata, digerita - per così esprimermi - col cervello e coll'anima. Ciò che è impossibile ottenersi alla prima rappresentazione. Io sono, però, persuaso, che man mano che l'opera sarà ascoltata e che molte delle sue bellezze, passate, iersera, inavvertite, saranno afferrate, essa piacerà e molto, perché effettivamente è la estrinsecazione di un talento affatto superiore. Con ciò non intendo dire che tutto, dal principio alla fine, sia bello nel Mefistofele. A mio avviso ci sono non pochi difetti imputabili all'autore e al dramma. Del libretto ho parlato ieri l'altro e da quel poco che ho detto dacchè molto di più avrei potuto dire, ove lo spazio me lo avesse concesso - credo aver dimostrato che Boito, musicando il poema di Goethe, ridotto alla quintessenza, ha creato colle proprie mani delle difficoltà insormontabili, dacchè l'elemento lirico vi è sopraffatto, affogato dall'intento filosofico, il quale - checchè pretenda in contrario una certa scuola moderna - è assolutamente incompatibile con la scena. Di qui lo studio faticoso ed affatticante del maestro di esplicare, di commentare con una successione di suoni più o meno armonici, con frasi monche, a singhiozzi; con ritmi spezzati e saltabeccanti il pensiero ascoso del personaggio, i diversi moti dell'animo, che nemmeno il verso riesce a manifestare. C'è spesso del farraginoso, in quella musica; molta borra sonora e rimbombante, che male nasconde la povertà del concetto o l'impotenza a tradurlo. Ma ci sono anche le pagine elette, degne veramente d'un grande compositore e se nello spartito di Boito manca lo sprazzo luminoso del genio prepotente, che trascina; ciò che comunemente dicesi: la zampa del leone; spesso si riscontra un fare largo, come ispirazione calda, gentile che commuove e conquide. Il tempo mi manca per fare un'analisi minuziosa dello spartito. Mi limiterò, perciò, ad accennare i punti salienti e quelli che hanno fatto maggiore impressione sul pubblico. Il prologo, il pezzo più pericoloso per la sua troppa lunghezza, per la stranezza della situazione scenica, per la immensa difficoltà della esecuzione; fu ascoltato con grande raccoglimento e senza segni di stanchezza. In ultimo però quando le voci dei cori s'intrecciano e si fondono in quell'inno maestoso, improntato a vera grandezza mistica e che termina con uno scoppio di sonorità d'effetto irresistibile, un lunghissimo e generale applauso risuonò per tutta la sala. Passò, in cambio, sotto silenzio la parte prima del primo atto; ma, nella seconda parte, vi furono applausi pel tenore Puerari dopo l'aria "Dai campi, dai prati che innonda la notte." ed al basso Monti, dopo l'aria del fischio. Il quartetto dell'atto secondo, pezzo zeppo di bellezze, indovinatissimo, eseguito egregiamente, riscosse applausi immensi, fu fatto ripetere e, dopo, gli artisti vennero evocati più volte all'onore del proscenio. Il sabba romantico che pur racchiude brani altamente encomiabili, forse per la soverchia lunghezza, non riscosse che freddi applausi, quantunque eseguito in modo degno d'ogni elogio, tanto per parte del Monti, quanto per parte dei bravi coristi. La nenia di Margherita - una pagina piena di soavità e una delle più ispirate - che la signora Boulicioff ha cantato da artista finita, piacque assai e l'egregia artista venne calorosamente applaudita. Il susseguente duetto altro pezzo che racchiude insigni bellezze: fu gustato assai e fu interrotto da frequenti battimani. Qui, specialmente, la sig. Boulicioff, nell'ultima frase ispiratissima e di dolcezza ineffabile, ottenne un successo grandissimo. L'atto del sabba classico è assolutamente bello da principio sino in fondo. Bellissima la serenata, in cui le voci della signora Boulicioff e della signorina Carotini s'impastano soavemente; bella la visione di Elena "Notte cupa, truce;" stupendo il duetto tra Elena e Faust, terminante con una frase caldissima che il coro ripete con effetto irresistibile. Dopo questo atto, vi furono applausi e chiamate in buon numero. Anzi, dirò, che il pubblico ha applaudito intempestivamente, impedendo, così, che si sentissero poche battute di coro a sipario calato di bellissimo effetto. Raccomando, perciò, di non aver fretta, stasera, ad applaudire. L'epilogo, anch'esso, è cosa stupenda, direi, anzi, che è la parte più riuscita dello spartito. Accenni alle frasi del duetto tra Faust e Margherita rivelano quali rimembranze si affollino alla mente del vecchio Faust, mentre il brontolio sordo dei contrabassi dipingono l'influenza malefica di Mefistofele. Soavemente ispirata è l'aria di Faust: "Giunto sul passo estremo", che il Puerari ha cantato con un sentimento, una interpretazione finissima; insomma: da vero artista. E quando il genio del male lotta col genio del bene e questo vince nell'animo di Faust; l'inno di gloria all'Eterno - già udito nel prologo - erompe maestoso e solenne, con tale potenza d'affetto da trascinare il più freddo spettatore all'applauso. Ma qui, invece, gli applausi - contrariamente ad ogni mia previsione - furono scarsi e fredducci. A che debbo attribuire tale freddezza? Al non aver afferrato il pubblico le bellezze della musica? Alla stanchezza causata dalla troppo intensa e prolungata attenzione? Si vedrà in seguito. In quanto all'esecuzione, non ho che elogi pieni, incondizionati da prodigare, sia ai cantanti, sia alle masse corali ed istrumentali. Il nostro è uno spettacolo in tutto, degno di qualsiasi teatro di prim'ordine; e, se togli i teatri sovvenzionati con doti di straordinaria ricchezza, non so quale altro vi potrebbe star del pari. La signora Nadina Boulicioff è un'artista eletta. Interpretare il personaggio di Margherita, gaia ed ingenua, prima; triste ed appassionata, poi; per quindi rivestire le spoglie di Elena sensuale ed affascinante; è impresa ardua assai; e l'egregia artista l'ha saputo fare in modo degno del più sincero encomio. E la cantante uguaglia in merito l'artista. Bellissimo è il timbro della sua voce fresca argentina, agile. Squillanti sono le sue note acute; pastosi e resi senza sforzo i bassi, che più d'un contralto le potrebbe invidiare. Il suo è stato un successo meritato e che aumenterà certamente nelle prossime rappresentazioni. Il tenore Puerari anch'esso è un cantante di molto merito, per intelligenza e coscienza d'artista, e pe' suoi mezzi vocali eccellenti. Nella scarsezza odierna dei tenori, il Puerari, a buon dritto, può pretendere d'essere annoverato tra i primi. Se la sua voce non è voluminosissima, è però simpatica, uguale, intonata ed ha il vantaggio prezioso di salire con grande facilità negli acuti. Egli merita, certamente, gli applausi di cui fu fatto segno. La parte difficilissima quanto strana ed ingrata di Mefistofele è una specialità del basso Monti. In tutti i teatri egli riportò un completo successo e iersera il pubblico parmigiano, applaudendolo, non ha fatto che confermare, a pieno, il giudizio favorevolissimo degli altri pubblici. Egli è dotato di mezzi vocali robustissimi e si addimostra attore di grande intelligenza. Anche la signorina Carotini, per quel tanto che si è potuto giudicare - chè le particene di Marta e di Pantals non sono di grande risorsa per un'artista - ha voce gradevolissima, buon metodo di canto e - ciò che non guasta mai - una figura delle più simpatiche. In un altro spartito, in cui ella possa sfoggiare tutti i suoi mezzi, sono persuaso che saprà ottenere, anche dal pubbblico di Parma, quel successo lusinghiero che seppe meritarsi presso altri pubblici. I cori sono andati egregiamente. E se si pensa che ad imparare la difficilissima parte hanno impiegato molto meno tempo che i coristi di altri teatri principali - la Scala non esclusa - è debito di vera giustizia tributare loro ed all'infaticabile e bravissimo maestro Gerbella che gl'istruì una parola di caldo elogio. Ed è anche verità rigorosa che da parecchio tempo non si era udita una esecuzione orchestrale così lodevole e perfetta. I nostri bravi professori vi hanno messo tutto il loro impegno e iersera sono riusciti a dimostrare che l'orchestra di Parma, malgrado tante contrarie vicende, è sempre degna della bella fama che gode e per cui, un tempo, andò famosa. Del bravissimo maestro Ferrari suo direttore, non ho parole sufficienti per dirne bene siccome merita. Egli ha concertato e diretto il difficile spartito del Mefistofele, come solo un direttore di primissimo ordine lo saprebbe. Animo, colorito, sfumature deliziosissime gusto eletto, scevro da smancerie e platealità; nulla è mancato alla sua direzione. Quello del maestro Ferrari fu un successo pieno, incondizionato e che - non so perché - ha recato sorpresa a parecchi. Non certo a me, però, che ho avuto sempre un alto concetto dell'ingegno, del fino intuito e, della coscienza d'artista di lui. Ho sentito nell'atrio in uno degli entre-acts - dire che il maestro Ferrari si era presa una bella rivincita. L'espressione non mi è sembrata corretta. Direi piuttosto che egli si è vendicato e vendicato nobilmente di un immeritato oblio inflittogli dai suoi concittadini, i quali, però, con gli applausi di iersera, hanno fatto ammenda onorevole della loro ingiustizia. Le scene sono state dipinte tutte quante dal comm. Magnani e ciò mi dispensa da qualsiasi elogio. Stupenda, tra le altre, quella dell'atto quarto. I vestiari, per verità, potrebbero essere migliori, ma non si può nemmeno dire che siano indecenti. Per compiere la cronaca della serata di ieri dirò, che il teatro era rigurgitante, imponente. Le nostre belle signore erano splendide. Forse è per questo che negli intermezzi si è creduto superfluo dare una conveniente pressione al lampadario. E si è fatto male: nemmeno dello splendor degli occhi delle signore conviene abusare. Riassumendomi, dirò che il nostro spettacolo, sotto tutti i rapporti, è meritevole del pieno favore del pubblico; e di ciò va dato merito e alla Commissione - ho detto male di lei tante volte, che, oggi, m'è caro il cambiar metro - ed all'Impresa, la quale non ha usato lesinerie di sorta, per la qual cosa è giusto augurarle possa raccogliere onesto frutto delle sue fatiche.
Z.


"Il Presente" del 27 dicembre 1886

IL MEFISTOFELE al Regio
Il Mefistofele di Boito fu rappresentato la prima volta a Milano, al teatro della Scala, il 5 marzo 1868. L'aspettativa era immensa: una grande battaglia artistica si stava per dare nel nome di Arrigo Boito che tutti conoscevano come spirito innovatore, che gli avversari chiamavano pazzo. Il prologo piacque molto, ma il resto dell'opera non fu molto compreso e il Mefistofele cadde. Allora il Boito, seguendo i consigli della critica, operò parecchi tagli nello spartito, rifece molti pezzi e il 4 ottobre 1875 volle ritentare la prova al Comunale di Bologna. Ebbe un successo immenso, entusiastico, e d'allora l'avvenire dell'opera fu assicurato. Il Mefistofele seguì di trionfo in trionfo i principali teatri d'Italia e dell'estero e dopo diciotto anni di vita si è presentato al giudizio del pubblico parmense. Forse uno dei maggiori pregi dell'opera del Boito è l'accordo, l'unità di pensiero e di sentimento che esiste tra i versi e la musica. Il Boito scrisse i versi e poi li rivestì di note musicali: ecco donde nasce questa compenetrazione armonica. Quando il pensiero non era interamente reso dalla poesia, egli lo completava con la musica; dove il verso splendido rivelava un concetto, un pensiero, una passione, e gli subordinava la musica alla grandiosità dell'idea. Arrigo Boito artista, poeta e letterato, dovette lungo tempo meditare sul poema di Goethe, sino a che lo vinse l'ispirazione per tradurre in musica il pensiero del grande poeta tedesco. Infatti il Boito, così nei versi come nella musica, ha cercato con ogni mezzo di riprodurre e talvolta anche di chiarire il concetto goethiano. La prima impresa ardua doveva essere la riduzione a dramma lirico del poema di Goethe, cercando di mantenere tutti i particolari della leggenda: e a questo il Boito è pienamente riuscito, perché il suo dramma lirico, scritto con veri intendimenti d'arte, è profondo come concetto, armoniosamente immaginato e splendido nella forma. Quanto alla musica, si è accusato il Boito, e lo si accusa tuttora, d'essere troppo tedesco, di essersi innamorato delle astruserie musicali germaniche. Quest'accusa a me non par giusta: il Boito, sebbene educato alla scuola tedesca, sebbene grande ammiratore di Beethoven, ha preso da quella scuola e da quel maestro solo quelle grandiose ispirazioni che gli potevano con più facilità far descrivere le parti più orride del fantastico, che è tanta parte del dramma. Infatti la notte del Sabba, la ballata del mondo, la scena del patto, la canzone del fischio sono tra i pezzi che più rivelano la grande impronta dell'originalità, la profondità degli studi ed una certa tendenza alla scuola tedesca, specialmente al Meyerbeer. Il Boito si è appassionato con lo stesso ardore a tutte le diverse parti del suo dramma, che racchiude tutta la varietà delle situazioni, tutte le espressioni del sentimento e del pensiero umano: dal ghigno beffardo di Mefistofele al sorriso puro e angelico di Margherita ancor vergine e pura - dall'orrido d'un luogo infernale alle blande soavità d'un angolo luminoso e fiorito - dal pianto angoscioso d'una pentita all'amplesso divino di Elena, la personificazione della superba bellezza greca: ed il Boito ad ogni situazione, ad ogni passione volle dare il colorito proprio, vero, perché ha guardato con occhio sereno alla natura e ad essa più che ad altro s'è ispirato.
Quando si rivela un genio forte ed audace come quello di Boito, quando si presenta un capolavoro così spiccante nell'originalità e così completo nel suo organismo come il Mefistofele - ogni sofisma d'arte, ogni preconcetto di scuola deve sparire per dar luogo all'ammirazione ed al plauso. Nell'opera del Boito è larga, indefinita la melodia, melodia sublime, quasi celestiale, che incomincia subito nel prologo con un coro d'angeli e di cherubini, al quale rispondono le preghiere dei penitenti della terra: una fusione di voci e di strumenti d'effetto irresistibile, una finitezza squisita di accordi, che fa meravigliare. Il coro: Ave, Signor degli angeli e dei santi è grandioso, è solenne: una melodia larga, ispirata, che ha del mistico, e si ripete poi alla morte di Margherita e alla morte di Faust, quando le loro anime redente salgono al cielo. Nel suo lavoro il Goethe ebbe una ispirazione quasi musicale. Egli grande adoratore della forma incomincia il suo poema come lo finisce: l'inno glorioso al Signore, che le falangi celesti cantano all'introduzione della prima parte del poema, si ripete alla fine - e così il Boito ha sviluppato più chiaramente quell'aspirazione di Goethe riproducendo nell'epilogo il tema musicale svolto nel prologo. Riserbandomi di fare in apposite appendici un'analisi più minuta dello spartito, mi limiterò oggi ad accennare ai punti più salienti. In tutta la partitura abbondano la melodia, la soavità dell'ispirazione e la dolcezza del canto. Stupendo è il prologo, specie nel finale, che è un pezzo veramente magistrale e di effetto irresistibile. Bellissima, nella seconda parte del primo atto, l'aria del tenore: Dai campi, dai prati che inonda la notte e pregevole per una singolare impronta di originalità l'aria del fischio. Nel secondo atto, nella famosa scena del giardino, la musica rende mirabilmente l'ingenuità di Margherita, la sua ritrosia, quel fascino misterioso che a poco a poco la vince e la fa cadere nelle braccia di Faust: questo duetto d'amore intercalato nel quartetto è d'una fine delicatezza e vi aleggia una melodia soave e affascinante. Anche l'atto terzo, la nenia del carcere, il delirio di Margherita, il susseguente duetto son pagine di musica stupende e stanno a provare come sia ingiusta l'accusa di chi rimprovera a Boito di avere ripudiato la musa italiana per correr dietro alla musa tedesca. Tutto l'atto quarto racchiude da cima a fondo bellezze inapprezzabili. La notte del Sabba classico è un vero gioiello musicale: incomincia con una serenata a due voci d'Elena e Pantalis, circondate dalle sirene, circonfuse dalla luce blanda della luna, dove poesia e musica si confondono in un tutto armonico, soave, incantevole. Il saluto di Faust ad Elena: Forma ideal purissima e il duetto d'amore che ne segue sono d'una fattura splendida, d'una armonia incantevole che seduce, che affascina, che commuove: il motivo della danza delle Coretidi e il coro finale dell'atto rispondono in modo maraviglioso, e come colorito e come ritmo, alle rimembranze classiche della Grecia. L'epilogo, in cui si ripresenta il pensiero musicale svolto nel prologo, è stata, come ho già detto, una felicissima trovata dell'autore e racchiude pezzi di squisito effetto, come l'aria di Faust: Giunto sul passo estremo.
Certo in questo capolavoro del Boito non è cosa facile ritrovare alle prime audizioni tutti i pregi, tutte le riposte bellezze, perché la parte melodiosa è strettamente unita alla parte scientifica; ma dopo che l'opera si è intesa la prima volta, si prova forte il desiderio di riudirla ancora, di riudirla sempre per gustarla di più ed ammirarne le splendide bellezze. Infatti il pubblico parmense il quale, pure applaudendo la prima sera agli accennati punti più salienti dell'opera, aveva mantenuto un certo riservo nel pronunciare definitivamente ed esplicitamente il proprio giudizio sullo spartito, è accorso ieri sera numerosissimo a riudirlo e l'ammirazione si è fatta più profonda e più sentita per il capolavoro boitiano e gli applausi sono scoppiati più vivi, più clamorosi, più insistenti, dando alla serata il carattere d'un successo pieno, completo, incondizionato. E a questo splendido successo ha contribuito potentemente l'esecuzione, ch'io non esito a chiamare ottima sotto ogni rapporto. La signora Nadina Boulicioff è una attrice-cantante di primissimo ordine ed è il vero tipo ideale della Margherita goethiana, nello stesso modo che riesce insuperabile sotto le spoglie di Elena. Ha voce bella, estesa, intonata, di timbro gradevolissimo e sa stare sulla scena come un'attrice drammatica delle più reputate. Ella è entrata subito nelle simpatie del pubblico, che non lascia d'applaudirla dal principio alla fine dell'opera, e più specialmente nel quartetto del secondo atto, di cui si volle la replica, nella nenia e nel susseguente duetto, nella serenata del Sabba classico, dove divise gli allori colla signora Carotini, e nel duetto d'amore. Il suo è stato un vero e meritato trionfo. Del tenore Puerari, dalla bella voce, dal canto dolce, efficace ed appassionato, che s'insinua gradevolmente nell'animo portandovi il fascino dell'arte, debbo dire che ha confermato pienamente le belle aspettative concepite a suo riguardo quando di lui leggevamo i trionfi d'altrove e le parole di alto encomio onde ne andavano celebrati i meriti insigni. Bella voce, bella maniera di canto, distinto modo di porgere, tutte le risorse della drammatica - egli riassume le prerogative dell'attore e del cantante finito. Applauditissimo nella sua aria: Dai campi dai prati che inonda la notte, nel quartetto dell'atto secondo, dove divise colla signora Boulicioff l'onore del bis, nel duetto del terzo atto, da lui eseguito stupendamente assieme alla signora Boulicioff, e nel duetto d'amore del quarto atto, suscitò un vero entusiasmo nella sua aria: Giunto nel passo estremo, nell'epilogo. Il Puerari ha proprio fatto della propria parte ciò che dicesi - con una frase un po' abusata - una vera creazione. Drammaticamente e liricamente interpretò il basso Monti in modo egregio l'ardua parte di Mefistofele. Non soltanto vanno lodati in lui i mezzi vocali straordinariamente potenti, ma eziandio le qualità del cantante più estimabili e l'intelligenza gentile d'attore per cui gli riesce interpretare caratteri difficilissimi come questo di Mefistofele, con fina penetrazione e perspicacia. Nell'aria del fischio, nel quartetto del 2° atto, nel Sabba romantico le sue note belle, potenti, squillanti entusiasmarono il pubblico, che lo fe' segno alle più sincere e calde ovazioni. La signora Carotini ha voce simpatica ed intonata e rappresenta assai bene le sue particine di Marta e di Pantalis, meritandosi gli applausi del pubblico. L'orchestra, possiamo dirlo senza reticenza, è stata addirittura superiore ad ogni più caldo elogio: e che ciò avvenisse non era manco a dubitare, quando - come in questo caso - essa obbediva ad una bacchetta quale quella dell'attuale Direttore, il cui maestro Pio Ferrari, i cui meriti insigni sono a tutti e da tanto tempo noti. Molto bene anche i cori, istruiti dal valente maestro Eraclio Gerbella. Che di più? Non c'eravamo male apposti quando nell'annunciare questo spettacolo abbiamo propiziato bene di esso. Ce ne compiacciamo: ce ne compiacciamo sinceramente, poiché vediamo il nostro Teatro rimanere sempre alla sua altezza anche attraverso a questi tempi, che corrono così poco propizii per l'arte.
rf.

L'egregio impresario Cav. Enrico Gimeno ha ricevuto ier il seguente telegramma, di cui volentieri prendiamo atto:
"Signor Gimeno impresario Teatro - Parma.
Milano, 26-12-17-25.
Ringrazio illustre orchestra parmense suo valoroso direttore - mi rallegro cogli artisti insigni e colle masse corali - una stretta di mano a Lei ed alla sua gentile signora alla quale auguro pronta e perfetta guarigione.
ARRIGO BOITO.


"Gazzetta di Parma" del 9 gennaio 1887

Quantunque la Dinorah fosse stata rappresentata, la prima volta, la sera del 4 aprile 1859 al teatro dell'Opera Comique di Parigi, fu soltanto nel carnevale 1877-78, che il pubblico parmigiano poté gustare questo gioiello di spartito, interpretato dalla Clementina De Vere - eccellente artista, dotata di bellissimi mezzi vocali e di grandissima agilità - dal tenore Enrico Scarabelli - il medesimo che canta in questa stagione - e dal baritono Lalloni. L'opera piacque moltissimo; ma siccome la si diede in fine di stagione e la non si eseguì che pochissime sere, lasciò nel pubblico gran desiderio di riudirla. E, infatti, la Dinorah venne ridata nel carnevale successivo, con la Stefanini-Donzelli - la più simpatica, la più brava, la più charmeuse artista che sia possibile immaginare - con Zacometti, tenore, con Caltagirone baritono, e due altri artisti parmigiani: la Scolari ed il Contini. Dirigeva, anche allora, con lode generale, il maestro Pio Ferrari. Questo spartito venne rappresentato una quantità di sere, con sempre più crescente successo. Come si dice nelle necrologie, la Dinorah lasciò vivo desiderio di sè, sicchè nel pubblico parmigiano, la promessa di una terza edizione di quel piccolo capolavoro, è sembrata un vero regalo. Si dice: omne trinum est perfectum; ma questa volta l'adagio latino ha fallito completamente: la terza edizione della Dinorah - perchè cercare delle circonlocuzioni! - ha fatto fiasco. È anche vero che eravamo molto lontani, in fatto di esecuzione, dalla perfezione, cui accenna l'adagio suddetto. Se è vero che, per fare un pasticcio di lepre, occorre, per prima cosa, una lepre, altrettanto, e, forse, più, per fare la Dinorah, ci vuole una buona Dinorah. E la signorina Balti non è apparsa tale. Non so se ciò sia dipeso dai suoi mezzi vocali non in relazione all'ampio vaso del teatro; se dalla stanchezza per le molte ed affrettate prove, onde accelerare la messa in scena; se dal panico, conoscendo ella la difficoltà e le esigenze - talora soverchie - del pubblico e sapendo a quali confronti doveva cimentarsi - dacchè il ricordo della Stefanini-Donzelli è tutt'altro che cancellato - fatto sta che la signorina Balti è apparsa insuflicente. E su ciò non mi arrischio a pronunciare una mia opinione formale; ma soltanto riferisco il giudizio del pubblico. Naturalmente, la deficenza della protagonista ha messo il pubblico di mal umore; questo fattosi arcigno, se l'è presa anche con il tenore Scarabelli, stimando che la valentia di comico non fosse compenso sufficiente - e qui il pubblico, a mio avviso, ha avuto torto - alla deficenza di lui di note acute; gli altri artisti minori - scoglio dello spartito - presto si squilibrarono, inciamparono e finirono per precipitare. Il quartetto del terz'atto, che alla prova era stato eseguito benissimo, iersera andò a rotta di collo: un vero massacro, causa principalmente, una maledetta stecca - disgrazia che può succedere a chiunque - del tenore appena attaccata la proposta. Insomma: l'opera è terminata coi fischi. Si sono salvati, prima di tutto, l'orchestra, che ha eseguito mirabilmente e tra un subisso d'applausi la sinfonia - dopo della quale il m. Ferrari dovette voltarsi più volte per ringraziare - e che anche durante il corso dell'opera, fu sempre attenta ed intonata; e poi il baritono Bolcioni, dotato di una superba, una splendida voce, specie negli acuti, che ebbe momenti felici, nel primo atto e che cantò con molta espressione la sua romanza nell'atto terzo, riscotendo, applausi; e la signorina Carotini - un ben gentile Capraio - applaudita assai nelle sue strofe del primo atto. Il Cacciatore ed il Mietitore nelle rispettive arie, se la passarono senza infamia e senza lode. Dunque - mi si domanderà - questa Dinorah è uno spettacolo rabberciatile? Per me, lo credo. Però stasera il teatro tace.


"Gazzetta di Parma" del 11 gennaio 1887

La cronaca della serata di ieri al Regio sarà breve quanto è stata breve la rappresentazione. Dirò come sono andate le cose, senza metterci su nè sale nè pepe. Dopo la sinfonia, applaudita calorosamente e dopo il coro d'introduzione con relativo duettino tra i due caprai, passato via liscio liscio, il pubblico cominciò a rumoreggiare all'aria di sortita che canta Dinorah. Sia che la signorina Adams, presumendo delle proprie forze e credendosi ristabilita sufficientemente, mentre non lo era ancora, non si trovasse nel pieno possesso de' suoi mezzi vocali; sia che il vasto e poco armonico ambiente, in cui ella trovavasi, fosse eccessivo pel suo esiguo volume di voce; fatto sta che non la si sentiva che assai imperfettamente. Giudicare quindi dei meriti della signorina Adams mi è impossibile, perché non si può, in coscienza giudicare di una artista, che, a gran stento, in mezzo a quel baccano si è potuta udire. Correntino se la cavò sotto silenzio nella sua aria; ma la tempesta, provocata da qualche applauso fuor di luogo e che sembrarono interessati, scoppiò al successivo duetto, che terminò in mezzo ad un baccano del diavolo. Comparso sulla scena il baritono Bolcioni, questi fu salutato da applausi; ma continuando il pubblico a gridare: basta, basta! egli credè bene di svignarsela pel sentiero stesso d'onde era venuto. Correntino, dopo un istante, stimò prudente esso pure ecclissarsi trammezzo ad una quinta, lasciando completamente vuota la scena. Il sipario, allora, calò maestosamente e sulla boccascena comparve l'avvisatore, il quale annunziò che la rappresentazione era sospesa e che alla porta, sarebbero stati restituiti i biglietti. Ed ora? Proprio non vi so dir nulla di preciso dacchè informazioni sicure non mi è riescito di prenderne. Già si sa cosa avvenga in casi siffatti. La Commissione si chiude, con tanto di catenaccio, nel proprio camerino a deliberare; gl'Impresari vanno e vengono sul palcoscenico, con l'occhio smarrito e la ciera esterefatta; gli artisti si eclissano; il direttore, che, in faccia al pubblico, porta la soma di una grave responsabilità effettivamente non sua, bestemmia tra i denti e non dà udienza. Perciò ieri, non ho nemmeno cercato di sapere cosa si pensi di fare. Ritengo però che si affretterà la ripresa del Mefistofele, con la signora Singer, intanto che si troverà modo di rabberciare questa disgraziata Dinorah. È - secondo me l'unica soluzione possibile ad una situazione fattasi abbastanza difficile. Masi badi a fare una rabberciatura proprio a modino. Ier sera in mezzo al putiferio, s'è sentito una voce gridare: vogliamo la lepre! Era un'allusione - ciò che ha fatto ridere il pubblico - al noto aforismo culinario, da me citato, parlando della prima Dinorah: che per fare un pasticcio di lepre ci vuole una lepre. Le due edizioni di Dinorah che ci hanno date, in questa stagione, erano semplicemente un pasticcio.
Z.


"Il Presente" del 14 gennaio 1887

Per descrivere la serata di ieri colla esimia signora Teresina Singer, che per la prima volta si presentava al nostro pubblico sotto le spoglie di Margherita e d'Elena, noi non sappiamo trovare che una sola frase: fu un vero trionfo per lei, un delirio pel pubblico. Al presentarsi, sulla scena di questa esimia signora, il pubblico la salutò con unanimi plausi, e i plausi divennero più caldi, appena terminato il quartetto del quale se ne volle e gentilmente se ne concesse la replica. Dove poi la esimia Signora Singer si addimostrò artista veramente grande, per azione drammatica e per mezzi vocali: fu nella scena della prigione, ove con tanta efficacia sa infondere nella nenia: L'altra notte in fondo al mare tutta la passione, tutto il dolore straziante della povera Margherita, e che il Boito ha saputo tradurre e nel verso e nella musica quasi paradisiaca. Il duetto fra Margherita (Singer) e Faust (Puerari) strappò al pubblico un vero subisso di plausi. Ma dove poi portò al più alto grado l'entusiasmo del pubblico fu al finale di quest'atto, colla frase:

...Enrico... Enrico...
Mi fai ribrezzo...

Tutta l'anima sua di artista veramente grande essa la trasfonde in questa ultima frase di profondo disprezzo. Che diremo poi del Sabba Classico? Anche in questa seconda parte del superbo lavoro Boitiano, la celebre artista ebbe momenti veramente sublimi. Benissimo il monologo Notte cupa, truce senza fine funebre... Delizioso il duetto con Faust, eseguito da questi due artisti, Singer e Puerari in modo veramente ammirevole. Egregiamente il concertato che chiude questa classica pagina musicale e dopo calata la tela il pubblico chiamò, non sappiamo se otto o nove volte tutti gli artisti al proscenio, fra i quali, anche il bravo maestro Pio Ferrari, che il pubblico volle salutarlo e festeggiarlo. Si plaudì il finale del prologo tanto maestrevolmente eseguito dalla brava orchestra. E il Tenore signor Puerari, il basso signor Monti si ebbero essi pure plausi meritati nei loro singoli pezzi. Infine è stata come, lo prevedevano, quella di ieri sera, una vera solennità artistica che il pubblico nostro certo non dimenticherà tanto facilmente. E che fosse una solennità dell'arte lo si vedeva, all'aspetto che presentava ieri sera il nostro massimo teatro, il quale racchiudeva tutto quanto và di bello, di gentile fra le nostre più eleganti signore, di colto e di intelligenza nella nostra città. Questa sera seconda rappresentazione - secondo trionfo.


"Gazzetta di Parma" del 27 gennaio 1887

Il signor Gimeno, impresario del Regio Teatro, mi ha consegnato buona parte della corrispondenza telegrafica, interceduta tra lui e le agenzie teatrali e le artiste, per trovare una prima donna in surrogazione dell'Adams. Soltanto i telegrammi di risposta ammontano a più di cinquanta, e vi assicuro io, che la lettura di essi è abbastanza instruttiva e dilettevole. Dalla lettura di ciò che chiamerò il Libro giallo della Dinorah risulta evidentemente che non è colpa dell'Impresa, se, finora, non si è potuto rimettere in scena convenientemente quella benedetta Dinorah. L'Impresa ha cercato e contrattato con le migliori artiste conosciute: con la Donadio, con la Repetto, con la Dalty, con la Cocetova, con la Russel, con la Nevada e non so con chi altra. Ma la Donadio domandava la bellezza di 2000 lire per sera, - fino a 1000, ed era molto, ci si andava - la Repetto era scritturata altrove, la Dalty accampava essa pure pretese smodate, la Cocetova è stata parecchi giorni irreperibile, la Russell era impegnata, la Nevada, scritturata pel Pagliano, cadeva poi ammalata. Insomma: una cosa da far perdere la testa. Ultimamente, tutto pareva combinato con un'artista e l'Impresa poteva, alfine respirare a pieni polmoni, quando un agente teatrale telegrafa che l'artista, invece di dirigersi a Parma, ove la si aspettava, aveva preso il volo per altri lidi. Ciò accadeva lunedì scorso. Finalmente si scopre la signora Cocetova a Nizza. L'impresa tratta con lei telegraficamente e combina tutto. L'artista doveva giungere ieri l'altro alle tre ed invece sua arriva un telegramma, che informa l'Impresa come la signora Cocettova avendo visto su un giornale teatrale, che era stata scritturata la Dalty, essa non muovevasi più da Nizza. Qui nuovi scambi di telegrammi, di proteste, di spiegazioni reciproche; finalmente, ieri, la signora Zoe Cocetova telegrafava che partiva per Parma. Aufl! ! Ma, causa tutti questi ritardi, non avremo più teatro fino a sabato sera.
Z.


"Il Presente" del 31 gennaio 1887

La nostra VACANZA di ieri ci ha impedito di dare il resoconto della prima rappresentazione della Dinorah sulle scene del nostro Regio, e la nostra vacanza ci ha pure così impedito di fare, se non delle tristi, almeno delle poco favorevoli previsioni sull'esito di un'opera messa in scena proprio per forza di volontà, a dispetto di ogni e qualunque ostacolo, del che và dato meritamente ogni miglior elogio alla Impresa. La Egregia e molto avvenente artista Signora Zoè Cocetova non poté adunque, nella sera di sabato, confermare al tutto la fama lusinghiera da cui era stata preceduta, perché presa, manifestamente, da molto panico non era in possesso di tutti i suoi mezzi vocali, né per quanto vi ponesse buona volontà, poteva svilupparli. Epperò il pubblico nostro, non smentendo la sua fama di gentile innanzi tutto, non mancò di rinfrancarla con applausi. La serata di sabato fu adunque un poco fredda, ma non fu certamente un insuccesso per la Egregia artista né per l'opera in complesso. Ier sera poi, dopo molti applausi e dopo aver bissato con insistenza il walzer, eseguito magnificamente dalla Signora Coceteva, dopo tutto un insieme, che avrà fatto allargare il cuore alla Commissione teatrale e all'Impresa, perché poteva dirsi un insieme di buona riescita; ieri sera a spettacolo terminato si udirono fischi e disapprovazioni invano combattuti da molti applausi. O! dunque?! all'Impresa l'ardua sentenza; a noi, così come si trova, Dinorah, date e considerate tutte le speciali condizioni e circostanze che l'hanno alfine condotta sulle nostre scene, sembra vi si possa mantenere.
E.


"Il Presente" del 3 febbraio 1887

LA PRIMA DELLA FAUSTA
Riserbandoci di riparlarne più ampiamente quando l'avremo riudita o compresa meglio in tutte le sue parti, diamo per oggi il resoconto fedele della prima rappresentazione che ieri sera ebbe luogo al nostro Regio dell'opera dell'egregio concittadino nostro maestro Primo Bandini. Nel mentre davamo ieri l'avviso della rappresentazione della Fausta auguravamo al m. Bandini che il giudizio benevolo di Parma confermasse le liete previsioni del suo lavoro, ed il nostro augurio si è avverato ed in modo che l'Egregio maestro ben può esserne soddisfatto, e il favore con cui il pubblico accolse il suo lavoro, andrà, non v'ha dubbio, sempre crescendo con più se ne conosceranno i pregi, che - come si sa - si delineano, soltanto, in una prima rappresentazione. E il nostro resoconto si riassume in due parole, successo completo! Furono bissati i finali stupendi del 2° e del 3° atto; il maestro Bandini ringraziava commosso nelle 20 e più volte che dovette mostrarsi alla ribalta in uno agli Egregi interpreti, ed esecutori valenti del suo lavoro. E furono veramente egregi e valenti gli attori della Fausta, come si è mostrato - come sempre - degnissimo del posto che occupa, il maestro Pio Ferrari che diresse l'Orchestra con animo d'artista e con vero intelletto d'amore, perché la riescita fosse assicurata al lavoro dell'amico suo. Dire che la Signora Singer non smentì nulla ma che se fosse possibile - aumentò nella Fausta la sua fama d'artista veramente esimia: sarebbe il dir cosa che tutti sanno. Il tenore Puerari interpretò, proprio con tutto animo, la difficile parte di Crispo, rendendola con valentia non comune; così pure la brava sig. Carotini e gli egregi e sempre valenti, basso Monti e baritono Bolcioni, fecero tutti del loro meglio per assicurare le sorti della Fausta. A tutti un bravo di cuore e le nostre congratulazioni all'Egregio maestro Bandini e anche all'Impresa le di cui sorti sono ora assicurate e che perciò - francamente - potrebbe curare un poco più la mise, i vestiari massimamente e... certi elmi... specialmente! E per finire: palchi, platea e loggioni addirittura rigurgitanti. Infatti può dirsi che tutta Parma artista, intelligente ed elegante, ha assistito alla prima della Fausta di ieri sera.
E.


"Gazzetta di Parma" del 16 febbraio 1887

Gran mago quel Rigoletto! Il pubblico, ieri, s'è sentito scuotere da quella musica affascinatrice, divina ed una corrente d'entusiasmo ha corso da un capo all'altro della sala. L'esecuzione è stata eccellente in alcune parti, buona soltanto in talune altre. Tra gli artisti eccellenti metto la signora Marianna Lodi, figura elegante, simpatica; cantatrice eletta; artista nell'anima e che non ha certo smentito l'alta fama che gode in arte, ed il tenore Puerari, dalla voce calda, bella, potente e dal gusto squisito. Tra i buoni metto il baritono Bolcioni, che ha interpretato il difficile personaggio con discreta intelligenza. Iersera il panico non lo rendeva sempre padrone nella sua voce, sicché talvolta gli accade di andar giù di tono; ma ora che la prova è passata, sono persuaso che farà molto meglio. Una Maddalena assai bella e spigliata è stata la signorina Carotini, che il pubblico ha già applaudita in parti di ben maggiore importanza; il bravo Monti si è mostrato uno Sparafucile poderoso per voce e diligentissimo. Le seconde parti fecero tutte del loro meglio e perciò vanno lodate. Bene pure cori ed orchestra. Applausi ve ne furono in tutti gli atti. Un applauso entusiastico si meritò il Puerari, dopo la sua ballata. Altri applausi alla stretta del duetto del second'atto, tra tenore e donna, dove la signora Lodi sfoggò delle note sovraccute d'una limpidezza eccezionali. Ed il pezzo venne fatto ripetere. L'aria della donna, cantata mirabilmente, sollevò pure un subisso d'applausi. Altri applausi alla romanza del tenore, ed al duetto tra donna e baritono nel terz'atto. Il famoso quartetto, poi, fece andare tutti in visibilio e, con poca discrezione per parte del pubblico, fu fatto ripetere. Sono sicuro che stasera, l'opera che fu messa in scena soltanto con un par di prove, andrà meglio, dappoiché gli artisti, certi dell'aggradimento del pubblico, saranno sicuri di sé stessi e sfoggeranno tutti i loro mezzi senza tema.


"Gazzetta di Parma" del 24 febbraio 1887

Questa sera avremo il Rigoletto con una nuova prima donna, la signora Turconi-Bruni, venuta a sostituire l'esimia signora Lodi, seriamente indisposta. È una vera fatalità. Per sabato è annunciata la serata d'onore della signora Teresina Singer. La seratante in unione col tenore Puerari eseguirà il celebre duetto degli Ugonotti. Credo che l'annuncio basti e che mi dispensi dall'aggiungere lodi all'esimia artista, o sollecitazioni al pubblico d'accorrere. Ricevo dal signor Puerari la seguente lettera che pubblico, anche a rischio di commettere una indiscrezione. La pubblico perché egli scrivendo a me, si è rivolto, in fin dei conti all'intero pubblico parmigiano, del quale io sono stato il debolissimo interprete. La pubblico per avere il diritto di assicurare l'egregio artista, ch'egli, partendo, lascia di sé la più cara memoria. Egli è destinato, senza fallo, ad una splendida carriera; e noi non ci possiamo lusingare d'avere presto fra noi, altri artisti che lo uguaglino per valentia e quisitezza di sentire e di modi. Ecco la lettera:
Parma 21 febbraio 1887
Gentilissimo,
Dacché canto, in ventuno teatri, non ebbi che due serate d'addio (Macerata e Reggio d'Emilia) e due serate d'onore (Mantova, mia città natale e Parma). Le emozioni ripetute mi fanno male, e cerco di evitarle. Ma alla cortese insistenza della Impresa Gimeno ho dovuto cedere, e domenica sera rimasi immensamente tocco dalla espansione di simpatia che mi ha voluto dimostrare il difficile e giusto pubblico parmense. Quando poi, ad aumentare largamente la mia contentezza, la Gazzetta pubblicava nella cronaca teatrale parole così lodevoli che mi sono sentite le lagrime agli occhi ed una oppressione al cuore. Si, gentilissimo. Ecco, dopo avere lottato per vincere, dopo essermi formato un'ambiente di simpatie, ancora pochi giorni, e dovrò partire. C'è una tale tristezza in questa parola che non la posso descrivere. Alcuni anni fa, io viaggiavo da Genova verso Alessandria d'Egitto su un piroscafo che era comandato da un certo Crocco - un capitano che veniva denominato l'orso. Fuggiva i passeggieri di bordo come appestati. Alla fin fine io pervenni ad entrare un tantino in confidenza con lui, e gli chiesi: Ma perché fa così e così? Mi rispose: domani voi signori sarete sbarcati e il povero comandante Crocco sarà dimenticato. Soggiunse: È tal dolore che mi brucierei le cervella. Gli promisi che non mi sarei mai scordato di lui. Ho mantenuta la parola, lo vedete voi pure. Ebbene io potrei ripetere le parole del comandante. Ripetetemi le mie.
Vostro aff.mo
PUERARI


"Gazzetta di Parma" del 2 febbraio 1887

FAUSTA
Parole di P. Bettòli, musica del m. P. Bandini.
Come sempre sono uso a fare, allorquando va in scena un'opera mai rappresentata in Parma, a comodo de' miei lettori, che stasera assisteranno alla prima rappresentazione della Fausta, dò un sunto del libretto. Il nocciolo del soggetto trattato dal librettista è quasi esclusivamente storico, come storici ne sono la maggior parte dei personaggi. Costantino il grande ebbe due mogli: dalla prima, Minervina, ebbe un figlio, il quale educato dal celebre Lattanzio Firmiano, riescì un principe di mente elevata e valente nelle armi. L'altra moglie: Fausta Flavia Massimiana, figlia dell'imperatore Massimiano Ercole, diede al marito tre figli, quali, poi, regnarono, morto il padre, e due figlie. Nata da un grande imbroglione e raggiratore, codesta Flavia pare avesse ritratta dal padre una gran propensione pei bassi raggiri. Narrano, infatti, gli storici contemporanei - sebbene con grande circospezione - che costei, forse perché gelosa del prestigio e dell'ascendente che sull'animo dell'imperatore esercitava Crispo, accusasse costui di nutrire una fiamma incestuosa e di avere attentato al talamo imperiale. Costantino, il quale, quantunque fosse chiamato grande ed avesse rinnegato il culto degli Dei per adorare il Dio dei cristiani, non era molto tenero degli effetti di famiglia - la morte, da lui ordinata, di suo suocero Massimiano e poscia quella del figlio Crispo, della moglie Flavia e del nipote Licinio lo provano a sufficenza - senza troppo bene appurare la veridicità dell'accusa, fece spegnere, nell'anno di grazia 326, il figlio. L'orribile delitto di Flavia non andò però a lungo impunito. S. Elena, madre di Costantino, alla quale doleva immensamente la morte del nipote prediletto, ebbe ben presto in mano le prove dell'innocenza di Crispo assieme a quelle de'turpi amori della nuora con uomini d'infima condizione e di altri intrighi contro l'autorità dell'Imperatore. Allora questi fece affogare Flavia in un bagno d'acqua bollente e mettere a morte altri personaggi a lei strettamente legati. La sola variante che si sia permessa l'autore del libretto alla narrazione storica, è di dipingere Flavia come innamorata del figliastro, e di avere introdotti alcuni personaggi ideali, ma necessari allo svolgimento scenico del dramma. Il primo atto ha luogo in Milano, dove, momentaneamente è la corte dell'imperatrice Fausta. Crispo, reduce dell'aver debellati i traci, è incamminato alla volta di Roma - dove trovasi Costantino - carico di spoglie opime e seco traendo i più illustri prigionieri, tra cui è Cosinta, figlia di un principe di Tracia, perito in guerra. Fausta fa al figliastro l'accoglienza più cordiale ed espansiva e si ripromette di presto raggiungerlo in Roma. Ma l'Imperatrice ha ai suoi fianchi una specie di negromante, un siriaco, Eutorpio, il quale odia Crispo perché cristiano e perchè figlio di Costantino, contro il quale si accumulava l'odio de' pagani di quel tempo. Eutorpio s'è accorto che Crispo è innamorato della bella prigioniera e, in pari tempo, che Fausta arde pel figliastro. Conoscendo a fondo il naturale di costei, le suscita nel cuore il demone della gelosia, rivelandole la sua scoperta circa l'amore di Crispo per Cosinta. Fausta, allora affretta la sua partenza per Roma. Gli ultimi tre atti si passano a Roma. Crispo, in guiderdone delle vittorie riportate, ha chiesto ed attenuto da Costantino la mano di Cosinta. Nel palazzo imperiale tutto è pronto per le nozze. Ma, quando già si sta formando il corteo nuziale, sopravviene Fausta ad impedirlo, col pretesto esser quello giorno di lutto, perché è l'anniversario della morte di Eutropia, madre di Fausta. Eutorpio il negromante disse essere quello un giorno oziaco, cioè di malaugurio, quindi le nozze essere ineffettuabili. Costantino, che crede ai negromanti, fa sospendere le feste e i poveri sposi rimangono, come rimarrebbe ogni fedel cristiano in siffatta circostanza. Al terzo atto, Eutorpio, d'accordo coi pagani, ha teso un tranello a Crispo. Cosinta, desolata per le nozze protratte, supplica Fausta di permettere il suo matrimonio con Crispo; ma l'Imperatrice la discaccia duramente. Sopraggiunge Crispo, al quale l'impudica Imperatrice disvela l'empia fiamma di cui arde. Crispo inorridisce e respinge l'infame offerta. Punta al vivo dal rifiuto, Fausta lo minaccia di vendicarsene su Cosinta. Crispo, smarrito, piega supplice il ginocchio; ma in questo momento capita l'Imperatore, guidato da Eutorpio e seguito dalla corte. Costantino domanda al figlio il perché di quella genuflessione e prima che questi abbia avuto tempo di rispondere, l'empia Fausta lo accusa di tentato incesto. Costantino resta, come si suol dire di stucco. L'idea di un serto, oltre l'imperiale, non gli sorride punto, e non ascoltando le proteste e le discolpe del figlio, lo invia davanti al Senato. La scena dell'atto quarto rappresenta una piazza davanti al palazzo senatorio. Il popolo, al quale è frammischiato Lattanzio ed Eutorpio, rumoreggia in attesa della sentenza. Questa viene conosciuta. Il Senato ha dichiarato Crispo colpevole e l'ha dannato a morte. Crispo, circondato d'armati s'avvia al supplizio. Incontrata Cosinta, se le professa innocente della colpa ascrittagli. Cosinta persuasa della di lui innocenza, sorretta, segue Crispo. I rimorsi straziano l'anima di Fausta. Essa non sa ancora della condanna di Crispo e spera che il Senato lo manderà assolto. A Costantino che esce dal Senato, chiede ansiosa le nuove. Saputele, dà in smanie, ordina si sospenda l'esecuzione e dopo aver succhiato da un anello un veleno, svela la sua colpa al marito. Il messo ritorna annunziando la morte di Crispo, e Fausta, essa pure, cade al suolo.
Z.

 

 

"Gazzetta di Parma" del 10 settembre 1887

Essendo giovedì terminato il corso di rappresentazione dell'Otello a Brescia, ieri giunsero su questa piazza gli artisti tutti che tale spartito devono eseguire tra noi. Iersera il m° Faccio salì, per la prima volta in questa stagione, sul seggio direttoriale, provando per intero tutto lo spartito. La prova è riuscita magnificamente ed il m° Faccio rivolse pubblicamente le più calorose parole di lode e di ringraziamento al m° Pio Ferrari; il quale aveva istruito con tanto zelo e tanto talento l'orchestra, parole che pronunziate da un Faccio, devono essere state al giovane e bravo maestro un ricompensa ben gradita delle sue molte fatiche, e in pari tempo, una ricompensa, ai professori tutti; che tanto volenterosamente lo avevano assecondato.
Z.


"Il Presente" del 14 settembre 1887

L'OTELLO AL REGIO
Il successo ottenuto iersera al nostro massimo teatro dall'Otello di Verdi è stato pari alle generali aspettative ed è stato altresì una splendida conferma dei trionfi di Milano, di Roma, di Venezia, di Brescia. La musica sublime del Cigno di Busseto ha esercitato il suo fascino potente - non v'era a dubitarne - anche sul pubblico parmense, che ha ammirato ed applaudito con entusiasmo l'ultimo capolavoro del grande Maestro. Ma dell'opera diremo con più agio e maggior calma: oggi dobbiamo limitarci a constatare l'avvenimento artistico e a registrare la cronaca della serata. Alle 8 il teatro affollato di pubblico - fra cui molti forastieri e molte belle signore in splendide toilettes nei posti distinti e nei palchi - presentava già un aspetto imponente. Il principio dello spettacolo è atteso con viva impazienza. Finamente, alle 8,15, il maestro Faccio prende posto al suo seggio direttoriale e dà il segnale d'attacco. Lo spettacolo incomincia fra il più religioso silenzio. La scena del primo atto è stupenda: l'uragano, il mare in burrasca sono riprodotti con una verità sorprendente. La musica dell'Otello affascina il pubblico sin dalle prime note. La sortita d'Otello provoca un applauso: la scena del duello passa fra la più profonda attenzione: il duetto d'amore, eseguito stupendamente dalla signorina Gabbi e dal tenore Oxilia, è accolto col più schietto entusiasmo e alla dolcissima frase: "E tu m'amavi per le mie sventure" il pubblico scatta in applausi vivissimi e prolungati. Il finale dell'atto è pure assai applaudito e la signorina Gabbi e l'Oxilia sono chiamati due volte all'onore del proscenio e fatti segno a calorose ovazioni. Nel secondo atto piacque immensamente il terribile Credo di Jago, che il Lhèrie seppe dire da sommo artista, strappando all'uditorio i più sinceri battimani: e così la scena bellissima fra Jago e Otello, eseguita pure egregiamente dal Lhèrie e dall'Oxilia. Un effetto stupendo, che fu giustamente apprezzato, ottiene il susseguente coro in tempo di valtzer con accompagnamento di mandolini. Il giuramento finale provoca unanimi applausi: calata la tela, l'Oxilia e il Lhèrie sono costretti a presentarsi alla ribalta. Al terzo atto, colpisce subito la magnifica scena della gran sala del castello: applausi e acclamazioni all'autore prof. Magnani. Bellissimo il duetto fra Otello e Desdemona: vivi applausi alla Gabbi alla frase: "Esterefatta fisso lo sguardo tuo tremendo", e più oltre alle parole: "Tu pur piangi?" e quando dice con profonda espressione: "Non son ciò che esprime quella parola orrenda". Applauditissimo è il susseguente monologo di Otello, un canto pieno di passione, un vero capolavoro, eseguito assai bene dall'Oxilia. Segue un terzettino originale, in cui Cassio ride, Iago insidia, Otello, nascosto ascolta feroce di gelosia. Poi s'odono da lontano le trombe che annunziano l'arrivo dell'ambasciatore veneziano. Grandioso, imponente, d'irresistibile effetto è il finale. Molti applausi e chiamate a tutti gli artisti e al maestro Faccio, i quali si presentano tre volte al proscenio. Il quarto atto è tutto, dal principio alla fine, un capolavoro sublime. La Canzone del Salice è un pezzo squisitissimo e provocò molti applausi. L'Ave Maria entusiasmò il pubblico. Fu cantata egregiamente dalla signorina Gabbi, la quale fu fatta segno ad una lunga e calda ovazione. Mentre Otello entra, i contrabbassi eseguiscono un preludio brevissimo, ma d'effetto immenso: poi nell'orchestra si sprigiona un movimento negli archi con suoni acuti che scuotono e commuovono il pubblico. Il duetto che segue è prepotente di espressione drammatica: il pubblico guarda ed ascolta colla più profonda attenzione. Piace la frase finale di Otello e Oxilia strappa un caloroso applauso. II sipario scende adagio adagio, mentre l'orchestra ha lunghe note tenute. Nuovi applausi del pubblico e chiamate al proscenio della Gabbi e dell'Oxilia, i quali si presentano tre volte. Tale è la cronaca genuina della serata di ieri, che si identifica in una splendida festa dell'arte. Aggiungeremo solo, che l'orchestra, molto numerosa e comprendente i migliori suoi elementi fece prodigi di valore sotto la direzione dell'illustre Faccio: dobbiamo dire però, per debito di giustizia che il Deus ex machina di questa splendida esecuzione, sia orchestrale sia di tutto l'assieme, è l'egregio nostro concittadino maestro Pio Ferrari, il quale con sì bei risultati aveva preparato e allestito tutto lo spettacolo: del che gli facciamo i nostri più sinceri rallegramenti. E dobbiamo pure sinceramente rallegrarci col valentissimo maestro Gerbella, pel modo inappuntabile con cui procedettero i cori. Alle scene del Prof. Magnani abbiamo già accennato: buona, nel suo complesso, è la messa in scena. Ma sia dello spartito, sia della esecuzione, diremo a lungo - lo ripetiamo - dopo una seconda audizione. Per oggi ci basta d'aver constatata la bella e grande vittoria riportata nella città nostra da questo capolavoro Verdiano.


"Gazzetta di Parma" del 21 settembre 1887

L'OTELLO DI VERDI
Ho davanti a me un elegante volume di quasi 200 pagine, edito dalla casa Ricordi, nel quale sono raccolti i giudizi dei principali giornali italiani ed esteri su l'Otello di Verdi. Tutti questi articoli sono decisamente apologetici; rari ne ho letti che esprimessero un giudizio diverso; ma questi non vennero compresi nella raccolta del Ricordi. La maggioranza dei critici italiani si è mostrata entusiasta dell'Otello e ha approvato, incondizionatamente, il nuovo passo fatto dal sommo Verdi verso una forma nuova di musica teatrale, che fosse - come ebbe a dire il compianto dott. Filippi della Perseveranza - "un vero dramma musicale, non un volgare, convenzionale melodramma". Ond'io, che, ad onta di tutta la buona volontà e di aver ascoltato con religioso raccoglimento la musica dell'Otello, per cinque sere di seguito, dopo aver riletto con grande attenzione il libretto del Boito, non solo; ma anche il dramma di Shakespeare; non ho potuto dividere gli stessi entusiasmi né mi sentirei d'incoraggiare - quando ne avessi l'autorità - il nuovo indirizzo; mi sto non poco peritoso e il mio giudizio preferirei tener per me, ove una precedente promessa e l'obbligo d'ufficio non mi imponessero di manifestarlo al pubblico. L'origine del disparere tra il giudizio apologetico della maggioranza della stampa italiana e quello degli scarsi oppositori, a mio avviso, sta tutta racchiusa nella frase, più sopra riportata, del Filippi: Verdi ha fatto un vero dramma musicale e non un volgare convenzionale melodramma. Un pedante avrebbe buon gioco in mano per sofisticare su la distinzione che si pretende fare tra dramma musicale e melodramma, come se entrambi i vocaboli non significassero la stessa cosa; e soprattutto avrebbe molto, ma molto a ridire su l'appunto di volgarità e di convenzionalismo fatto al melodramma, nel qual caso volgari e convenzionali sarebbero la Norma, il Guglielmo Tell, il Rigoletto, gli Ugonotti, che, finora, sono sempre stati chiamati melodrammi. Ma mi piace essere corrivo e non dare alle parole del povero Filippi - le ultime che ha scritte - un significato ch'era, forse, lontano dal suo pensiero. Egli, probabilmente, per dramma musicale intendeva quella composizione in cui la musica serve soltanto a dare maggior forza ed espressione alla parola poetica, senza preoccupazione del ritmo e di forme prestabilite mentre, nel melodramma, la musica deve avere una parte preminente, pur cercando di assecondare l'andamento del dramma, e si propone di scuotere la fibbra dell'ascoltatore con una progressione di suoni armonici e, in massima parte, ritmici. Ed effettivamente Verdi, con l'Otello, si è accostato pur mantenendosi lontano dai mezzi tecnici - alla scuola wagneriana, che rigetta il melodramma e vuole il dramma musicale e, magari, che la musica tenga luogo del dramma. Il divorzio con l'antico sistema e, direi, la rinuncia al proprio io non poteva essere più completa. Verdi, nell'Otello, è talmente mutato, che non lo si riconosce più. La più parte dei critici, invece, sostiene che Verdi conserva intera, immutata la propria personalità e fisionomia artistica; che non è possibile prendere abbaglio e che fin dalla prima battuta, il più modesto orecchiante riconosce il Verdi, vero, genuino, purissimo. Io quasi starei per credere che l'illustre legione dei critici italiani si è data l'intesa per corbellare il colto pubblico. Verdi dell'Otello ha propria nulla a che fare col Verdi delle sue opere precedenti; e se detto spartito fosse stato eseguito senza che nessuno al mondo avesse saputo chi n'era l'autore, si potrebbe facilmente scommettere il collo, che neppure a dieci individui sarebbe venuto il pensiero che quella musica, quasi sempre contorta, con frasi melodiche dal breve fiato, fosse escita dalla stessa penna che scrisse Nabucco, Traviata, Rigoletto, Don Carlos, Aida.
Infatti la caratteristica della musica di Verdi è stata sempre una straordinaria potenzialità drammatica, raggiunta colla più grande semplicità di mezzi, una vena melodica larga, continua, irruente che colpiva l'uditorio in pieno cuore, lo investiva, lo trasportava all'entusiasmo. In ogni opera del grandissimo maestro, anche in quelle che di rado sono, oggidì, ripetute, c'è per lo meno, un pezzo, ascoltando il quale lo spettatore più freddo, più apatico si sente come afferrato pe' capelli e forzato a mettersi in piedi ad applaudire, ad urlare, a piangere. Niente di tutto questo succede ascoltando l'Otello. La musica nulla aggiunge alla potenza drammatica, che ha saputo trovare Shakespeare. Per verità la massima del nuovo Galateo teatrale che non vuole s'interrompa il corso della rappresentazione, con applausi, manifestazioni qualsiasi, non poteva venire più a proposito per mascherare da entusiastico un puro successo di stima. Nei resoconti teatrali si parla pure di commozione profonda, di entusiasmi, di deliri, di lagrime. Ma, non m'è ignoto, che, al giorno d'oggi, i successi artistici si organizzano, press'a poco, con gli stessi mezzi e con gl'identici fini delle imprese industriali. Tali successi sono una cosa molto complessa, in cui v'entrano gl'interessi bottegai d'una città, la gloriola campanilesca, il tornacontismo editoriale, al quale si collegano mille altri interessi minori, ma non meno fortemente sentiti; la compiacenza più o meno interessata ed influenzata della stampa; il desiderio lodevole di fare onore e festa ad un glorioso vegliardo: la ragione artistica è sempre, purtroppo, l'ingrediente che v'entra in minor dose. Non ho assistito alle rappresentazioni dell'Otello, datesi in altre città, quindi in coscienza, non posso dire se l'entusiasmo, di cui s'è parlato ne' giornali fosse vero. Nè mi voglio giovare delle confidenze di amici, degni della massima fede, i quali mi assicurano che, a Milano, a Venezia, a Brescia, le cose - poco su poco giù - si sono passate identicamente come a Parma. Ora, siccome anche da Parma si è scritto ai giornali di fuori, di applausi interminabili, di commozioni profonde, di lagrime mal frenate, di brividi ed altre cose siffatte, caratterizzanti un successo strepitoso, entusiastico; coll'autorità - che credo di meritare - di uno che non ha mai scritto bugie e non ha mai montato successi teatrali, come si monta la chiarata, nè per conto proprio, nè per conto d'altrui; posso e debbo dire: non è vero. Sono venticinque anni che frequento il teatro; assieme a me ci sono tre o quattrocento altre persone: dilettanti, orecchianti, buongustai, i quali pure, da anni molti, non mancano mai ad una rappresentazione e che costituiscono il nucleo di quel pubblico parmigiano, che gli artisti paventano come il fuoco e sull'indipendenza di giudizio del quale potrei citare più d'un esempio concludentissimo e che, forse, nessun altro pubblico può vantare. Or bene: questo pubblico, che ho visto come si conteneva quando cantava la Galletti nel finale della Norma, Steger nel terzetto del Guglielmo Tell, la Fricci nel duetto degli Ugonotti, la Stoltz nell'arione del Don Carlos, la Mariani nel finale della Forza del Destino, Gayarre nel Rigoletto, la Waldmann nella scena del giudizio dell'Aida, è stato, durante queste rappresentazioni dell'Otello, freddo, compassato, cortese e nulla più. Troppo bene educato, non ha potuto a meno d'esclamare un mio amico, avvenirista per la pelle! Si è anche telegrafato fuori, che, man mano che l'Otello è sentito e compreso dal pubblico, viene. maggiormente gustato e cresce l'entusiasmo. Anche questo non è vero. L'entusiasmo non è cresciuto d'una linea. Sempre gli stessi applausi ai soliti punti. E questi applausi vanno in buona parte, e giustamente, ai bravi artisti, all'orchestra, ai cori ed al bravissimo direttore. Questa sola è verità. E per oggi basta.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 22 settembre 1887

L'OTELLO DI VERDI
II.
Non mi sono ancora spiegato - e, probabilmente, non riuscirò mai a spiegarmi - come l'argomento svolto dal sommo tragico inglese abbia potuto affascinare la mente del grande nostro maestro, sì da invogliarlo a scrivere una nuova opera, mentre dicevasi, che, dopo l'Aida, essendo egli stato proclamato, per unanime consenso del mondo civile, il più grande dei maestri viventi, su la sua fronte venerata non c'era più posto per nuovi allori. Mi pareva, infatti, che tra la natura esuberante e positiva del musicista ,e le passioni tristi e negative che animano Otello e Jago, ci fosse un assoluta incompatibilità; ed ancora credo, che una delle principali ragioni, per cui l'opera del cigno bussetano, è riescita monotona e priva di que' slanci, che soltanto un'alta passione, fortemente sentita, può suscitare in un uomo come Verdi, dipenda in gran parte dal libretto. In Otello due sono le passioni preminenti: la gelosia e l'invidia, personificati in Otello e Jago; il sentimento amoroso non ci entra - specialmente nella riduzione della tragedia di Shakespeare fatta da Arrigo Boito - chè in modo secondario. Desdemona non è che una buona pastricciana, dalla intelligenza limitata, lo spirito fantastico ed i sensi eccitabilissimi. Figlia d'illustre prosapia, sedotta dai racconti delle avventure guerresche del Moro e dalle proporzioni delle di lui spalle riquadre, fugge dalla casa paterna per gettarsi nelle braccia d'un soldataccio rozzo e violento e, per di più, d'una razza, con cui si fanno soltanto i rematori di galere. Boito, adulterando Shakespeare, ha bensì tentato di dare un po' di fascino a quell'amor coniugale; ma siccome i due sposi, dopo aver filato il sentimento ed aver fissato il fulgor delle stelle, finiscono per ritirarsi nel loro comune appartemento, sotto la duplice garanzia ed approvazione della legge e di santa madre chiesa, il pubblico non s'interessa ad essi, che assai mediocremente. Che farci? Non ci ha colpa nessuno se l'amor coniugale non è preso troppo sul serio. E poiché mi viene il destro di parlare del libretto, non posso trattenermi dall'osservare come la critica abbia menato il turibolo sotto il naso di Boito oltre misura. A sentire certi critici, Boito non solo ha interpretato fedelmente il dramma di Shakespeare; ma per poco non s'è detto che l'ha migliorato e corretto. Ora a me pare questa, per lo meno, una grande esagerazione; dacchè, ad essere nel vero e tenuto pure conto delle moltissime difficoltà ch'egli ha dovuto superare per ridurre l'immortale capolavoro del tragico inglese a melodramma; non resta meno incontrovertibile che l'Otello di Shakespeare esce dal laminatorio della riduzione boitiana parecchio sciupacchiato. La soppressione di tutto il primo atto del dramma di Shakespeare, ha tolto naturalezza allo svolgersi degli avvenimenti. Otello logicamente a sospettare la sposa, perché ricorda com.'ella abbia tradito il padre, fuggendone la casa; mentre nel libretto di Boito, Otello, senza transizione alcuna, dopo aver belato con lei il perfetto amore, si lascia indurre a sospettare della di lei onestà alla prima accusa vaga di Jago. Ma, questo è ancora poco. Boito, non contento di aver ricevuto da Shakespeare in Jago il tipo più completo di furfante - ma un furfante in carne ed ossa; affatto umano - s'è preso il divertimento senza necessità alcuna - di convertirlo in una specie di genio del male, che si compiace e si vanta della propria nequizia; un libero pensatore ed un filosofo materialista. Queste sono pecche che saltano tosto agli occhi di chiunque si sia dato la pena di leggere il dramma di Shakespeare; tanto più se si sarà giovato dell'eccellente traduzione che ne ha fatto di recente il chiaro prof. Pasqualigo, uno dei pochissimi che sia sceso fino in fondo al pensiero del sommo poeta inglese e ne abbia estrinsecato tutte le insigni bellezze. Eppure queste pecche - che nulla tolgono ai meriti di quel grandissimo ingegno, che è Arrigo Boito - pochissimi hanno rilevato, tanta è, oggidì, comune la smania dell'incensamento, a meno che essa non faccia posto alla smania contraria della demolizione ad ogni costo. Con un libretto siffatto fra le mani; dovendo dar risalto, con la musica a dei personaggi animati da cupe passioni che rumoreggiano sordamente nel loro seno e che non si esplicano con un'azione drammatica netta, decisa, potente, se non nel momento della catastrofe finale; era difficile troppo il fare un'opera dove la vena dell'ispirazione potesse sgorgare liberamente. Aggiungasi a questo che il soverchio dialogato del libretto e la conseguente spezzatura dei versi, portava, di necessità, la mancanza di fluidità alla musica, il fraseggiar breve e spezzato, il trionfo della melopea a danno della melodia. Ed è precisamente questo l'appunto che - se si vuol essere sereni ed imparziali - non si può a meno di fare all'ultimo lavoro del grande maestro. Tanto è vero che quando il dramma si esplica in tutta la sua potenza ed il frastagliamento dei versi non è più richiesto dallo svolgimento dell'azione - appunto come nell'ultimo atto - Verdi si manifesta in tutta la sua grande personalità e se non aumenta la potenza del pensiero di Shakespeare, vi sta del pari.


"Gazzetta di Parma" del 29 settembre 1887

L'OTELLO DI VERDI
III.
Nei giornali di provincia, a differenza dei grandi giornali, non solo si scrive come si sa; ma, anche si scrive quando si può. Ecco perché dopo aver fatti due articoli su l'Otello, causa una folla di altre occupazioni più urgenti, ho dovuto interrompere il mio compito, fino ad oggi, che ho tempo e spazio disponibili. Da quanto ho già scritto, credo aver manifestato abbastanza chiaramente la mia opinione circa l'opera ultima di Verdi. Per me, la considero un lavoro, in cui rilevasi bensì un grande talento ed una scienza musicale sbalorditiva; ma, a cui è venuto meno il soffio possente del genio. Sbaglierò; ma io penso e sento in tal modo e mi pare che la grande maggioranza del pubblico divida siffatto giudizio. Nel primo e nel quart'atto dell'Otello, la melodia vi sgorga abbastantemente abbondante e continua; però in quanto a calore, ad espressione, essa, indubbiamente, rimane al disotto delle melodie messe dallo stesso autore in altri suoi partiti, che hanno fatto delirare tutti i pubblici del mondo. Bello, gentile è il duetto d'amore; facile, ma, forse, troppo ripetuto il motivo del brindisi nel primo atto; di molto effetto il quartetto del second'atto; gentile e di un sapore schiettamente mozartiano il terzetto, così detto, degli equivoci, soave l'Ave Maria; di un effetto grande, per la sua rapidità, la scena dello strozzamento di Desdemona; ma, se togli questi pezzi, su gli altri, circa ad effetto teatrale, o c'è poco a lodare, o convien dire che sono di un pesante da non poterli digerire che a stento e fatica, quando pure ci si riesce. Tra questi, m'azzardo a metterci il credo di Jago ed il finale del terz'atto, quantunque molti critici li abbiano entrambi proclamati bellissime cose. Il monologo di Jago, per quanto detto bene, non strapperà mai al pubblico che un applauso niente convinto; il finalone, ad otto parti reali potrà essere consultato con grandissimo profitto dagli studiosi e gustato dagl'intenditori di composizione; ma al pubblico parrà cacofonia bella e buona, ed esso rinuncerà sempre di buon grado a cinque, o sei di quelle otto parti, pur di capire e di gustare le altre due, o tre. Come si vede, io parlo sempre del pubblico e non dei musicisti, perché l'opera è fatta esclusivamente pel pubblico il quale alzandosi dalla sedia, che ha pagato tanto salata, ha il diritto di lamentarsi, se non si è divertito, se no ha riso, se non ha pianto, se non si è sentito, in qualche modo, commosso. Chè tale è appunto l'ufficio dei lavori rappresentatavi, siano di pura prosa, che melodrammatici. Il pubblico, questo aggregato di molecole ignoranti, che forma la sapienza, giudica senza appello e con un'autorità tirannica, e perciò il suo giudizio è sempre il buono, piaccia, o non piaccia agli autori ed ai critici. Ora il giudizio del pubblico parmense è - per dirla con una frase di Jago - quel che è, cioè quello che ho cercato di tradurre. Può darsi che tale giudizio abbia a modificarsi; tuttavia, fino alla ottava rappresentazione non si è smentito mai. E credo fermamente, che non si smentirà nemmeno per l'avvenire, perché, nell'Otello la parte melodica - che è la cosa che capisce e gusta il pubblico, - è insufficiente e deficente. Viceversa, nell'Otello, è ammirevole la parte istrumentale. Qui Verdi è proprio grandissimo e mi pare possa star da pari ai più famosi istrumentatori antichi e moderni. L'ascoltare l'orchestra, facendo astrazione da ciò che si passa su la scena, è un vero piacere. Deliziosi gli infiniti particolari e i disegni armonici. Qui uno non si sazia mai di ripetere: bello, bello! E senza dividere gli entusiasmi strambi di taluni, pei quali una "sommessa nota tenuta dai violini nell'acuto" significa "il primo incerto barlume dell'alba" e che hanno visto - beati loro! - in un accordo di re bemolle nientemente che Venere in cielo e tante altre belle cose dello stesso genere; si può dire che Verdi ha raggiunto, sotto questo punto di vista, un'altezza sublime. Se, perciò, Verdi ha voluto dimostrare al mondo che la scienza dei numeri musicali non è privilegio della dotta Germania; si può proclamare altamente ch'egli è pienamente riuscito. Verdi con giusto orgoglio di artista e di italiano può esclamare: per lo meno ho fatto tanto quanto i più illustri musicisti stranieri; aspetto che essi facciano quanto ho fatto io... per lo passato. Per terminare, riassumerò il concetto che mi sono fatto dell'Otello di Verdi, con queste parole: se l'Otello colloca Verdi fra i più grandi strumentatori passati e presenti del mondo, nulla accresce alla sua immensa fama di operista. Secondo me l'apogeo lo aveva toccato con l'Aida; l'Otello segnerebbe il principio del perigeo. Questo mio concetto sarà magari sbagliato, assurdo. Poco male in verità. Più che fare una critica, ho inteso dire la mia opinione e questa ho detta con la franchezza che mi è abituale. D'altra parte, credo che le corbellerie, che si possono dire in fatto di giudizi artistici, non danneggino mai l'arte, a meno che non siano pronunziati da nomi autorevoli, o che la gente ritiene tali. Non sarà certo l'ultima e modesta lettera dell'alfabeto che potrà determinare un dato indirizzo artistico; e non avendo preoccupazioni da questo lato, né correndo pericolo di provare rimorsi, non mi posso chiamare malcontento di quanto ho scritto. Se il pubblico, in avvenire, mi darà torto; se l'Otello seguiterà a fare il giro trionfale dei teatri entusiasmando tutti, dalla platea alla picionaia; se gli autori novelli, ispirandosi a detta opera, riusciranno a farsi applaudire, tanto meglio in verità: sarò abbastanza di buona fede per ricredermi ed applaudire alla mia stessa sconfitta. Dell'Otello non rimangono più che quattro rappresentazioni, alle dodici promesse, da eseguirsi. Coloro che non hanno ancora sentito questo lavoro, non manchino di approfittare della buona occasione. Per quanto non divida menomamente gli entusiasmi di quasi tutti coloro che hanno scritto sull'Otello, ritengo che un parmigiano si farebbe torto, dicendo che non l'ha sentito. Tanto più che lo spettacolo, preso nel suo complesso, non potrebbe essere migliore, per volontà di artisti, imponenza di masse orchestrali e corali, sfarzo di messa in scena. Passerà del tempo parecchio, credo, prima che a Parma si riabbia spettacolo uguale a questo.
Z.

 

 

"Gazzetta di Parma" del 26 dicembre 1887

IL RE DI LAHORE
Se si dovesse por mente ai sibili che hanno accompagnato la calata del sipario, dopo l'ultimo atto del Re di Lahore dovrei dire che lo spettacolo ha fatto un fiasco solenne solo che sarei imbrogliato ad indicare cosa abbia dispiaciuto al pubblico: se la musica o l'esecuzione. Premetto che l'opera non è precisamente di quelle che più mi piacciono. C'è troppo frastuono, troppo tritume, in genere; ma bisogna pur dire che la melodia non fa difetto e che ci sono frasi ed interi pezzi di grande ispirazione. Bella la sinfonia, buono il finale del prim'atto; imponente per la sua sonorità quello del quarto, delizioso il preludio del quint'atto - che, iersera, venne eseguito magnificamente, senza che il pubblico si degnasse di dire un bravo all'orchestra - caldo, appassionato il duetto tra Nair e Alim nel second'atto, eccellenti e strumentati con grazia i ballabili - popolarissimo tra gli altri, il waltz - ; belle l'aria di Nair e di Scindia nel quart'atto; ben fatto il duetto tra Alim e Nair nell'atto quinto, in cui ripetesi la frase culminante del primo duetto d'amore; insomma i pezzi buoni e, in qualche caso, anche i buonissimi, non mancano e compensano quelli che, per avventura, possono giustamente, non piacere. E, poi, il Re di Lahore è stato rappresentato almeno una quarantina di volte in Italia ed in molti de' principali teatri s'è replicato e sempre con successo. Il voler, quindi giudicare questo spartito, in grado d'appello e cassazione, dopo il giudizio conforme di tanti pubblici, mi pare pretesa un po' arditella. Dunque sarà colpa dell'esecuzione? Anche per questo, conviene premetta che l'esecuzione è stata tutt'altro che perfetta, tranne che per l'orchestra, la quale sotto la direzione del Ferrari, è andata egregiamente. Prima di tutto mi parve l'opera non fosse matura alla rappresentazione. È inutile: quando trattasi di siffatti spartiti, conviene provare e riprovare. È una massima che può far torcere il muso ai Medebach, non gelosi d'altri che dell'economia dell'olio; ma che, osservata, è una garanzia di successo. E, invece, per il Re di Lahore, si sono fatte, relativamente, poche prove; massime avuto riguardo che tutti gli artisti non l'avevano mai cantato. Perciò si rimarcarono sconnessioni e stonature non poche, come quando avviene, che gli esecutori non sono in perfetta possessione della propria parte. Ma questi, dopo tutto, potevano essere benissimo considerati altrettanti nei, massime trattandosi di un pubblico, che, quando vuole, sa di essere di manica larghissima. D'altra parte, la sig. Elena Boronat è una cantante distintissima, la quale se non possiede straordinari mezzi vocali, ha però un'arte squisita ed un eletto sentire. Ed essa, infatti, malgrado la musoneria del pubblico e (ostilità per partito preso, evidente in una parte dì esso, seppe strappare più volte un calorosissimo applauso e fu la sola, che venne chiamata all'onore del proscenio. Il baritono Magini Coletti è un artista provetto e che ha calcato sempre con successo i migliori teatri. Non ha moltissima voce; ma canta benissimo, con gusto e sentimento. La sua romanza l'ha detta stupendamente, proprio da artista: ma, anche con lui il pubblico è stato di una severità, così fuori di proposito, da rasentare la sgarberia. Un applauso egli lo meritava e sono persuaso, che stasera, il pubblico non glielo lesinerà. Bellissima, possente voce da tenore ha il sig. Ottaviani; una di quelle voci che, al giorno d'oggi, sono un tesoro inestimabile. Eppure di questo tesoro egli fa un vero sciupìo. Io direi che egli non è ancora riescito a mettersi in gola bene la sua parte, e che, perciò, fatica il doppio, non riescendo sempre a legare, a smorzare. Tuttavia, nelle frasi in cui è necessario l'impeto, la forza, ha ragione lui e iersera ha costretto il pubblico ad applaudirlo. Sono persuaso che se acquisterà maggiore possesso della sua parte, saprà far molto meglio. Bella voce e robusta ha il basso Rossato. Non ha guastato la Boassò. I cori, invece, si sono permesse delle stonazioni, che, tuttavia, metterò volentieri sul conto del Santo Natale. In quanto alla messa in scena dirò che, in complesso, è discreta. Le scene - ahimè! - non sono del Magnani. Le si scorge subito. Ma non sono da meno di quelle che, per solito, si veggono a Milano, a Venezia, a Torino, a Bologna, a Napoli, ecc. È stata una sfortuna che il com. Magnani, ammalato, non potesse lavorare; ma, per le altre opere, sarà lui, od il suo coadiutore, prof. Giacopelli, che farà le scene. Il vestiario è ricco, ma non di molto buon gusto; belli e ricchi, invece, gli attrezzi. Il corpo di ballo, quest'anno, è più numeroso del solito e delle 18 ballerine di fila, un paio di quadriglie ballano assolutamente bene. Ciò che s'è visto di rado. Le due prime ballerine, signorine Tanzi e Bellini, ballano con molta grazia ed agilità. La prima, soprattutto, s'è fatta applaudire assai ed ha dovuto replicare un passo. Gran successo di bellezza la mima che rappresenta il Dio Pane. Riassumo. Eccetto i punti, già accennati, in cui vi furono applausi, tutti gli altri passarono sotto silenzio. I fischi furono in ultimo. Ciò che rende difficile lo spiegare chi, o cosa il publico abbia voluto fischiare. Io, quindi, spiego il contegno del pubblico coll'effetto di una digestione troppo laboriosa; compita la quale, esso ritornerà, certamente, a sentimenti non solo più miti; ma più ragionevoli e giusti.


"Gazzetta di Parma" del 16 gennaio 1888

LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE DELLA FORZA DEL DESTINO
Con mio dispiacere, debbo registrare un insuccesso. Insuccesso, tuttavia, parziale, al quale si potrebbe ancora rimediare - siccome, infatti, si tenta - in modo da raddrizzare le sorti dello spettacolo. La cronaca della serata di sabato mi dispenserà da un lungo ragionamento. Il teatro era splendido. Pieni i palchi; piena la platea. Pubblico, come al solito molto severo. Però, la musica ispirata, calda, affascinatrice di Verdi, pareva avesse avuto il prestigio di dissipare la musoneria generale. Infatti, la sinfonia, eseguita egregiamente, con slancio, vigore, precisione e bellissimi coloriti, procurò al bravo maestro Ferrari ed a' suoi professori un applauso entusiastico e del pezzo si volle la replica. Il prologo - che, musicalmente parlando, è tutt'altro che una bella cosa - passò sotto silenzio; ma gli applausi proruppero alla fine dello stupendo primo quadro del prim'atto, concertato ed eseguito inappuntabilmente. Poi l'ambiente si riscaldò sempre più al secondo quadro dello stesso atto. La romanza del soprano, cantata con espressione dolcissima ed insieme drammatica, e con encomiabile intelligenza artistica dalla signorina Boronat fu gustata ed applaudita calorosamente. Poi, al duetto tra donna e basso, la signorina Boronat ed il Rossato - il quale si appalesò, inaspettatamente, artista di bello avvenire, perché dotato di voce simpatica, robusta, intonata - riscossero applausi e chiamate. Il paradisiaco finale della vestizione, ebbe, per parte di tutti, una squisitezza d'esecuzione, quale la si può ottenere soltanto in un grande teatro, dove ci siano masse orchestrali e corali di prim'ordine ed una direzione hors ligne. Il pubblico, qui, non poté star su le mosse e proruppe in applausi entusiastici; e quando gli artisti, chiamati alla ribalta, vi trascinarono con loro il maestro Ferrari, non ci fu spettatore che non battesse le mani e non gridasse: bravi! Ma qui vengono le dolenti note. Col finale del prim'atto la parabola dello spettacolo aveva toccato il punto culminante. Il primo duetto tra tenore e baritono, andò a rotoli. Non so cosa avesse in gola il tenore l'altra sera; ma è fatto che raramente gli esciva una nota intonata. Il nostro pubblico, che raramente perdona il peccato di stonazione, cominciò a protestare violentemente. Se il tenore, intimidito dall'accoglienza - severa, ma non ingiusta - si smontò totalmente, anche gli altri artisti si disanimarono e, quel ch'è peggio, sorse nel pubblico la diffidenza e la reazione che, in alcuni casi, si spinse fino all'ingiustizia. Infatti non si applaudì la ronda, che pure venne eseguita assai bene; passò pure sotto silenzio la romanza del baritono, il quale se anche non possiede un gran volume di voce, canta da artista; il rataplan non levò un ragno da un buco, quantunque i cori facessero miracoli di precisione e d'intonazione - ciò di cui mi compiaccio col maestro Gerbella - perché la signorina Guernieri paralizzata dalla paura, tenne in gola la bella voce, che le si ammirò in occasione non lontana. Non parlo, poi, degli altri due duetti tra baritono e tenore: un massacro; sempre per causa di quest'ultimo. Così si venne all'arione del'ultimo atto, che la signorina Boronat, scombussolata dai precedenti avvenimenti eseguì in preda al panico e malgrado ciò, assai encomiabilmente; ed al sublime terzetto finale, una pagina che basterebbe da sola a far grande un maestro, che venne eseguito un po' come Dio vuole. Al calar della tela, le disapprovazioni furono generali e - lo dico francamente - assai meritate. In quanto alle scene ed al vestiario, non c'è nulla a ridire. Le prime sono le stesse che il Magnani dipinse nel 1872; vale dire stupende; il vestiario è decente. Non posso astenermi dal fare un'osservazione. L'azione succede nella metà del secolo XVIII, quindi la parrucca bianca, per gli uomini, è indispensabile, e con la parrucca la barba intera, assolutamente non va. Al più, solo i baffi possono essere tollerati. Malgrado questo, il tenore, che porta barba intera nerissima ha messo la parrucca facendo una figura delle più deplorevoli. Il baritono, poi, per non sacrificare la sua barba biondo castagno, soppresse la parucca. Ecco: ciò è cosa che non so compatire. Il portare la barba sarà comodo e magari bello; ma, quando, dall'esigenze della scena, si è costretti a mutare, ad ogni momento, la faccia, l'artista coscienzioso non dovrebbe portarla. Per ciò tanto, viva la faccia ...sbarbata degli artisti francesi. E poi mi sembra che quando si ha la fortuna di esercitare una professione, che, in generale, rende tanto quanto la paga di un ministro a dir poco; si potrebbe bene per servir a dovere un padrone forse capriccioso e tiranno, ma che, paga tanto profumatamente; sacrificare il così detto onor del mento. Intanto, iersera, il teatro è rimasto chiuso. L'Impresa si è data attorno per trovare un nuovo tenore e mi si accerta l'abbia, infatti, trovato; cosicché mercoledì, o, al più tardi, giovedì sera, si spera possa aver luogo la seconda rappresentazione della Forza del destino. A Milano è andata in scena l'Africana con il celebre tenore Gayarre, il quale fanatizzò. Tutti gli altri apparvero al disotto del mediocre.
Z.


"Il Presente" del 22 gennaio 1888

LA FORZA DEL DESTINO al Teatro Regio
La seconda rappresentazione della Forza del Destino, ch'ebbe luogo iersera al nostro Teatro Regio col nuovo tenore signor De Sanctis Marianecci, ha avuto - e siamo lieti di constatarlo - un ottimo successo. Non ci fu entusiasmo nel pubblico, un po' riservato, come sempre, trattandosi di giudicare uno spettacolo che aveva tutta l'importanza di una prima rappresentazione, ma esso dimostrò in modo non dubbio la propria approvazione plaudendo nei punti principali dello spartito e a rappresentazione finita. Il nuovo tenore signor De Sanctis, poiché da lui dipendeva iersera l'esito dello spettacolo, ha vinto dunque la palma. Ed è invero artista di bel pregio, sia per i buoni mezzi vocali, sia per l'ottimo uso che sa farne, sia infine per la non comune intelligenza drammatica. Si rivelò valente artista specialmente nei due duetti col baritono, nel terzo e nell'ultimo atto, e fu sinceramente applaudito. Anche per parte degli altri artisti l'esecuzione riuscì commendevolissima. La signorina Elena Boronat rinnovò trionfalmente il successo ottenuto nella prima rappresentazione, facendo prodigi di canto e di drammatica. Fu molto e meritamente festeggiata specialmente nella sua romanza: Me pellegrina ed orfana e nel duetto col tenore nel primo atto; nella sua aria: Madre, pietosa vergine e nel duetto col basso, nel secondo atto; e nella deliziosa romanza: Pace, mio Dio nell'ultimo atto, dopo la quale dovette presentarsi al proscenio fra le più vive acclamazione. La signorina Guarnieri fu anche iersera ammirabile ed ammirata nella parte di Preziosilla. Voce chiara, simpatica, intonata, fraseggiare corretto, franca e intelligente sicurezza di scena fanno di lei un'artista di merito altissimo. La sua aria nel secondo atto: Evviva la guerra e il Rataplan le valsero caldi e unanimi applausi. Il baritono Magini-Coletti gode in arte fama elevatissima: e questa sua fama ha saputo presso di noi pienamente confermare. Egli è artista nel vero e più nobile significato della parola, dappoiché ai pregi di una voce simpatica, intonata, educata ad ottima scuola e d'una mirabile forza espansiva riunisca quello di una azione drammatica intelligente, accuratissima, quale difficilmente si riscontra in artisti lirici. Ebbe lusinghiere ovazioni nel duetto con Preziosilla e al suo racconto nel secondo atto, e nei due duetti col tenore nel terzo e quarto atto. Del basso Rossato abbiamo già detto ch'è un artista finito: di lui non sarà mai detto bene abbastanza. È un esordiente che ha dinanzi a sé un avvenire de' più splendidi. Fu molto applaudito nei pezzi cui abbiamo più sopra accennato. Fu in modo speciale festeggiato, assieme alla signorina Boronat, dopo lo stupendo duetto del secondo atto, di cui si volle il bis. Abbastanza bene il baritono Viganotti nella parte di Fra Melitone. L'orchestra, diretta egregiamente dall'esimio maestro Pio Ferrari, fu pari a sé stessa. Il suo a solo nel secondo atto, durante la scena della monacazione, le valse applausi calorosissimi: anche di questo pezzo, pagina sublime di musica italiana, si volle la replica. Bene i cori, per i quali ci congratuliamo coll'egregio maestro Gerbella. Concludendo questi brevi cenni e ripromettendoci di parlare più estesamente ed accuratamente di questo spettacolo in un ulteriore articolo, ci compiacciamo che le sorti dell'attuale stagione al nostro massimo teatro siano, con questa Forza del Destino, rassicurate.
rf.


"Il Presente" del 29 gennaio 1888

La Forza del Destino col nuovo tenore signor Fenaroli non ebbe iersera al nostro Teatro Regio esito lieto. Furono, come al solito, applauditi durante la rappresentazione le signorine Boronat e Guarnieri, il baritono Magini Coletti, il basso Rossato, l'orchestra, i cori. Il tenore Fenaroli ebbe qualche momento felice ma il pubblico lo giudicò insufficiente e a spettacolo finito manifestò con sibili la sua disapprovazione. Speriamo l'Impresa possa ancora rimediare a questo spettacolo. All'ora d'andare in macchina, non possiamo sapere di positivo se questa sera vi sia o no rappresentazione: in caso affermativo, sarà con un altro tenore.
rf.


"Gazzetta di Parma" del 3 febbraio 1888

Il tenore cav. Vincetelli ha saputo, iersera mostrare di che sia capace un artista provetto. Gli anni nulla, o ben poco, hanno potuto contro quella sua gola d'acciaio, che è ancora in grado di emettere note robuste, squillanti, che più di un giovine gl'invidierebbe; senza contare che ha tutte le risorse degli artisti invecchiati al fuoco della ribalta. Il pubblico s'è mostrato arcicontento di lui e lo ha applaudito fragorosissimamente e l'ha chiamato all'onore del proscenio in tutti i suoi pezzi principali, specialmente dopo la romanza ed il primo duetto col baritono. Bene tutti gli altri artisti ed applausi all'orchestra dopo la sinfonia. Se non nascono nuove disgrazie, tutto fa sperare che lo spettacolo potrà procedere senza altri inconvenienti. L'impresa poi ha avuto un magnifico pensiero: quello di mettere in scena un'opera con una compagnia affatto nuova, onde proseguire nelle rappresentazioni d'obbligo senza interruzioni. L'opera scelta è il Il Barbiere di Siviglia. Per quest'opera sono stati scritturati i seguenti artisti: la signora Turigi (Rosina) il tenore Gnone (conte d'Almaviva) il baritono del Puente (Barbiere) il basso Vanden (Don Basilio) il basso comico Carbone (Don Bartolo). Eccetto il Del Pueute, che il pubblico parmigiano tanto applaudì nella parte di Escamillo nell'opera Carmen tutti gli altri artisti sono nuovi per questa piazza. Tuttavia ho visto che i giornali ne parlano con il massimo favore. Il Barbiere andrebbe in scena mercoledì, od al più tardi, giovedì sera.
Z.


"Gazzetta di Parma" del 10 febbraio 1888

Ricordo che l'ultima volta che si diede al Regio il Barbiere di Siviglia - fu nel 1864 - mi toccò d'assistere ad uno de' più solenni capitomboli che registri la cronaca teatrale di questi ultimi vent'anni. In quella stagione di carnevale s'erano dati la Lucia di Lammermoor e il Don Sebastiano; ma per cause diverse, non s'erano potuto compiere entro il termine fissato, tutte le rappresentazioni promesse agli abbonati, cosicché, essendo partiti gli artisti della stagione, si pensò di mettere in scena il Barbiere, facendo un piccolo spunto nella quaresima. Ma, gli abbonati, che credevano aver diritto ad uno spettacolo grande, non ebbero pietà dell'impresa e andarono a teatro col proponimento di fare giustizia sommaria del povero Barbiere. C'era un teatrone. Gli artisti, man mano che escivano erano accolti con segni manifesti di ostilità, che gl'intimidiva e paralizzata; la tela cadde dopo al primo atto, in mezzo ai fischi. Peggio si fu all'atto seguente. La marea montava a vista d'occhio e stava per mutarsi in burrasca. E questa scoppiò, effettivamente, terribile al momento del: "Zitti che bussano". La "forza", nel intimare che si aprisse, stonò maledettamente. Non ci volle altro. Se non crollò la volta del teatro, è tutto merito dell'architetto Bettòli, che sapeva il fatto suo e che aveva preso le proprie precauzioni. L'atto non fu lasciato terminare. La folla evacuò la sala fischiando, schiamazzando, urlando. Non ricordo bene se fossero resi i denari alla porta, ma mi pare di no. Mi sono lasciato trasportare dall'onda delle memorie; ma non me ne dispiace troppo. L'aver narrato quanto successe nella sera del 2 marzo 1864, mi dispensa, ora, dal narrare quanto accade iersera. La stessa causa o giù di lì - ha prodotto gli stessi effetti. Anche iersera il sipario venne fatto calare all'arrivo della "forza". Il Barbiere, iersera, è caduto per partito preso, non per assoluta deficienza dell'esecuzione, sebbene questa non fosse di certo in tutte le parti, superiore alla critica. Anzi debbo dire che l'orchestra, dopo la sinfonia, il tenore, dopo la romanza e specialmente la bravissima signora Torrigi - dotata di bella voce e di agilità, a dirittura, straordinaria - ebbero, più o meno clamorosi ed insistenti, segni non dubbi di approvazione. È caduto perché il pubblico e specialmente gli abbonati si sano creduti lesi nei loro diritti, pretendendo per terza, un'opera ballo, come le due precedenti e non un'opera buffa. Mi guardo bene dal decidere se il pubblico abbia, o meno, avuto ragione e se era il caso di applicare il summum jus, proprio, ora, che siamo agli sgoccioli della stagione. Ma, cosa fatta, capo ha. Ora termino questa sconnessa cronaca della serata. Calata la tela, dopo il secondo atto, il pubblico stette un gran tempo ad aspettare una decisione. Ma questa non poteva essere che una sola. Seguitare la rappresentazione, mentre il pubblico non aveva nemmeno permesso si terminasse il second'atto, sarebbe stata una follia; un voler suscitare disordini. Si presentò, quindi, il buttafuori ad annunziare, che, stante le disapprovazioni del pubblico, la rappresentazione doveva considerarsi come terminata. E i danari? domandarono alcuni. Vogliamo i danari, od, almeno, il biglietto, soggiunsero altri. Ma convien dire che questi erano un'esigua minoranza. La gente, poco a poco sfollò; però nell'atrio rimasero quelli che volevano la restituzione del biglietto, a gridare ed a fischiare, non che molti, i quali volevano invece, vedere come la cosa andava a finire. Il chiasso durò un pezzo. Finalmente, allorché si poterono persuadere, che né i danari né il biglietto sarebbero restituiti, pensarono bene d'andarsene e la cosa finì lì, senza incovenienti di sorta. La pretesa di costoro era fondata? Non direi, lo spettacolo era già quasi giunto ai due terzi, allorquando venne interrotto quindi secondo la consuetudine , la restituzione del biglietto od il rimborso non era più dovuta. Non so cosa ora succederà. Forse si tirerà avanti, alla bell'è meglio, con la Forza del destino; ma, in questo caso, è evidente che tutte le rappresentazioni promesse non potranno essere date. Questo è un nuovo scandalo che si aggiunge alla somma non indifferente degli altri, successi negli scorsi anni: Speriamo che il Comune si persuaderà una buona volta, che le 30000 lire, ch'esso annualmente consacra al teatro, sono proprio indegnamente gettate. Il nostro teatro per una quantità di ragioni, è diventato impossibile. Gl'impresari, che per strana combinazione, hanno qualche cosa da perdere, non vogliono più arrischiarvisi. Gli artisti oramai, - se non sono, o esordienti o sfiatati - si fanno il segno della croce quando sentono nominare il Regio di Parma. Così non si va più innanzi. Meglio, dunque, dare tanto di catenaccio al nostro massimo e di riaprirlo dacché si persiste a volere la stagione di carnevale quando i signori palchettisti - i quali, ora, pagano un canone derisorio - si sobbarcheranno, spontaneamente a triplicarlo o quadruplicarlo; quando il pubblico si persuaderà che con quelle due miserabili lirette che paga negli altri teatri si hanno poco più delle marionette e, perciò, che, per avere de' buoni spettacoli, conviene spuntare la lesina e spendere il suo bravo scudetto. Allora; ma allora soltanto, le pretese del nostro pubblico potranno parere giustificate.
Z.


"Il Presente" del 14 febbraio 1888

Oggi, ultimo giorno di Carnevale, il nostro Teatro Regio è ancora chiuso agli spettacoli ed è ormai certo che non si riaprirà più. È - lo ripetiamo - uno stato di cose molto vergognoso: ecco a che cosa ci ha condotto la direzione delle cose teatrali affidata al signor Sindaco, anziché ad una apposita Commissione o a persona atta all'uopo! Intanto la faccenda si complica sempre più: ci si assicura - fra l'altro - che l'impresa stia ora intentando una causa al Municipio. Appunteremo i fatti e ne terremo informati i lettori.